martedì 29 dicembre 2009

BUDDY RICH BIG BAND - "Ok With Jay"

A SWINGING END OF THE YEAR

sabato 26 dicembre 2009

BUON NATALE BARTLEBY


Buon Natale Bartleby,
questi non sono auguri di circostanza, credimi. Sono fermamente convinto che la tua esistenza è stata, sia e sarà molto importante per molte persone, come lo è stata per me.
Grazie a te ho compreso il senso di quel sentimento che mi è ricorrente e che tanto spesso si affaccia alla finestra dell'anima come un'oscura presenza, come un ingombro imbarazzante: il senso di inadeguatezza, di profonda inutilità dello sforzo vitale, di consapevolezza del primato del nulla, il disperato desiderio di tirarsi fuori da un gioco inutile, dall'esito scontato.
Quel che rimane è la necessità di raccontare, di condividere con altri la propria sconfitta, di offrire all'umanità la propria versione, il personale resoconto di battaglie perse e di false vittorie.
Caro Bartleby, mi hai dato il coraggio di raccontare sogni e incubi, disillusioni e utopie, entusiasmi e tristezze di un destino beffardo dal quale non ci si può sottrarre.
Grazie a te ho compreso che la dignità di un uomo si misura in quante volte si è stati capaci di rispondere: "preferirei di no". Giacchè la negazione rimane l'unica opzione per chi, come noi, non vuole rassegnarsi a un destino scritto in un libro che non potremo mai leggere.

venerdì 25 dicembre 2009

martedì 15 dicembre 2009

TORO SCATENATO


La violenza politica è sempre un atto di barbarie. Chi è vittima di questa barbarie è sempre doppiamente vittima: per aver subito una violenza nel corpo e per aver subito un abuso della propria integrità morale e intellettuale. La questione non può e non deve essere liquidata invocando il fragilissimo equilibrio psicologico di colui che ha assalito il presidente del consiglio poiché è reale il clima che contrappone i pro e gli anti Berlusconi: un clima teso, fosco, estremamente sensibile alla minima cosa per imboccare la strada dell’escalation. E’ la prima volta, dopo i tenebrosi anni di piombo, che la politica genera nell’opinione pubblica un’onda di partecipazione emotiva così grande e così incontrollabile. Certo, la crisi economica, i licenziamenti, la cassa integrazione, i precari della scuola lasciati in mezzo a una strada, i giovani senza speranze, quarantenni e cinquantenni che non hanno mai avuto un posto di lavoro vero, tutto questo ha un peso: ma è un peso strano, un peso che non va a rinforzare l’opposizione politica spingendola a uscire dal letargo in cui è caduta per avere il coraggio di progettare una vera alternativa. Non è un peso che spinge i sindacati a fare muro per difendere il lavoro ad ogni costo. Ma allora che succede?
Succede che stiamo assistendo, sbigottiti e incazzati, alla cannibalizzazione dello Stato da parte della politica. Lo Stato, questa complessa architettura giuridica costruita sui pilastri della Costituzione, viene roso quotidianamente dalla classe politica. Una classe politica aggressiva, arrogante, presuntuosa, ignorante e populista, formata da ominicchi prepotenti, arrivisti, dai molteplici appetiti. Ma quando è incominciato tutto ciò? E’ stato Silvio Berlusconi a incominciare a scardinare i pochi punti di riferimento rimasti in piedi dopo tangentopoli. Con toni in stile Peppone e Don Camillo ha cominciato a minare la credibilità della magistratura intesa come sistema. Ha voluto deliberatamente confondere il principio della delega (grazie al quale vince le elezioni) con quello dell’investitura consacrante (Deus vult). Ha demolito la figura del Presidente della Repubblica e quella della Corte Costituzionale, ha allietato gli ambienti della politica internazionale con barzellette, gaffes, figuracce ignobili e grottesche autocelebrazioni. Da quando esiste la Repubblica Italiana i ruoli di Presidente così come di Giudice Costituzionale sono sempre stati coperti da uomini provenienti dalla politica, ma mai nessuno si è sognato di offenderli accusandoli di tradire la Costituzione per favorire il proprio partito. Invece Berlusconi l’ha fatto, disprezzando apertamente le istituzioni.
Nel film di Martin Scorsese “Toro Scatenato”, Robert De Niro interpretava il pugile italo americano Jack La Motta, un grande campione del ring obnubilato da una personalità egocentrica e delirante che finirà per avere il sopravvento riducendolo alla povertà e alla solitudine. Berlusconi in politica è un Toro Scatenato, senza il senso dell’opportunità e dell’equilibrio. Il suo antagonista naturale è l’ex giudice Di Pietro, forcaiolo per vocazione, populista per necessità: un novello Robespierre più incline alle purghe che alla dialettica. E ci si meraviglia che sul Web ci siano luoghi in cui si concentrano migliaia di imbecilli che vorrebbero uccidere Berlusconi? E ci si meraviglia che ci siano ebeti pronti a manifestare solidarietà per l’aggressore di Berlusconi?
Francamente c’è poco da meravigliarsi, dice il vecchio adagio: chi semina vento raccoglie tempesta.
E Berlusconi ne ha seminata di roba, non c’è che dire. C’è un ultimo aspetto tragicomico che va evidenziato: questo penoso e deprecabile episodio avrà, nel tempo, un effetto benefico sulla popolarità del nostro premier, chi ha voluto colpire (e anche per questo è sicuramente fuori di testa) non ha calcolato l’effetto martire, non si è reso conto di aver innescato un processo di beatificazione politica tendente a innalzare Berlusconi nell’olimpo dei grandi della patria che hanno pagato un tributo di sangue per la libertà.
E invece ha fatto tutto lui. Toro Scatenato, tutto preso dall’agone quotidiano, concentrato a colpire e a parare, non ha visto un palo e ci ha sbattuto il grugno. Metaforicamente parlando è stato un incidente di percorso dal quale, forse, potrà addirittura guadagnare qualcosa.
Pacificazione nazionale? Meglio la pax romana: eliminiamo le elezioni e i candidati si battano all’ultimo sangue nei nostri begli stadi. Diretta Rai o Mediaset?

venerdì 27 novembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

FRED ASTAIRE - Say It With Firecrackers

ESPLOSIVO

LA FELICITA'


Che cos’è la felicità? Eppure la risposta dovrebbe essere facile, l’uomo parla sempre della felicità e agisce sempre per poterla ottenere. Ma siamo sicuri di conoscerla? Descrivere la felicità non è una cosa semplice poiché essa è uno stato dell’animo, è una condizione della mente, è la sommatoria di diverse intense sensazioni. Partendo da queste ultime affermazioni potremmo dire che non è il ragionamento a condurci verso la felicità, infatti l’uomo felice non sa di esserlo quanto piuttosto sente di esserlo. Una sensazione, quindi, è quella che ci dà il segnale di averla colta o, meglio, di essere stati colti da essa. E, proprio per questo, non riusciamo a definire la felicità e siamo in grado solo di viverla. Essa, a differenza del suo opposto: il dolore, non investe alcuna problematica, non suscita alcun interrogativo, non coinvolge alcuna riflessione, non induce alcuna separazione tra il sé e il fuori dal sé, non crea alcun muro tra noi e la realtà che ci circonda. La felicità, così come il dolore, non è un sentimento etico, essa non è appannaggio del giusto come il dolore non è punizione per il colpevole. Queste due sensazioni sono assolutamente aleatorie ed entrambe sono dominate e consumate dal tempo. Quel tempo che ci fa sopravvivere al dolore e che dissolve la felicità.
Per il pensiero greco antico la felicità consisteva nella capacità, data dalla sorte e coltivata dall’uomo attraverso l’etica, di controllare il proprio destino. Per il pensiero giudaico-cristiano, invece, la felicità non è di questo mondo e viene promessa da Dio a tutti coloro che, in questo mondo, saranno capaci di guadagnarla attraverso l’esperienza del dolore.
Nella società contemporanea la felicità assume un senso individualistico legato al godimento privato, al raggiungimento di uno stato di benessere vincolato alla disponibilità di denaro, di merci e di rapporti umani affettivamente e fisicamente appaganti. Questo concetto si presta molto ad attribuire alle circostanze e al mondo esterno la responsabilità di un eventuale fallimento: fattori come l’amore, la salute, il denaro, l’età e l’aspetto fisico, non sono sotto il nostro totale controllo. E quindi il fallimento diventa causa esterna a noi, indipendente dalla nostra volontà. In sostanza abbiamo assunto modelli e stereotipi imposti dalla società di massa e li abbiamo introiettati a tal punto da ritenerli elementi fondamentali su cui costruire il nostro traguardo di felicità. Ma siccome si tratta di modelli difficili da raggiungere per la maggioranza degli uomini, ecco che subentra il dolore, la frustrazione, l’ansia, insomma uno stato permanente di sconfitta che arriva ad intaccare persino la salute psico-fisica.
Eppure se è vero che la felicità è una sensazione di comunione, di armonia, di non dualismo tra noi e ciò che ci circonda, appare piuttosto chiaro che questa dimensione passa attraverso il nostro stato di equilibrio e di accettazione di quello che siamo. Il primo passo verso la felicità dovrebbe proprio essere quello verso la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e delle nostre qualità. Il passo successivo dovrà riguardare l’affermazione e la realizzazione di sé, quello che vuol dire Nietsche quando scrive:”Diventa ciò che sei”. Seguendo questa strada ci accorgeremo che raggiungere l’armonia fra noi stessi e ciò che ci circonda è possibile, così come è possibile vivere bene se adottiamo la misura dei nostri limiti e delle nostre capacità. Il giusto mezzo si trova fra il disprezzo del mondo del pensiero giudaico-cristiano e l’edonismo senza limiti del pensiero contemporaneo. Se, da una parte, saremo capaci di amare questo mondo (perché nell’eternità ci annulliamo) e dall’altra riusciremo a rifiutare i feticci della società dei consumi, forse risulterà più facile rivalutare noi stessi per quello che siamo e per quello che possiamo fare e immaginare. Raggiungeremo la felicità? Non lo so, ma certamente avremo costruito un percorso di vita con un senso, senza rimpianti né frustrazioni, aperto ad accogliere tutte le opportunità che il Caso ci vorrà offrire. E se capiterà di sentirci felici vivremo quegli istanti con tutta la pienezza che ci sarà consentito di avere, così un giorno, quel gran giorno, potremo dire: sono stato felice.

mercoledì 25 novembre 2009

UNA SECONDA VITA


A volte accade che la nostra esistenza subisca una serie di eventi che la spingeranno a cambiare radicalmente. Le cause possono essere varie: dal fallimento matrimoniale alla perdita del lavoro, dalla scomparsa improvvisa di una persona cara all’incontro imprevisto con un Testimone di Geova, dalla vincita miliardaria all’innamoramento con Sharon, al secolo Pedro da Rio de Janeiro.
Accade che la nostra vita cambia completamente il suo corso per imboccare una strada che mai avremmo pensato di dover percorrere. In sostanza ci troviamo a vivere una nuova, una seconda vita. Lo shock dovuto al cambiamento subentra solo dopo aver realizzato che le cose non stanno più come prima, solo dopo aver razionalizzato la presenza di una nuova situazione. Fino a quel momento si continua a vivere come prima andando inesorabilmente a sbattere la testa contro le nuove architetture, fisiche e mentali, che hanno immediatamente sostituito le vecchie. Così, dopo aver collezionato un bel numero di bernoccoli e di ginocchia sbucciate, entriamo nel nuovo ordine di idee che la nuova realtà ci impone. E qui diventa dura, dura perché lo shock del nuovo ci fa sentire irrimediabilmente impreparati, ansiosi di non riuscire a gestire questa seconda vita. Non poco incide il senso di fallimento che ci trasciniamo appresso dalla nostra prima esperienza e che fa da freno a ogni nostro tentativo di muoverci in questa nuova realtà. A volte capita che lo shock conduca ad una sorta di ubriacatura dovuta alla sensazione di essersi liberati dai vecchi pesi e contrappesi e che ci assalga una specie di delirio di onnipotenza che potrebbe portarci dappertutto: dalla frequentazione di massaggiatrici più o meno professionali al ritiro spirituale presso i frati scolopi, da serate in locali per scambisti a tristissime crociere per singles.
Invece quello di cui realmente avremmo bisogno è tutt’altro; dovremmo cercare di incanalare l’energia sprigionata dallo shock in un percorso di ricostruzione di noi stessi, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova dimensione nella quale poterci riconoscere e poter riprendere questa nuova esperienza di vita. Il passato, se da una parte è incancellabile ed è patrimonio della memoria, dall’altra esso non è una prigione, esso è solo un capitolo chiuso di una storia che continua e che potrebbe riservare delle grandi e piacevoli sorprese. L’errore che assolutamente non si deve commettere è quello di cercare di replicare situazioni e comportamenti che invece fanno parte della precedente conclusa esperienza. Aprirsi al nuovo non deve essere una tattica ma una strategia, ci vuole il coraggio di rischiare, di mettersi in discussione, di cambiare opinione, di respirare la vita a pieni polmoni. Dobbiamo accettare il cambiamento come una nuova opportunità che ci viene offerta dal Caso e/o dalla Fortuna, il rifiuto non ha nessun senso poiché non ci riporterà indietro nel tempo e nello spazio né ci consentirà di continuare a vivere in modo equilibrato in una situazione che è oggettivamente mutata. Buttarla sulla iattura trascendentale è segno di ignoranza e d’impotenza psichica, il corso della Natura è ricco di cambiamenti e mutazioni in cui la vita e la morte si alternano in una sequenza casuale e imprevedibile così come ancora più imprevedibile è la nostra sorte. Dichiarare forfait prima che i giochi siano chiusi fa parte delle nostre opzioni ma bisogna fare questa scelta solo dopo aver seriamente tentato altre strade e senza aver dato troppo peso né all’orgoglio (ma chi ci crediamo di essere?) né a quei legami di sangue che possono essere una ricchezza ma anche una robusta catena che ci tiene legati ai ceppi dell’egoismo e al concetto tribale della famiglia. Una seconda vita può voler dire la scoperta di un altro mondo, di altre persone, di un altro modo di vivere, di un altro modo di vedere le cose. Ma soprattutto può voler dire scoprire una parte di noi stessi che prima era rimasta nascosta, scoprire delle nostre qualità che non sapevamo di possedere. Assecondare il cambiamento ci porta ad essere in sintonia con la vita e meno legati ai vincoli del pregiudizio, certo non è comodo cambiare abitudini e stile di vita soprattutto quando non si è più giovani, ma il disagio dei nuovi problemi è sempre preferibile allo spettacolo di noi stessi agonizzanti tra vecchie abitudini coperti dalle piaghe purulente del ricordo di ciò che è svanito.
“La vita appartiene ai viventi, e chi vive deve essere preparato ai cambiamenti”. James Joyce

domenica 22 novembre 2009

CASA DI CURA "LA TEMPESTA"


Ancora un allestimento de “La Tempesta” per il Teatro Stabile di Napoli e la regia di Andrea De Rosa. Una compagnia solida, con elementi di spicco come Rolando Ravello, rinforzata dalla presenza di Umberto Orsini, uno degli ultimi “principi” del teatro italiano.
“La Tempesta” è forse l’unica opera di Shakespeare che si presta “naturalmente” ad operazioni di revisione drammaturgica e di modernizzazione. Le storiche revisioni di Strelher e di Peter Brook ne sono un valido esempio, per non parlare delle versioni cinematografiche che nel film di Greenaway (Prospero’s Book) trovano l’apice di ogni verosimile astrazione.
De Rosa opera due alterazioni fondamentali: da un lato riduce e quasi annulla l’aura di magico mistero che avvolge la figura di Prospero/Orsini e dall’altro modifica il ruolo di Calibrano/Ravello sottraendogli ogni elemento di cruda e quasi disumana naturalezza per consegnarlo a un destino di semi demente ossessionato dal sesso. In questa nuova ottica Prospero, vestito di un grigio cappottino da pensionato, perde ogni alone di potenza sovrannaturale per apparire come una sorta di eminenza grigia incapace di esercitare il suo dominio totale neanche su Ariel, il quale, a sua volta, ci viene presentato non come un vitalissimo elfo bensì come una sorta di Genio della lampada di Aladino, anziano, calvo, col pizzetto imbiancato e tanta voglia di tornare a russare nella sua comoda lampada. L’isola diventa così una sorta di gerontocomio e clinica per malati di mente, cosa scenograficamente confermata dalla presenza del solito lettino ospedaliero a rotelle, al centro della scena. Cosa rimane allora del dramma labirintico, della ricerca dell’uomo di dominare la natura, della brama del potere, dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, del rischio che le colpe dei vecchi possano ricadere sulle nuove generazioni, del pentimento e dell’esercizio del perdono? Cosa resta di un dramma che conclude la visione rinascimentale dell’uomo protagonista del proprio destino per aprire il nuovo scenario barocco in cui il mistero e l’incertezza della propria identità si misura con l’illusione dei sensi e l’imprevedibilità della natura? Proprio un bel niente.
Il mitico monologo di Prospero sull’illusione della realtà, sulla vita che è teatro e vana rappresentazione, diventa un biascicante delirio di un vecchio claudicante sull’orlo di una crisi prostatica.
In ogni caso la Compagnia merita un voto di plauso, se non altro per aver reso alla perfezione il punto di vista del regista. Una menzione speciale per il suono: la trovata di investire gli spettatori con tuoni inaspettati e assolutamente esagerati (roba da crakkare pacemaker e apparecchi Amplifon) ha evitato parecchi sonni placidi in platea.

venerdì 20 novembre 2009

RICORDARE SCIASCIA


Vent’anni fa, il 20 Novembre 1989, si spegneva uno dei più grandi scrittori italiani del XX secolo: Leonardo Sciascia. Naturalmente questo anniversario passerà senza che nessuno si sia preoccupato di ricordare la vita e le opere di uno scrittore che ha lasciato un segno indelebile nella cultura e nella letteratura di questo paese. Eppure mai come ai nostri giorni avremmo bisogno del contributo di un intellettuale libero e onesto come Sciascia che ci aiutasse a capire e a interpretare una realtà politica, sociale ed economica che in vent’anni è mutata così radicalmente.
Siciliano di Racalmuto, Sciascia apre la sua sicilianità al contesto culturale europeo proseguendo sulla strada già battuta da Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Le sue storie sono un racconto critico di una realtà in cui semplicità e complessità sono due facce della stessa medaglia. Quando, nel 1960, fu pubblicato il romanzo “Il Giorno della Civetta” in cui, per la prima volta, uno scrittore descriveva le caratteristiche e la cultura della mafia, il potere politico e istituzionale si sforzava ancora di negarne l’esistenza parlando di semplice malavita locale. Sciascia è il primo a raccontare di come sia stato possibile che il crimine organizzato si sia intimamente intrecciato al potere per creare quella grigia zona di contiguità che come una cappa asfissiante uccide lo stato di diritto e condiziona l’economia e la libertà della società civile. Mano a mano che la sua produzione letteraria si sviluppa attraverso opere apparentemente eterogenee, Sciascia, insieme a Pasolini, diventa una delle coscienze critiche più scomode del secondo dopoguerra. Il suo impegno civile si materializza anche nella politica: eletto nel consiglio comunale di Palermo, nelle liste del PCI, diventa scomodo persino per il partito che lo ha sponsorizzato, con il quale rompe definitivamente dopo aver dichiarato di una conversazione tra lui, Guttuso e Berlinguer in cui quest’ultimo avrebbe ammesso che le brigate rosse erano state addestrate in Cecoslovacchia. Durante i giorni oscuri del rapimento Moro, Sciascia pubblica un piccolo saggio sulle contestatissime lettere dello statista democristiano scritte dalla prigionia. “L’Affaire Moro” è una lucidissima analisi di quelle carte, un’analisi completamente controcorrente rispetto al giudizio che allora ne diede tutto il mondo politico. Pannella e il Partito Radicale offriranno a Sciascia la possibilità di entrare in Parlamento per continuare, da deputato, a osservare e criticare le cose dello stato. Oltre a un intenso lavoro parlamentare (documentato dall’ultimo libro di Camilleri) Sciascia non si sottrae al giudizio di quei magistrati che erano impegnati nel pool antimafia e non si preoccupa di scatenare un putiferio quando dichiara e scrive che per alcuni di quei magistrati l’antimafia era solo motivo di prestigio e di carriera.
Sciascia (ancora una volta insieme a Pasolini) è convinto che il dovere morale di un intellettuale è quello di leggere e interpretare la realtà tenendo sempre presente che il potere tende a sfuggire dal controllo democratico per assumere forme diverse e autoalimentarsi all’infinito.
Ricordiamo Leonardo Sciascia leggendo e rileggendo i suoi libri, forse è l’unico modo degno di onorare un grandissimo scrittore.

lunedì 16 novembre 2009

LA PRASSI E IL SIMBOLO


La tragica, e ancora non chiarita, vicenda che ha portato alle sevizie e alla morte di Stefano Cucchi, oltre che indignare dovrebbe invitare a riflettere seriamente sul problema del consumo delle droghe. Cucchi non solo è stato vittima della bestialità umana e dell’omertà di stato, egli è uno dei tanti che ogni giorno subiscono sulla propria pelle la politica proibizionista che vige in questo paese.
Senza andare troppo indietro nel tempo già dal 2005 un gruppo di cinquecento insigni economisti americani (fra cui il premio Nobel Milton Freedman) pubblicarono una lettera aperta al presidente, al Congresso e ai governatori sulla legalizzazione della marijuana. La cosa più interessante era che l’argomentazione più forte, accanto alle solite questioni che riguardavano il traffico delle mafie e della malavita, l’uso della violenza e della rapina da parte di persone fondamentalmente pacifiche, era di carattere squisitamente economico: sostituendo alla legislazione proibizionista un sistema di controllo e tassazione dei consumi (come già avviene per altre droghe come l’alcool e il tabacco), non solo ci sarebbe un risparmio di oltre sette miliardi di dollari ma si realizzerebbe anche un introito di oltre sei miliardi. La recente legislazione in vigore in California riguardante l’uso terapeutico della mariujuana (sostenuta persino dal governatore repubblicano Shwarzenegger) sta modificando i pregiudizi di molti americani su un uso controllato di sostanze di questo genere e indirettamente sta operando un’inversione di tendenza su come far fronte al problema del consumo e del traffico illegale di stupefacenti. È recente un articolo apparso sul prestigioso Washington Post intitolato “It’s Time to Legalize Drugs”, in cui una buona parte dell’opinione progressista esce finalmente allo scoperto su un tema molto scottante e molto sentito da tutta la popolazione.
Nonostante tutto ciò la questione continua a essere osteggiata sia del mondo politico che dalla società civile. Robert Nozick, filosofo e docente all’università di Harvard, sostiene che il problema consiste nella forte valenza simbolica che è alla base delle politiche e le leggi proibizioniste: in altri termini, i divieti dello stato soddisfano e fanno salvo il simbolo di ordine e sicurezza indipendentemente dalla loro effettiva e reale efficacia. È un problema culturale, questo. E infatti se solo pensiamo alla piaga dell’alcolismo, non si riesce a comprendere come e perché il consumo dell’alcool sia ancora legale visto e considerato che un alcolista è paragonabile ad un eroinomane o a un cocainomane e che le vittime indirette di questa dipendenza siano molto superiori a quelle riferibili ad altre tossicodipendenze (basti pensare alle vittime innocenti di incidenti stradali causati dall’abuso di alcool). Evidentemente nella nostra società le droghe sono ancora un grosso tabù carico di pregiudizi e paure. Eppure mai come oggi l’opinione pubblica è stata costretta a misurarsi con problemi come quelli di una popolazione giovanile dedita al consumo abituale di droghe ed alcolici, mai come oggi le carceri pullulano di gente coinvolta nella spirale del traffico e del consumo di droga, mai come oggi i fatturati delle mafie hanno raggiunto cifre così enormi grazie al traffico di stupefacenti. Questi fatti concreti, questa tragica realtà, dovrebbero suggerire l’adozione di un comportamento estremamente pragmatico finalizzato alla risoluzione del fenomeno o, quanto meno, alla sua riduzione in termini molto più contenuti. Invece trionfa il simbolo, la questione di principio, il dogma laico, il feticcio intoccabile. Non importa se la malavita si ingrassa a dismisura, se poveri ragazzi confusi cadono in una spirale delinquenziale implacabile. Naturalmente nessuno si sogna di risolvere il problema del consumo e delle dipendenze dalla droga, ma una politica antiproibizionista sicuramente priverebbe le mafie di una buona parte di guadagni, aiuterebbe non poco a evitare l’escalation da droghe leggere a droghe molto più pericolose e letali, eviterebbe che molta gente pacifica finisse in carcere per essere trasformata in criminali, servirebbe a tenere sotto stretto controllo una situazione che al momento è solo stimata. Non è la panacea ma è certo un modo pragmatico di affrontare una questione che ora è estremamente critica.
Riuscirà la prassi a sconfiggere il simbolo? Dipenderà solo da noi se saremo capaci di spogliarci di una cultura ipocritamente rigida, fatta di simboli vuoti e di paure ingiustificate.

sabato 14 novembre 2009

COLEMAN HAWKINS - Out of Nowhere

CHIUDERE GLI OCCHI

NOWHERE


Una delle prerogative della maturità (che non sopravviene a scadenza fissa ma si conforma e si consolida in un lasso di tempo variabile da persona a persona) è il desiderio di vivere momenti di pausa e di riflessione. Nasce, cioè, la necessità di disporre di un luogo e di un tempo da dedicare a sé stessi, in solitudine. Potrebbe sembrare normale che dopo un periodo di attività lavorativa svolta a ritmo sostenuto, se non addirittura frenetico, si cerchi una pausa rilassante o per lo meno distensiva. Ma non è questo il genere di cosa a cui ci si vuole riferire. Si tratta piuttosto di cercare e trovare un luogo particolare in cui potersi dedicare a riflettere, a osservare la natura, a leggere, o più semplicemente a far nulla.
La necessità è quella di poter operare una sorta di “svuotamento” della testa, degli occhi e delle orecchie da suoni, immagini e pensieri che normalmente albergano nei nostri sensi e per i quali si prova specie di nausea, di fastidiosa assuefazione. Si è giunti a uno stato di autorepulsione, di rifiuto di sé stessi, di negazione affettiva, di ribrezzo relazionale. Questo è il momento in cui si rompe il nostro equilibrio dinamico e bisogna fermarsi per ricostruirlo. Girare per le stradine di campagna, passeggiare lungo la spiaggia o camminare a zonzo sotto la pioggia, non importa, quel che conta è avere la percezione di essere in nessun luogo (rende meglio il vocabolo inglese nowhere), ovvero di fluttuare in una diversa dimensione spazio temporale in cui le cose più semplici e naturali ci appaiono nuove rivelazioni. Il volo di un gabbiano, il frenetico incedere di una formica, la ritmica oscillazione di uno stelo d’erba percosso dalla brezza, l’odore della pioggia, il profumo di un ragù assonnato sopra un’esile fiammella, la dignità di un cane randagio accucciato sul marciapiedi. Tutto ci sembra nuovo, diverso, degno di interesse. In questi momenti riaffiora la curiosità del bambino, assaporiamo lo stupore dell’uscir fuori da sé e sentirsi in comunione col resto del mondo. I pensieri si accumulano affastellati sul ciglio della bocca e vorremmo recitare una vecchia poesia imparata da piccoli, non riusciamo a fermare i ricordi e il formarsi di nuove fantasie. A volte, in questi istanti, si prova la repentina sensazione di sentir scorrere il flusso vitale, di aver toccato per un attimo il volto della Vita. Sono ore preziose che non devono essere corrotte da invasioni telefoniche o altri tipi di contatti con il teatro quotidiano che recitiamo ormai passivamente da troppo tempo. Per l’essere umano è estremamente riduttivo misurarsi esclusivamente con le squallide cose che riguardano la sopravvivenza e i rapporti sociali: l’uomo ha bisogno di confrontarsi con qualcosa di più grande e complesso, con qualcosa di metafisico. Il problema è che la società dei consumi tende a spacciare per metafisico qualsiasi bisogno indotto, per cui acquistare un jeans da centocinquanta euro non è più (come dovrebbe essere) un atto scellerato bensì diventa un passo avanti nella processione degli eletti, per non parlare del delirio di onnipotenza che crea il possesso di una borsa di Vuitton e che dire di chi ha giurato di aver visto la Madonna dopo aver inforcato un paio di mutande di Dolce & Gabbana? Per moltissimi, giovani soprattutto, il nowhere preferito è la televisione e in particolari programmi come Uomini e Donne: davanti al piccolo schermo vedono sfilare allegri e allegre scansafatiche dal vocabolario approssimativo, tutti convinti che la vita consista nello scambiarsi monologhi da cerebrolesi e dibattersi nel dubbio di chi trombare e/o da chi farsi trombare nelle prossime ventiquattr’ore. Questi ragazzi (tra l’altro anche un po’ stagionati) fino a non molti decenni fa avrebbero potuto solo intraprendere le onorate carriere di squillo, impiegate Standa, sciampiste, facchini, fattorino di pizzicagnolo, radiatorista e magliaro. Ora possono finalmente aspirare a divenire ospiti di discoteche e night club, modelli per reclamizzare la nuova pizzeria da Ciro e, solo per i più belli e dotati, fare televendite di pentolame e materassi. Un bel passo avanti non c’è che dire. E i giovani spettatori? A costoro cosa accadrà? Alcuni ingrosseranno le file dei casting televisivi, gli altri, la maggior parte, continuerà la vita di sempre tra tivù e manicaretti di mammà e quando verrà il momento di voler fare una passeggiata romantica sussurreranno: verresti con me a fare un’esterna?
Stando così le cose, a noi maturi pellegrini del nowhere non restano molte speranze. Così se accadesse di trovare un luogo veramente speciale, la tentazione di rimanervi potrebbe essere troppo forte. Lasceremmo una famiglia in preda alla disperazione? Ma no, dopo lo show della De Filippi passerebbero tutti a vedere Chi l'ha Visto?

venerdì 13 novembre 2009

giovedì 12 novembre 2009

KATE BUSH - Army Dreamers

SOGNI PERICOLOSI

PETER GREENAWAY - L'ultima tempesta

SOGNO E TEATRO

PAOLO CONTE - Aguaplano

SOGNO O VISIONE?

SOGNI


I sogni, i desideri, le speranze, tutto quello che vogliamo e avremmo voluto avere, essere, provare e sentire. Una serie di cose irrealizzate, non accadute, mai esistite. Una buona parte di noi è fatta anche di queste cose. Ce le portiamo dentro come un vecchio bagaglio sdrucito, sempre più pesante, sempre più ingombrante. Non riusciamo a mollarlo all’angolo di una strada o sotto una vecchia panchina, non riusciamo a dimenticarlo dentro la cassapanca o in fondo al buio ripostiglio di casa. Spesso ci ripromettiamo di non pensarci, di concentrarci solo sulla realtà, sui problemi concreti, sulle cose da fare per tirare avanti, ma inevitabilmente ogni qualvolta ci fermiamo, anche per un attimo, a guardarci dentro lo troviamo lì accanto a noi e non possiamo fare a meno di aprirlo, pur sapendo ciò che contiene. È curioso, ma noi siamo anche quello che non siamo mai stati. La nostra vita è fatta di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che avremmo voluto vivere: un insieme indistinto di essere e di non essere, un vortice di ricordi e di rimpianti, un album fotografico pieno di vuoti alternati a immagini di ciò che siamo stati. Il flusso del tempo ci lascia il ricordo di gioie e sofferenze, di occasioni perse, di presenze dissolte, di frasi non dette, di errori inconfessati, di dolori inferti, di pentimenti nascosti nel buio delle notti insonni. Ci si accorge, più o meno lentamente, che la vita è sempre una partita persa, persa con noi stessi, persa con chi ci circonda, persa con la Storia, persa con il trascendente. A mano a mano che l’esperienza si accumula si percepisce la nostra unicità, quell’unicità che ci fa sentire soli, incompresi e, spesso, disperati. È un supremo egoismo, il nostro, che ci spinge a voler gridare più forte degli altri, a pretendere di essere capiti e commiserati, ad anteporre la nostra sofferenza a tutto il resto del mondo.
Quei sogni che, nella prima parte della nostra vita, sono stati fonte di speranza e di energia, improvvisamente, dopo aver compiuto il giro di boa, diventano una zavorra insopportabile, fantasmi orrendi che ci perseguitano, incubi incancellabili, segni indelebili di un fallimento. A volte tutto ciò sfocia in una sorta di delirio che porta a proiettare i propri fantasmi su figli, nipoti o figure assimilate producendo danni incalcolabili. Quello che non si è compreso è che ci troviamo di fronte a una vera e propria nemesi dell’essere umano. Non esiste, né è mai esistito, uomo che non abbia avuto il suo bel bagaglio di fallimenti e sogni irrealizzati. Alla nostra morte si aggiunge sempre un corollario di rimpianti e di rimorsi; sul ciglio di quel cratere che ci risucchierà nel nulla perdiamo ogni senso della realtà e, soprattutto, ogni senso dell’humour, che invece dovrebbe trionfare: non riusciamo a realizzare che di lì a poco saremo sottoposti alla legge di Lavoisier e i nostri atomi e le nostre molecole si combineranno in altro modo per finire in cibo per cani, lenticchie, ortica e, perché no, in un bel cheeseburger di McDonald’s. In fondo è proprio questo il senso della vita, un continuo rimescolamento molecolare, un riciclaggio totale, un fantastico destino in base al quale non si può escludere che una infinitesima componente del nostro corpo non sia la stessa di una cozza pescata e mangiata nel diciottesimo secolo. I sogni no, quelli sono esclusiva farina del nostro sacco, essi ci appartengono in modo esclusivo e unico. Dobbiamo quindi tenerceli stretti, anche quando cominciano a far male e a essere pesanti da trascinare. Essi sono la prova che abbiamo vissuto, abbiamo pianto, abbiamo amato, insomma i sogni sono il segno del nostro pensiero pulsante. Peccato che finiscano con noi senza lasciare traccia, qualcuno riesce a metterli per iscritto nella speranza che possano sopravviverci e possano interessare qualcun’altro a venire. A fronte di questi pochi fortunati c’è una folla sterminata di anonimi i cui sogni sono andati perduti insieme alle loro esistenze. Per costoro, umanità senza nome, rimangono i luoghi in cui sono vissuti, il selciato che hanno calpestato, i tramonti e le albe che hanno visto rimanendo per un attimo folgorati dalla bellezza e commossi dalla malinconia. Dalle grandi speranze alle più piccole ambizioni, fanno tutte la stessa fine, hanno tutte lo stesso epilogo. Misterioso e definitivo.
La vita non è un sogno, ma sono i sogni a dare un senso alla vita.

mercoledì 11 novembre 2009

lunedì 9 novembre 2009

domenica 8 novembre 2009

OTELLO, MA NON PER TUTTI

“Otello” è una tragedia sul tradimento. Shakespeare vuole dimostrare che la vita è costellata di episodi in cui il tradimento è il vero e unico protagonista, in cui il tradire è conseguenza dell’essere traditi, in cui la rottura della fiducia e del rispetto è molto più frequente di quanto non si possa credere, in cui la percezione di aver subito un’offesa è sufficiente a innescare una tremenda vendetta, in cui anche il tradimento inconsapevole produce conseguenze terribili.
Iago si sente profondamente tradito da Otello, il quale gli ha preferito Cassio nella nomina di luogotenente. Iago fa combutta con Roderigo per confezionare la sua vendetta e tradisce la sua amicizia per spillargli quattrini e usarlo per i suoi piani. Otello si innamora di Desdemona e tradisce la fiducia del di lei padre, che gli aveva aperto le porte della sua casa, portandogli via la figlia. Desdemona, innamorata di Otello, tradisce l’autorità paterna per fuggire con Otello. Otello e Desdemona tradiscono le leggi e le consuetudini dello stato fuggendo insieme, non solo, essi tradiscono soprattutto il tabù della razza. Il Doge tradisce l’applicazione della legge perché non può fare a meno dei servigi del Moro. Iago tradisce l’amicizia di Cassio per spingerlo a muoversi secondo i suoi piani. Iago tradisce il Moro portandolo al convincimento di una squallida tresca tra Cassio e Desdemona. Otello tradisce, perché si sente tradito, la devozione di Cassio e l’amore di Desdemona. Otello tradisce l’obbligo alla prudenza e al buon senso lasciandosi travolgere dal cieco furore della gelosia. Otello tradisce la legge degli uomini e la legge di Dio facendosi giustizia da sé. Otello tradisce se stesso uccidendosi.
Shakespeare disegna un percorso labirintico fatto di menzogne e di furore in cui la verità e la fiducia si perdono definitivamente. L’ambizione e l’amore diventano due sentimenti perniciosi, capaci di trasformare l’essere umano in un mostro. Da questo punto di vista la figura di Iago assume l’aspetto di colui che, inconsciamente, riporta ordine in una vicenda che aveva infranto ogni regola del vivere civile. Così come Otello rappresenta la tragica contraddizione dell’uomo d’armi, ovvero uomo d’ordine, incapace di controllare il violento conflitto interiore che minaccia quei principi e quelle convinzioni che erano alla base della sua vita. Per Shakespeare il tradimento non è un fatto, è piuttosto la percezione di un fatto, è la delusione di un’aspettativa, la frantumazione di un sogno, la rivelazione di un aspetto sconosciuto dell’essere e della prassi. Ma tutto ciò, che nasce nella mente e nel cuore dell’individuo, produce poi qualcosa di concreto, di tangibile, di qualcosa che segnerà il destino di altre persone. Così i fantasmi di un uomo irrompono nella realtà di altri uomini seminando morte e distruzione, come un esercito di sanguinari.
Rappresentare “Otello” senza questo tipo di premessa, senza questa dimensione critica, diventa puerile e soprattutto noioso. Purtroppo a volte accade. E’ accaduto ieri sera a Bari, al Teatro Piccinni, per la regia di Arturo Cirillo. Un allestimento tedioso, con uno Iago verbosamente immobile che pretendeva di intortare un Otello improbabile, gracile, psicolabile.
Perché tutto ciò?

giovedì 5 novembre 2009

sabato 31 ottobre 2009

WIM WENDERS - Angeli Sopra Berlino

IL FASCINO DELLA CADUCITA'

venerdì 30 ottobre 2009

mercoledì 28 ottobre 2009

martedì 27 ottobre 2009

BILLY WILDER - A qualcuno piace caldo

NESSUNO E' PERFETTO.

RAINER WERNER FASSBINDER - Un Anno con 13 Lune

VICENDE UMANE.

PER FAVORE, FATELO CURARE






La vicenda del Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo ha lasciato sbigottiti moltissimi italiani. Non certo per l’argomento in sé, dato che gli italiani sono assidui consumatori del mercato del sesso, quanto per la portata economica della storia. Pare infatti che il Marrazzo avesse concordato con il trans brasiliano Nathalie un compenso di cinquemila euro. Una cifra assolutamente esorbitante se consideriamo che il caso D’Addario ci aveva informati sulle tariffe medie in uso ai massimi vertici istituzionali (mille-duemila euro, più cena di benvenuto), a questo c’è da aggiungere che, da un punto di vista estetico, passa una bella differenza fra le escort di Tarantini e i trans di via Gradoli: quella Nathalie ha la stessa avvenenza di Tarcisio Burgnich (uno dei più grandi terzini della storia del calcio) con parrucca e minigonna.
Evidentemente c’è qualcosa che non torna. Qualcuno potrebbe dire che non ci è dato di sapere quali fossero le performances concordate per quella cifra, la fantasia non ha limiti e nel sesso a pagamento la fantasia costa molto. Può darsi, ma considerando l’oggetto del desiderio viene spontaneo pensare a giochetti sadomaso con epilogo coprofilo e grappino finale, giusto per dimenticare. Sotto l’aspetto sociologico è ormai assodato che il popolo del centro destra è orientato verso il sesso ortodosso basato sulla trombata classica, mentre il popolo del centro sinistra è più aperto ad esperienze diverse basate sull’equivoca apparenza con “grande sorpresa” finale del genere “e questo dove lo mettiamo?”. Ma quello che urta tutti gli italiani è lo spreco, la mancanza di rispetto per il denaro. La colpa imperdonabile di Piero Marrazzo è quella di aver offeso tutti quei poveri lavoratori che durante la settimana fanno i salti mortali per risparmiare qualcosa da poter spendere, il sabato sera, lungo i viali delle periferie in compagnia di puttane nigeriane e viados con la voce baritonale. Naturalmente c’è anche qualche italiano, non molti a dire il vero, che tira in ballo la questione etica. La faccenda è abbastanza lineare: un politico eletto ha stretto un patto di fiducia col proprio elettorato ed ha il dovere di onorarlo prima di ogni altra cosa. Se invece il suddetto politico dimostra di essere un traditore (non onorando, ad esempio, il patto coniugale) distrugge la fiducia del proprio elettorato ed ha il dovere morale di dimettersi. A tutto questo si aggiunge anche il fatto che il fedifrago si è cacciato in una situazione in cui è diventato oggetto di ricatto e quindi ha perso la libertà di agire per mantenere gli impegni e le promesse elettorali, egli ha perso, in sostanza, il diritto di rappresentanza, che è alla base della democrazia.
Infine, last but not least, c’è lo specifico dell’uomo Marrazzo. Eletto alla massima carica regionale grazie anche alla sua grande notorietà televisiva: per anni ha incarnato il personaggio di paladino dei diritti dei consumatori, di nemico giurato di truffatori, imbroglioni e mistificatori di ogni genere. E invece è cascato come una pera cotta di fronte all’industria del sesso esentasse per finire nelle mani di veri e propri ricattatori. E non ci sarebbe da meravigliarsi se dalle indagini verrà fuori che la parola d’ordine che usava per entrare nella magione della brasiliana nerchiuta era: Mi manda Raitre.
È mai possibile che un uomo arrivi a farsi del male fino a questo punto? È mai possibile che un personaggio da carnevale di Rio possa obnubilare la mente di un uomo di cultura ed esperienza? Dobbiamo aspettare che qualche studioso pubblichi un saggio su politica e analità per capirci qualcosa o rimpiangere gli anni in cui Cicciolina era deputato della Repubblica?
In attesa di capire facciamo un invito alla famiglia e agli amici di Piero Marrazzo: fatelo curare.

venerdì 23 ottobre 2009

lunedì 12 ottobre 2009

ERMANNO OLMI - L'Albero degli Zoccoli

UN MONDO SCOMPARSO

BAARIA




Baarìa è un film d’autore. Nel senso che ha la dote di trasmettere allo spettatore sentimenti, sensazioni e quell’immedesimazione che solo un artista è capace di comunicare con armonica compiutezza. La chiave di volta dell’opera è la memoria, quella memoria che alberga in ognuno di noi e che è fatta da un impalpabile intreccio di memoria storica, memoria collettiva e memoria personale, dove quello che è accaduto si fonde con quello che abbiamo vissuto, dove i fatti sono mescolati alle emozioni, dove la realtà non si distingue dalla fantasia, dove la cronaca è innestata nella fiaba, dove le immagini e i suoni si sviluppano secondo criteri onirici e affettivi.
Da un punto di vista del linguaggio cinematografico Tornatore privilegia la fotografia, curata per rendere quella luce e quei colori che solo a sud si possono percepire, nelle piazze assolate, nelle larghe strade lastricate di pietra, in quei panorami naturali in cui uomini e animali conferiscono il senso della vita che scorre implacabile. Questa luce unica e vibrante avvolge le vicende umane dei singoli innalzandole a metafora del destino dell’uomo, dove la vita e la morte, il gioco e il lavoro, l’amore e l’odio, assumono il senso di meri segni d’interpunzione nella narrazione di una comunità che vive il passaggio doloroso e lacerante da una civiltà contadina arcaica alla nuova dimensione della società dei consumi. La narrazione filmica fa un uso sapiente di dotte citazioni attingendo ai capolavori di Olmi (L’Albero degli Zoccoli), di Bertolucci (Novecento) e di Leone (C’Era Una Volta In America), oltre all’esplicito riferimento del troppo poco considerato “Mafioso” di Lattuada, girato proprio a Bagheria. Un altro elemento estremamente interessante è l’uso discreto della colonna sonora. Nonostante sia stata composta dal grande Morricone, Tornatore sceglie di non affidarle lo stesso compito evocativo che si può riscontrare in “Nuovo Cinema Paradiso”. In Baarìa il tema, che ricorda melodie arcaiche suonate dalla zampogna, viene utilizzato solo per sottolineare alcuni momenti del film, tutto il resto è affidato alle voci e ai suoni quotidiani: una sorta di corale laico di voci e di lingua destinati ad estinguersi.
Se, da un punto di vista concettuale, “Baarìa” può essere non a torto confrontato con “Amarcord” di Fellini, non si può non evidenziare il fatto che Tornatore abbia cercato di ricreare quel sottile equilibrio fra realtà e ricordo che è alla base della nostra memoria personale. Il ruolo del sogno, la presenza di un mondo magico e misterioso, la morte ,umana e animale, vista come un accadimento necessario e socialmente condiviso, sono tutti elementi estremamente importanti ed estremamente caratterizzanti della cultura del sud. In quest’ottica anche cose importanti come la maturazione di una coscienza politica e lo sviluppo della cultura perdono il loro primato assoluto per divenire dei mezzi di interpretazione della realtà, di una realtà che col tempo si popola di ombre e di fantasmi e che diventa memoria di quello che siamo stati e sogno di quello che avremmo voluto essere.
Baarìa è un’opera “necessaria”. “Necessaria” alla poetica di Tornatore, da sempre impegnato a raccontare storie che, in un modo o nell’altro, gli appartengono; ma “necessaria” anche, e direi soprattutto, per tutti coloro che hanno la voglia di capire e di capirsi, di interpretare il passato e il presente, di conoscere se stessi, di rincorrere il senso delle cose.

domenica 4 ottobre 2009

HERB ALPERT - Route 101

VIAGGIARE...

NINO D'ANGELO - 'O Schiavo E 'O Rre

IMPEGNO NEOMELODICO

LA PANTERA ROSA

Il mattino ha l'oro in bocca.

sabato 3 ottobre 2009

sabato 19 settembre 2009

sabato 12 settembre 2009

ORAZIO NON ABITA PIU' QUI







“Nicola deve fare il liceo classico”, “Il liceo classico? Madonna! Professoressa! Il padre ci tiene tanto che vada all’Istituto Alberghiero….tiene un amico che fa il cuoco sulle navi da crociera…guadagna un sacco di soldi!”, “Signora, mi ascolti…lo dico adesso e poi non lo ripeterò più…deciderete quello che vorrete….Nicola è un ragazzo speciale, se ne trovano sempre meno oggigiorno. Pensi che in un solo anno di introduzione al latino ha imparato perfettamente declinazioni e coniugazioni….ha una vera passione…è un peccato sprecare il suo talento in questo modo…dovete iscriverlo al liceo classico! Vi darà tante soddisfazioni…credetemi!”.
Questo breve dialogo fu all’origine della svolta nella vita di Nicola. Ultimo di cinque figli, il padre faceva il bracciante e con il suo secondo lavoro di costruttore di muretti a secco era riuscito a garantire alla sua famiglia una vita serena e dignitosa. Tutti in famiglia sapevano che Nicola era diverso dagli altri fratelli; tutti in famiglia sapevano che la professoressa aveva ragione; tutti in famiglia furono d’accordo a mandarlo in una scuola dove non si impara alcun mestiere, in una scuola dove si impara a conoscere se stessi per poi saper capire le cose del mondo.
Al liceo classico Nicola era un allievo brillante, non era il primo della classe perché si poneva tante domande ed era incapace di imparare le lezioni a memoria, non era un secchione né un leccapiedi, studiava per soddisfare la propria curiosità, non era interessato a prevalere sugli altri o a inseguire il mito del voto alto ad ogni costo.
Fu al secondo liceo, il penultimo anno, che Nicola ebbe una folgorazione. Studiando la letteratura latina incontrò la figura e l’opera di Quinto Orazio Flacco. In breve tempo Orazio divenne il suo mito personale, approfondì lo studio della biografia e delle opere letterarie, il pensiero oraziano divenne il suo punto di riferimento filosofico sul quale costruire le proprie riflessioni sulla vita e sulla realtà contemporanea. Si immedesimò talmente nel grande poeta latino da decidere di rinunciare alle gite scolastiche e alle sue piccole necessità personali per mettere da parte il denaro sufficiente a fare un viaggio a Venosa, la città natale del poeta. Si era convinto che visitando quei luoghi avrebbe meglio compreso la figura umana del suo idolo, le cui umili origini tanto lo avvicinavano alla sua stessa condizione. Nicola sapeva perfettamente cosa vuol dire desiderare di partire dalla piccola provincia per poter affermare le proprie doti, così come sentiva profondamente dentro di sé il dolore della lacerazione da un mondo semplice, a stretto contatto con la natura, basato su rapporti affettivi privi di ipocrisie e falsità. Anche lui un giorno se e sarebbe andato, ma quei luoghi in cui era vissuto non li avrebbe mai dimenticati, né avrebbe mai smesso di evocarli. Così come non avrebbe mai potuto dimenticare le polemiche col professore di filosofia, il quale cercava in tutti i modi di smontare le sue convinzioni da novello epicureo per attrarlo verso il pensiero contemporaneo. Ma Nicola era più che mai convinto che proprio nella società contemporanea, dominata dal consumismo e dall’edonismo, si adattava meglio la ricerca di un distacco dalle cose e dalle passioni estreme, quello stesso distacco che Dio aveva posto tra sé e l’umanità.
L’ultimo anno di liceo passò velocemente. Agli esami di stato Nicola presentò una tesina sulla poesia oraziana e si diplomò col massimo dei voti. In casa c’era ancora aria di festa quando disse ai genitori che sarebbe partito: era giunto il momento di andare a Venosa.
Il calore era insopportabile nonostante tutti i finestrini dell’autobus fossero aperti. Dopo una curva stretta gli si parò davanti agli occhi la sagoma imponente e inconfondibile del monte Vulture. Ebbe un brivido d’eccitazione e subito la mente andò a quel passo che diceva:”Una volta, nei tempi lontani, bambino, uscito dalla casa della mia nutrice Pellia, là sul monte Vulture, in Apulia, mi addormentai stancato dal gioco.” Mentre fissava il Vulture dalla pronta memoria affioravano le descrizioni di quella terra, dei pascoli di Banzi, della valle di Forenza e della città di Acerenza, elevato nido d’aquile. Scese alla prima fermata di fronte alla chiesa della Trinità, appena fuori paese. Davanti al sepolcro della prima moglie, colei che fu ripudiata, di Roberto il Guiscardo lesse la strana epigrafe:”Quest’arca contiene Alberada, moglie del Guiscardo, se chiedi del figlio, quello (lo) tiene il canosino”. Come se il pellegrino fosse giunto fin lì inseguendo le tracce di Boemondo I d’Antiochia e per sbaglio si fosse imbattuto nelle spoglie della sfortunata madre Alberada di Buonalbergo, morta a novant’anni dopo aver patito per la morte del figlio che fu sepolto in un mausoleo nella cattedrale di Canosa.
Dietro la chiesa, una seconda, incompiuta, con colonne che sorreggono il cielo azzurro e mura costruite con le pietre tombali della necropoli romana e di quella ebraica. Nicola era in estasi, quel rudere aveva l’aspetto di un tempio unico al mondo, a diretto contatto con la volta celeste e con le pareti che trasudavano preghiere in latino, in greco e in ebraico. Un monumento che conteneva tutto il terrore dell’umanità per la morte e tutte le speranze delle genti per la sopravvivenza dell’anima.
Era giunto in un luogo magico, in un luogo in cui si poteva leggere gli strati della storia, l’operosità e il dramma del genere umano. Non poteva essere un caso che Orazio fosse nato qui.
Entrò in paese seguendo le indicazioni per raggiungere la casa di Orazio. Egli sapeva che quasi sicuramente quella antichissima casupola non era mai stata abitata dal poeta, ma si era adeguato alla tradizione locale che per ricordare il grande venosino gli aveva attribuito un luogo fisico in cui avrebbe vissuto i suoi primi anni. Il caldo si era fatto soffocante, i muri bianchi riverberavano una luce abbacinante, le stradine si srotolavano contorte e vuote come in un labirinto. Nell’aria un odore di fumo che ad ogni curva cangiava aroma: salsa di pomodoro, ragù, peperoni al forno, ma nessuna presenza umana. Qualche cane randagio steso sul marciapiedi si dichiarava vinto dall’ attacco del caldo e delle mosche. Nicola continuava a camminare ma era sicuro di essersi perso, non aveva più incontrato segnali turistici che confermassero la direzione per la casa di Orazio. Mentre pensava che forse avrebbe dovuto tornare indietro, giunse alla fine della stradina, dove si apriva una specie di corte sulla quale si affacciavano diverse abitazioni. Solo una era aperta, davanti all’uscio una corda stesa dalla quale pendeva poca e povera biancheria dall’intenso profumo di sapone.
“Buongiorno!! C’è nessuno in casa? “ non rispose alcuno, allora Nicola bussò sui vetri della porta semiaperta “C’è nessuno? Posso entrare?”, dopo qualche istante vide un’ombra che rispose “Chi siete? Che volete?”, “Scusate signora, forse mi sono perso in queste stradine…”, uscì al sole una donna anziana, ossuta, vestita di nero, “Vi siete perso? Ma voi non siete di qua…siete straniero..”, “No…no , non sono straniero sono venuto a visitare Venosa” e la donna burbera”Se non siete di Venosa siete straniero….ma non vi dovete vergognare….non fa niente”, Nicola era molto confuso “Ma io non mi vergogno….no..e perché?”, “Bravo….e fate bene…anche dove si nasce è un fatto di fortuna…che colpa c’avete se siete straniero?”, Nicola era sbigottito “Sì avete ragione…è proprio così….scusate…vi posso chiedere un’informazione?” “Volete sapere qualcosa? E dite….dite…ma dovete parlare italiano se no non vi capisco” “Ecco…sto cercando la casa di Orazio…è qui vicino?” “Volete la casa di Orazio?....mmm…ah!..si..si…è qui vicino ma….mi dispiace assai…” “Perché? Cosa vi dispiace? Non capisco..” “Mi dispiace assai per voi….siete venuto da così lontano…mannaggia….”, Nicola era senza parole, aveva gli occhi sgranati e la bocca semiaperta, sembrava un babbeo, “Eh sì….signore mi dispiace…ma Orazio non abita più qui…” disse allargando le braccia e abbassando gli occhi. Nicola temeva di non aver capito “Non abita più qui?..Mi state dicendo che Orazio non abita più qui??” “Emigranto…”, Nicola era stupefatto ”Orazio….emigranto…” “Sì…sì..ma non adesso…no….tanto tempo fa….se ne andò all’altr’Italia…a Roma”, “Orazio…all’altr’Italia….a Roma”, la donna seccata “Giovanotto!..E siete un pappacallo! Avete capito? Non gi stà più qui…Orazio sta a Roma…e non so niente più!!!”, Nicola stemperò lo stupore in un sorriso e con voce calma disse “Ho capito…ho capito…scusate se vi ho disturbato…”, la donna rispose al sorriso mostrando quella manciata di denti che ancora le erano rimasti e rispose “Va bene, va bene….fà caldo…lo volete un bicchiere di vino fresco?” Nicola si tolse il berretto e disse “Grazie, grazie…con grande piacere!” Mentre la donna con mano tremante riempiva il bicchiere Nicola diceva fra sé e sé “Versa il vino! Cogli l’attimo!” e quando portò alle narici il bicchiere ricolmo ebbe una sensazione fortissima e stranissima: in quel luogo e con quel vino sentì di essere a casa di Orazio, non in quella casupola per turisti, ma nella vera casa dove era cresciuto il poeta. Quella donna sdentata avrebbe potuto essere una discendente di Pellia, la nutrice di Orazio. La fissò sorridendo, anche lei sorrise e accarezzando il suo giovane volto gli disse “Mi dispiace assai…sei venuto fino qui per niente….ma devi capire…qui la vita è dura e Orazio è andato via in cerca di fortuna….aveva una bella testa e forse ce l’ha fatta….forse un giorno sentiremo parlare di lui…”.

lunedì 31 agosto 2009

QUARTETTO CETRA - I Ricordi Della Sera

RICORDO DI VIRGILIO SAVONA, UN GRANDE PROTAGONISTA DELLA CANZONE ITALIANA:

Chess Game.wmv

BISOGNA SAPER PERDERE

Geri s Chess game 1997 short pixar film

VITTORIA SICURA

Beyond the move - Pro chess movie

LA VITA E' UNA PARTITA

SCACCO AL RE




Il corso della vita è stato molto ben sintetizzato dalla più famosa partita a scacchi della storia del cinema (visibile anche come sfondo del titolo di questo Blog): la partita tra il Cavaliere e la Morte nel film di Ingmar Bergman “Il Settimo Sigillo”.
Si tratta di una partita che potrà essere più o meno lunga ma il cui esito è sempre lo stesso.
Ogni giocatore ha l’obbligo di andare sino in fondo col massimo impegno poiché, sebbene sappia sia una partita persa, la durata del gioco corrisponde alla durata del tempo che gli è dato da vivere. Capita che durante la partita il Giocatore abbia dei momenti in cui è in vantaggio sulla Morte, sia per numero di pezzi che per conquista di posizione. E ciò, metaforicamente parlando, rappresenta i momenti positivi della vita in cui il benessere materiale e spirituale è al suo apice. Altresì succede che, durante la partita, il Giocatore subisca il vantaggio della Morte, momenti in cui egli sia sotto scacco e debba pensare affannosamente a difendersi. Naturalmente in questo frangente si può parlare di situazione critica dove la minaccia si materializza in uno stato di debolezza psico-fisica. Questa è la fase in cui predomina lo sconforto, il pessimismo, il senso di fine imminente, il fallimento di azioni, idee e comportamenti. Ciò produce un profondo scoramento e alimenta quel senso di rinuncia alla lotta a causa della certezza dell’esito finale della partita; emerge potente la tentazione di abbandonare, di farla finita con quello stillicidio angosciante, ma anche per questa decisione ci vuole coraggio, quel coraggio che produce decisioni e azioni irreversibili, definitive. Ma, nonostante tutto, rimane una certezza: questa è l’unica partita che ci è stata concessa, non ve ne saranno delle altre e se è vero, come è vero, che è una partita persa, l’unica possibilità che ci resta è quella di fare di tutto affinchè sia una partita unica, memorabile, una partita di cui si parlerà e che potrà essere d’esempio per coloro che verranno: perdere sì, ma con stile, conservando l’onore fino in fondo. Non importa la tattica che si adotta, che sia un gioco di rimessa finalizzato a durare il più a lungo possibile o che sia un gioco d’attacco che punti a uno scontro breve ma estremamente intenso, lo scopo deve essere sempre e solo quello di vender cara la pelle.
La vita è avara di felicità e prodiga di sofferenze, non solo, essa si svolge, quasi sempre, fino al compimento di un paradosso estremo: quando arriva il momento in cui siamo più preparati a viverla, proprio allora essa finisce. Da ciò dobbiamo dedurre che la vita non ci insegna nulla, dato che quell’esperienza maturata nel tempo finirà con noi in pasto ai vermi e all’oblio. Non solo. Anche i rapporti affettivi subiscono questa sorte, poiché ci si mette del tempo a capire di aver scelto sia la persona sbagliata che quella giusta e tutto questo tempo è stato sottratto irreversibilmente sia alla ricerca di un’altra persona che all’approfondimento della conoscenza della persona giusta. Per non parlare dei figli. Nel giro di un battibaleno, quando ancora negli occhi abbiamo l’immagine di un esserino inerme bisognoso di cure, ci troviamo di fronte un essere umano adulto pronto a giudicarci senza pietà. E poi ancora, nel giro di una manciata d’anni assistiamo sbigottiti alla decadenza del nostro corpo, spesso preludio del più grave rimbecillimento.
Tutto ciò accade, inesorabilmente, mentre continuiamo a giocare la nostra partita e a perdere pezzi importanti della scacchiera. Un’antica leggenda narra che sia stata proprio la Morte a inventare il gioco degli scacchi, per poter rendere più divertente un lavoro tutto sommato piuttosto noioso. Tutti gli altri giochi li ha inventati l’uomo introducendo una componente che negli scacchi manca: l’alea.
Il Caso o la Fortuna rappresentano l’intervento positivo del Trascendente nelle cose umane, una sorta di benedizione che incorona il vincitore. L’illusione di poter vincere da parte di chi nasce perdente e muore, perduto.

sabato 29 agosto 2009

venerdì 28 agosto 2009

FRANCESCO ROSI - Cadaveri eccellenti

LA VERITA' NON E' SEMPRE RIVOLUZIONARIA.

BRAMIERI-DEL FRATE-PISU: Vademecum Tango (1964)

FRAMMENTI DI BUONA TV

mercoledì 26 agosto 2009

FICHI D'INDIA






Sotto il sole saraceno
Le verdi pale spinose
S’innalzano rompendo i bianchi
Muretti pietrosi.
Urlano verso il cielo arido.
Il verde popolo implora muto
La sacra benedizione della pioggia.
Sotto il sole saraceno
Splendono rossi e arancioni
I frutti scorbutici.
Come uomini offesi dalla vita
Nascondono sotto la spessa corteccia spinosa
Un dolce mistero, profumato di Sud.

MARIA CARTA - Dilliriende

ANTICHE SONORITA'

VICENTE AMIGO -Tangos Del Arco Bajo

FLUSSI D'ENERGIA

martedì 25 agosto 2009

IL PAESE DIMENTICATO






- Buonasera, è lei padre Onofrio Raggiante?
- Buonasera a lei…sì, sì…sono io…mi dica.
- Ecco…mi sono appena trasferito qui in paese e ho pensato di venirla a trovare…
- Ah! Bene! Bravo! Un nuovo parrocchiano! E giovane pure!! Mi scusi…perdoni il mio entusiasmo..ma sa…questo è un piccolo paese….e gli abitanti sono tutti anziani…come vede anch’io sento il peso degli anni…e quando capita di incontrare un giovane il cuore mi si allarga….
- Forse ho ancora un aspetto giovanile, ma le assicuro, padre, che ho molte primavere alle mie spalle!
- Ma sì, ma sì….dicono tutti così…appena superano i quarant’anni si sentono vecchi…ma sa che le dico? Qui in paese l’età media è di circa settantacinque anni!! Si rende conto? Lei, qui da noi è un ragazzino! E poi, caro signor…? Come si chiama?
- Mi scusi, non mi sono ancora presentato….mi chiamo Nero De Profundis.
- …..NNero? De Profundis!! Mi sta prendendo in giro! Ahah…è uno scherzo…
- Non mi piace scherzare sul mio nome…e questo è il mio nome!
- No..no..non volevo….abbia pazienza! Il suo è un nome…..inusuale..ed è ormai troppo tempo che non faccio una nuova conoscenza…mi perdoni, la prego.
- Non importa, ormai ci sono abituato…il mio nome potrà suonare strano…ma le assicuro che nessuno lo ha mai più dimenticato….
- Certo, certo…mi rendo conto. Dunque…mi diceva che si è appena trasferito in paese…bene, bene! E di cosa si occupa?
- Diciamo che mi occupo di trasporti….
- Trasporti…..bene!...Anche se non capisco…qui in paese non ci sono fabbriche, né opifici, né imprese commerciali….pensi che non c’è manco una farmacia!
- Lo so, conosco il paese. Ma io non trasporto merci…
- Aaaaaaah , ecco! Persone! Ma certo! Qui i trasporti pubblici sono pressoché inesistenti! Ci voleva…ci voleva proprio! Lei avrà notato..caro signor Nero, che questo è un paese quasi morto…qui vivono anziani che sono soli al mondo…pensi che da più di dieci anni non arriva una lettera, una cartolina…che dico…una pubblicità postale! Nulla! Rimanga fra noi…mi raccomando…qui non arrivano più neanche le cartelle esattoriali! I certificati elettorali…le bollette dell’energia elettrica!....Anche il mio vescovo è muto da anni! Ma io mi dico: i vescovi si fanno sentire quando c’è da risolvere problemi, da censurare comportamenti, da appianare divergenze…Se tutto tace vuol dire che va tutto bene…che modestamente faccio il mio dovere fino in fondo…con l’aiuto del Signore!!
- Posso capire questa mancanza di collegamenti fino a un certo punto…come fate per il danaro? Evidentemente qui non arrivano neanche i soldi delle pensioni…come campate?
- E’ vero, ma è questo il bello della nostra piccola comunità: aver scoperto che il denaro non ci serve. Tutti possiedono un orto e animali domestici, il cibo genuino non manca mai…i miei parrocchiani invece di fare offerte in denaro mi danno tutto quel che mi serve per vivere….
- E gli ammalati? Come fanno coloro che hanno bisogno di cure e di farmaci?
- Cristo è grande! Caro fratello, qui non ci sono ammalati. Siamo tutti vecchi…ma in salute…grazie a Dio!
- E quando muore qualcuno­­­­­? Come fate per le esequie e la sepoltura?
- Il buon Dio ci tiene sotto le sue amorevoli braccia….da oltre dieci anni non muore nessuno qui.
- E tutto questo le sembra normale?
- A dire il vero all’inizio ebbi forti paure, non riuscivo a trovare il senso di quanto stava accadendo….poi ho pensato che Iddio volesse metterci alla prova…volesse metterci nelle condizioni materiali e spirituali di abbracciare uno stile di vita vicino al Vangelo. Saremmo stati capaci di vivere senza miti né idoli, praticando la solidarietà e la carità? E ho esortato tutti i fedeli a seguire il sentiero di luce che il Signore ci ha posto davanti agli occhi….
- Ahahahahahah!
- Perché, fratello, ti beffi di noi? Eppure, se tu ora sei qui con noi, c’è un disegno celeste che riguarda anche te! La tua risata suona come una bestemmia!
- Sbagli…sei tu che bestemmi! Sei un presuntuoso! Sei un prete presuntuoso…una razza pericolosa che in questi ultimi tempi si sta diffondendo in modo pernicioso….
- De Profundis!! Rispetto! Abbi rispetto per l’abito che porto!
- L’abito che porti non ti rende migliore degli altri…anzi…esso è un segno…anzi è il segno che tu più degli altri dovresti essere consapevole di essere solo un uomo, ovvero l’unico essere in grado di comprendere i propri limiti ma incapace di contenersi. Il tuo essere prete deve rappresentare questa contraddizione: sei un lercio peccatore come tutti ma come tutti puoi aspirare a Dio, Dio ti ha concesso il privilegio di essere un suo strumento, ma non perché sei il migliore fra gli uomini…bensì perché tu sei uno dei peggiori!
- Sono allibito!! Ma cosa ne sai tu….ometto trasportatore, di fede, di verità e di teologia??? UN CAZZO!! Non sai un cazzo e ti permetti di parlarmi cosi? Che tu sia maledetto!!!
- Eccolo qui….il buon vecchio essere umano che tracima dalla rigida bardatura nera del sacerdote!! Avanti…avanti….manifestati pure in tutta la tua bassezza!! Tu sei figlio di Caino ed io non lo dimentico mai, tutta la tua dottrina da seminario regionale te la puoi cacciare giù per il sedere…per quello che vale. La tua genealogia abbonda di violenti, di grassatori, di assassini e prostitute, solo nell’ultimo secolo i tuoi avi si sono dedicati alla più rispettabile truffa, all’incruenta corruzione e al furto silenzioso.
- Ma che dici!!!Sei pazzo! Straparli di cose a te sconosciute! Dio santo..aiutami!!
- Straparlo? Tuo nonno si chiamava Onofrio come te. Era un grande bestemmiatore e ubriacone, faceva la guardia campestre e durante il lavoro notturno si dedicava all’abigeato. Suo figlio Filippo, il tuo amatissimo padre, con i denari dei furti di bestiame faceva lo strozzino. E tu fosti messo in seminario perché tuo padre aveva dei fondatissimi dubbi sul fatto che tu fossi realmente suo figlio…
- CHI SEI?? Avanti…dimmi chi sei…DIMMELO!!! Ho capito…ma sì…ti manda il vescovo!Qualcuno avrà parlato male di me…della mia comunità…del nostro paese…avanti confessa!!
- Nessuno ha parlato di te, nessuno parla di questo paese, il vescovo che hai conosciuto è morto da nove anni e il suo sostituto non sa nulla di nulla….questo paese non fa parte della sua diocesi….non appartiene ad alcuna diocesi…questo paese non esiste più….
- Ti ostini a mentire!! Pensi di farmi paura!! Ma sai che ti dico? Anche se così fosse a me non importa…qui, in questo luogo dimenticato dagli uomini è avvenuto un miracolo, il Signore ci ha prescelti per farci vivere secondo il santo Vangelo!! E questo mi basta…
- Prete!! Continui a peccare di presunzione…ti costerà caro…molto caro!
- Sei un fraudolento! Ti sei presentato a me sotto mentite spoglie per carpire i segreti del nostro miracolo….ma la mia fede è illimitata….Dio vede tutto e la Provvidenza scende generosa sulle nostre teste…è sempre stato così….
- Sei un babbeo! Non conosci la storia e credi alle storielle che il clero confeziona per i mistici creduloni e le ipocrite bizzoche che popolano le chiese e gli oratori…..la favoletta che Dio è dietro ad ogni angolo pronto a soccorrerti è francamente amena! Hai idea di cosa sia l’universo? Ti rendi conto quanti siano i pianeti abitati come il nostro? …Noo, sei troppo scemo per arrivarci da solo….
- Cosa mi racconti adesso? L’universo, i pianeti…qui si parla di Dio…non di geografia astronomica!
- Ascolta! Coglione con la tonaca! Rispondi a questa domanda: dov’era Dio quando i nazisti hanno torturato e massacrato milioni di persone? Dov’era Dio quando gli americani hanno spazzato via due intere città con la bomba atomica? Dov’è Dio quando ogni anno muoiono di fame e di sete milioni di uomini, donne e bambini? Dov’è Dio ogni qualvolta un essere umano lo invoca disperatamente e sinceramente?
- Dio è lì, dove c’è il dolore e si consuma l’ingiustizia, ma egli non vuole intervenire per consentire all’uomo di scegliere fra il bene e il male….
- Sei patetico! Secondo quanto dici, Dio assisterebbe a tutto questo orrore senza far nulla …in attesa che qualcuno faccia qualcosa di buono. E secondo te, cosa potrebbero fare alcune persone di buona volontà per sfamare milioni di affamati?....Te lo dico io: nulla. La risposta è un’altra ed è anche piuttosto semplice: Dio non c’è.
- Eccolo là!!! Lo sapevo…lo sentivo….vuoi propagandare l’ateismo…sei un servo del demonio…ecco chi sei!!!
- Ho detto che Dio non c’è….non che Dio non esiste.
- Adesso vuoi confondermi coi tuoi diabolici sofismi…ma non mi convinci..sei un’apostata!
- Dio non è presente, non è fra noi. Lui ci ha affidato la Terra e un giorno ci chiederà di rendergli conto. Con questo non dico che si disinteressa di noi…ma solo che ha altro da fare. Ogni tanto incarica qualcuno di dare un’occhiata, di controllare, oppure di occuparsi di coloro che non sono più…Ecco…quel che è accaduto è semplice….per un po’ di tempo nessuno si è occupato di voi…siete stati dimenticati.
- Dimenticati? Vuoi dire che il buon Dio si è scordato di qualche centinaio di persone, tutte bravi fedeli e buoni cristiani? Si è dimenticato anche del suo umilissimo servitore! Di me, che gli ho dedicato tutta la mia vita e tutte le mie forze?
- Sì…è accaduto proprio questo. E per questo motivo sono stato mandato qui. Per porre rimedio a questa situazione…
- E chi sei tu? L’Arcangelo Gabriele? A me sembri un grandissimo stronzo!
- Non sono un angelo, io mi occupo solo di trasporti…
- Ancora!! Continui a beffarti di me! Trasporti!....Ma sentite che roba….Dio ti ha ordinato di deportarci in massa da qualche altra parte? Sei sicuro di non essere un Testimone di Geova?
- Mi rendo conto che è difficile credere a quello che ti dico…e sarà ancora più difficile credere a quello che sto per dirti…
- Che altro? Stanno arrivando i torpedoni? Tra poco si parte?
- Non servono mezzi….non trasporto persone….
- Ma se mi hai detto che non ti occupi di merci!!! Se non trasporti merci devi trasportare persone…non vi sono alternative!
- Invece sì…..io faccio il trasportatore di anime….tu sai di cosa sto parlando.
- Aaaanime!.....il signor…..Nero……De Profundis….trasportatore….di anime…
- Sì…sono qui per questo…
- Ma…ma la Morte…
- La Morte è già passata di qui, molte volte, in questo paese non vive più nessuno….siete tutti morti da tempo, ma non ve ne siete accorti, soli e impegnati a sopravvivere non vi siete accorti del vuoto che cresceva intorno a voi.
- Non posso crederci!! E’ tutto così assurdo! Siamo tutti morti! Il paese è morto! Siamo stati dimenticati! Tante vite inutili! Dopo di noi il nulla!
- Consolati Onofrio, anche prima di te c’era il nulla…..ti è stato concesso di capire, ti è stato concesso di essere. Persino la Morte ti è stata lieve.
- Come un fiore….sboccia, vive qualche giorno… e poi secca….
- Esatto….come un fiore….é ora di andare.
- Non posso….non posso accettare quest’assurdità….la mia mente si rifiuta….
- La tua mente si rifiuta? Proprio tu …un sacerdote….ti appelli alla razionalità? Ma se alla base di tutto ciò che hai fatto e di tutto ciò in cui credi c’è il mistero…se fino a un momento fa hai celebrato un mistero che è quanto di più estraneo ad ogni raziocinio.
- Ma il mistero di Cristo rappresenta la redenzione e la salvezza. Tu mi hai prospettato un mistero cupo e disperato….in cui Dio è assente…come potrei accettarlo?
- Non sei in condizione di potere…ma di dovere…ricordi le ultime parole del Figlio dell’Uomo sulla croce?
- ….Dio…perché mi hai abbandonato?
- È il mistero dell’abbandono….
- È atroce!
- È la vita ad essere costellata di ingiustizie e atrocità ed è sempre l’uomo a commetterle…su, andiamo..
- Una domanda….ti prego..
- L’ultima…
- Dio ci salverà?
- No.