venerdì 27 novembre 2009

giovedì 26 novembre 2009

FRED ASTAIRE - Say It With Firecrackers

ESPLOSIVO

LA FELICITA'


Che cos’è la felicità? Eppure la risposta dovrebbe essere facile, l’uomo parla sempre della felicità e agisce sempre per poterla ottenere. Ma siamo sicuri di conoscerla? Descrivere la felicità non è una cosa semplice poiché essa è uno stato dell’animo, è una condizione della mente, è la sommatoria di diverse intense sensazioni. Partendo da queste ultime affermazioni potremmo dire che non è il ragionamento a condurci verso la felicità, infatti l’uomo felice non sa di esserlo quanto piuttosto sente di esserlo. Una sensazione, quindi, è quella che ci dà il segnale di averla colta o, meglio, di essere stati colti da essa. E, proprio per questo, non riusciamo a definire la felicità e siamo in grado solo di viverla. Essa, a differenza del suo opposto: il dolore, non investe alcuna problematica, non suscita alcun interrogativo, non coinvolge alcuna riflessione, non induce alcuna separazione tra il sé e il fuori dal sé, non crea alcun muro tra noi e la realtà che ci circonda. La felicità, così come il dolore, non è un sentimento etico, essa non è appannaggio del giusto come il dolore non è punizione per il colpevole. Queste due sensazioni sono assolutamente aleatorie ed entrambe sono dominate e consumate dal tempo. Quel tempo che ci fa sopravvivere al dolore e che dissolve la felicità.
Per il pensiero greco antico la felicità consisteva nella capacità, data dalla sorte e coltivata dall’uomo attraverso l’etica, di controllare il proprio destino. Per il pensiero giudaico-cristiano, invece, la felicità non è di questo mondo e viene promessa da Dio a tutti coloro che, in questo mondo, saranno capaci di guadagnarla attraverso l’esperienza del dolore.
Nella società contemporanea la felicità assume un senso individualistico legato al godimento privato, al raggiungimento di uno stato di benessere vincolato alla disponibilità di denaro, di merci e di rapporti umani affettivamente e fisicamente appaganti. Questo concetto si presta molto ad attribuire alle circostanze e al mondo esterno la responsabilità di un eventuale fallimento: fattori come l’amore, la salute, il denaro, l’età e l’aspetto fisico, non sono sotto il nostro totale controllo. E quindi il fallimento diventa causa esterna a noi, indipendente dalla nostra volontà. In sostanza abbiamo assunto modelli e stereotipi imposti dalla società di massa e li abbiamo introiettati a tal punto da ritenerli elementi fondamentali su cui costruire il nostro traguardo di felicità. Ma siccome si tratta di modelli difficili da raggiungere per la maggioranza degli uomini, ecco che subentra il dolore, la frustrazione, l’ansia, insomma uno stato permanente di sconfitta che arriva ad intaccare persino la salute psico-fisica.
Eppure se è vero che la felicità è una sensazione di comunione, di armonia, di non dualismo tra noi e ciò che ci circonda, appare piuttosto chiaro che questa dimensione passa attraverso il nostro stato di equilibrio e di accettazione di quello che siamo. Il primo passo verso la felicità dovrebbe proprio essere quello verso la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e delle nostre qualità. Il passo successivo dovrà riguardare l’affermazione e la realizzazione di sé, quello che vuol dire Nietsche quando scrive:”Diventa ciò che sei”. Seguendo questa strada ci accorgeremo che raggiungere l’armonia fra noi stessi e ciò che ci circonda è possibile, così come è possibile vivere bene se adottiamo la misura dei nostri limiti e delle nostre capacità. Il giusto mezzo si trova fra il disprezzo del mondo del pensiero giudaico-cristiano e l’edonismo senza limiti del pensiero contemporaneo. Se, da una parte, saremo capaci di amare questo mondo (perché nell’eternità ci annulliamo) e dall’altra riusciremo a rifiutare i feticci della società dei consumi, forse risulterà più facile rivalutare noi stessi per quello che siamo e per quello che possiamo fare e immaginare. Raggiungeremo la felicità? Non lo so, ma certamente avremo costruito un percorso di vita con un senso, senza rimpianti né frustrazioni, aperto ad accogliere tutte le opportunità che il Caso ci vorrà offrire. E se capiterà di sentirci felici vivremo quegli istanti con tutta la pienezza che ci sarà consentito di avere, così un giorno, quel gran giorno, potremo dire: sono stato felice.

mercoledì 25 novembre 2009

UNA SECONDA VITA


A volte accade che la nostra esistenza subisca una serie di eventi che la spingeranno a cambiare radicalmente. Le cause possono essere varie: dal fallimento matrimoniale alla perdita del lavoro, dalla scomparsa improvvisa di una persona cara all’incontro imprevisto con un Testimone di Geova, dalla vincita miliardaria all’innamoramento con Sharon, al secolo Pedro da Rio de Janeiro.
Accade che la nostra vita cambia completamente il suo corso per imboccare una strada che mai avremmo pensato di dover percorrere. In sostanza ci troviamo a vivere una nuova, una seconda vita. Lo shock dovuto al cambiamento subentra solo dopo aver realizzato che le cose non stanno più come prima, solo dopo aver razionalizzato la presenza di una nuova situazione. Fino a quel momento si continua a vivere come prima andando inesorabilmente a sbattere la testa contro le nuove architetture, fisiche e mentali, che hanno immediatamente sostituito le vecchie. Così, dopo aver collezionato un bel numero di bernoccoli e di ginocchia sbucciate, entriamo nel nuovo ordine di idee che la nuova realtà ci impone. E qui diventa dura, dura perché lo shock del nuovo ci fa sentire irrimediabilmente impreparati, ansiosi di non riuscire a gestire questa seconda vita. Non poco incide il senso di fallimento che ci trasciniamo appresso dalla nostra prima esperienza e che fa da freno a ogni nostro tentativo di muoverci in questa nuova realtà. A volte capita che lo shock conduca ad una sorta di ubriacatura dovuta alla sensazione di essersi liberati dai vecchi pesi e contrappesi e che ci assalga una specie di delirio di onnipotenza che potrebbe portarci dappertutto: dalla frequentazione di massaggiatrici più o meno professionali al ritiro spirituale presso i frati scolopi, da serate in locali per scambisti a tristissime crociere per singles.
Invece quello di cui realmente avremmo bisogno è tutt’altro; dovremmo cercare di incanalare l’energia sprigionata dallo shock in un percorso di ricostruzione di noi stessi, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova dimensione nella quale poterci riconoscere e poter riprendere questa nuova esperienza di vita. Il passato, se da una parte è incancellabile ed è patrimonio della memoria, dall’altra esso non è una prigione, esso è solo un capitolo chiuso di una storia che continua e che potrebbe riservare delle grandi e piacevoli sorprese. L’errore che assolutamente non si deve commettere è quello di cercare di replicare situazioni e comportamenti che invece fanno parte della precedente conclusa esperienza. Aprirsi al nuovo non deve essere una tattica ma una strategia, ci vuole il coraggio di rischiare, di mettersi in discussione, di cambiare opinione, di respirare la vita a pieni polmoni. Dobbiamo accettare il cambiamento come una nuova opportunità che ci viene offerta dal Caso e/o dalla Fortuna, il rifiuto non ha nessun senso poiché non ci riporterà indietro nel tempo e nello spazio né ci consentirà di continuare a vivere in modo equilibrato in una situazione che è oggettivamente mutata. Buttarla sulla iattura trascendentale è segno di ignoranza e d’impotenza psichica, il corso della Natura è ricco di cambiamenti e mutazioni in cui la vita e la morte si alternano in una sequenza casuale e imprevedibile così come ancora più imprevedibile è la nostra sorte. Dichiarare forfait prima che i giochi siano chiusi fa parte delle nostre opzioni ma bisogna fare questa scelta solo dopo aver seriamente tentato altre strade e senza aver dato troppo peso né all’orgoglio (ma chi ci crediamo di essere?) né a quei legami di sangue che possono essere una ricchezza ma anche una robusta catena che ci tiene legati ai ceppi dell’egoismo e al concetto tribale della famiglia. Una seconda vita può voler dire la scoperta di un altro mondo, di altre persone, di un altro modo di vivere, di un altro modo di vedere le cose. Ma soprattutto può voler dire scoprire una parte di noi stessi che prima era rimasta nascosta, scoprire delle nostre qualità che non sapevamo di possedere. Assecondare il cambiamento ci porta ad essere in sintonia con la vita e meno legati ai vincoli del pregiudizio, certo non è comodo cambiare abitudini e stile di vita soprattutto quando non si è più giovani, ma il disagio dei nuovi problemi è sempre preferibile allo spettacolo di noi stessi agonizzanti tra vecchie abitudini coperti dalle piaghe purulente del ricordo di ciò che è svanito.
“La vita appartiene ai viventi, e chi vive deve essere preparato ai cambiamenti”. James Joyce

domenica 22 novembre 2009

CASA DI CURA "LA TEMPESTA"


Ancora un allestimento de “La Tempesta” per il Teatro Stabile di Napoli e la regia di Andrea De Rosa. Una compagnia solida, con elementi di spicco come Rolando Ravello, rinforzata dalla presenza di Umberto Orsini, uno degli ultimi “principi” del teatro italiano.
“La Tempesta” è forse l’unica opera di Shakespeare che si presta “naturalmente” ad operazioni di revisione drammaturgica e di modernizzazione. Le storiche revisioni di Strelher e di Peter Brook ne sono un valido esempio, per non parlare delle versioni cinematografiche che nel film di Greenaway (Prospero’s Book) trovano l’apice di ogni verosimile astrazione.
De Rosa opera due alterazioni fondamentali: da un lato riduce e quasi annulla l’aura di magico mistero che avvolge la figura di Prospero/Orsini e dall’altro modifica il ruolo di Calibrano/Ravello sottraendogli ogni elemento di cruda e quasi disumana naturalezza per consegnarlo a un destino di semi demente ossessionato dal sesso. In questa nuova ottica Prospero, vestito di un grigio cappottino da pensionato, perde ogni alone di potenza sovrannaturale per apparire come una sorta di eminenza grigia incapace di esercitare il suo dominio totale neanche su Ariel, il quale, a sua volta, ci viene presentato non come un vitalissimo elfo bensì come una sorta di Genio della lampada di Aladino, anziano, calvo, col pizzetto imbiancato e tanta voglia di tornare a russare nella sua comoda lampada. L’isola diventa così una sorta di gerontocomio e clinica per malati di mente, cosa scenograficamente confermata dalla presenza del solito lettino ospedaliero a rotelle, al centro della scena. Cosa rimane allora del dramma labirintico, della ricerca dell’uomo di dominare la natura, della brama del potere, dell’oppressione dell’uomo sull’uomo, del rischio che le colpe dei vecchi possano ricadere sulle nuove generazioni, del pentimento e dell’esercizio del perdono? Cosa resta di un dramma che conclude la visione rinascimentale dell’uomo protagonista del proprio destino per aprire il nuovo scenario barocco in cui il mistero e l’incertezza della propria identità si misura con l’illusione dei sensi e l’imprevedibilità della natura? Proprio un bel niente.
Il mitico monologo di Prospero sull’illusione della realtà, sulla vita che è teatro e vana rappresentazione, diventa un biascicante delirio di un vecchio claudicante sull’orlo di una crisi prostatica.
In ogni caso la Compagnia merita un voto di plauso, se non altro per aver reso alla perfezione il punto di vista del regista. Una menzione speciale per il suono: la trovata di investire gli spettatori con tuoni inaspettati e assolutamente esagerati (roba da crakkare pacemaker e apparecchi Amplifon) ha evitato parecchi sonni placidi in platea.

venerdì 20 novembre 2009

RICORDARE SCIASCIA


Vent’anni fa, il 20 Novembre 1989, si spegneva uno dei più grandi scrittori italiani del XX secolo: Leonardo Sciascia. Naturalmente questo anniversario passerà senza che nessuno si sia preoccupato di ricordare la vita e le opere di uno scrittore che ha lasciato un segno indelebile nella cultura e nella letteratura di questo paese. Eppure mai come ai nostri giorni avremmo bisogno del contributo di un intellettuale libero e onesto come Sciascia che ci aiutasse a capire e a interpretare una realtà politica, sociale ed economica che in vent’anni è mutata così radicalmente.
Siciliano di Racalmuto, Sciascia apre la sua sicilianità al contesto culturale europeo proseguendo sulla strada già battuta da Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Le sue storie sono un racconto critico di una realtà in cui semplicità e complessità sono due facce della stessa medaglia. Quando, nel 1960, fu pubblicato il romanzo “Il Giorno della Civetta” in cui, per la prima volta, uno scrittore descriveva le caratteristiche e la cultura della mafia, il potere politico e istituzionale si sforzava ancora di negarne l’esistenza parlando di semplice malavita locale. Sciascia è il primo a raccontare di come sia stato possibile che il crimine organizzato si sia intimamente intrecciato al potere per creare quella grigia zona di contiguità che come una cappa asfissiante uccide lo stato di diritto e condiziona l’economia e la libertà della società civile. Mano a mano che la sua produzione letteraria si sviluppa attraverso opere apparentemente eterogenee, Sciascia, insieme a Pasolini, diventa una delle coscienze critiche più scomode del secondo dopoguerra. Il suo impegno civile si materializza anche nella politica: eletto nel consiglio comunale di Palermo, nelle liste del PCI, diventa scomodo persino per il partito che lo ha sponsorizzato, con il quale rompe definitivamente dopo aver dichiarato di una conversazione tra lui, Guttuso e Berlinguer in cui quest’ultimo avrebbe ammesso che le brigate rosse erano state addestrate in Cecoslovacchia. Durante i giorni oscuri del rapimento Moro, Sciascia pubblica un piccolo saggio sulle contestatissime lettere dello statista democristiano scritte dalla prigionia. “L’Affaire Moro” è una lucidissima analisi di quelle carte, un’analisi completamente controcorrente rispetto al giudizio che allora ne diede tutto il mondo politico. Pannella e il Partito Radicale offriranno a Sciascia la possibilità di entrare in Parlamento per continuare, da deputato, a osservare e criticare le cose dello stato. Oltre a un intenso lavoro parlamentare (documentato dall’ultimo libro di Camilleri) Sciascia non si sottrae al giudizio di quei magistrati che erano impegnati nel pool antimafia e non si preoccupa di scatenare un putiferio quando dichiara e scrive che per alcuni di quei magistrati l’antimafia era solo motivo di prestigio e di carriera.
Sciascia (ancora una volta insieme a Pasolini) è convinto che il dovere morale di un intellettuale è quello di leggere e interpretare la realtà tenendo sempre presente che il potere tende a sfuggire dal controllo democratico per assumere forme diverse e autoalimentarsi all’infinito.
Ricordiamo Leonardo Sciascia leggendo e rileggendo i suoi libri, forse è l’unico modo degno di onorare un grandissimo scrittore.

lunedì 16 novembre 2009

LA PRASSI E IL SIMBOLO


La tragica, e ancora non chiarita, vicenda che ha portato alle sevizie e alla morte di Stefano Cucchi, oltre che indignare dovrebbe invitare a riflettere seriamente sul problema del consumo delle droghe. Cucchi non solo è stato vittima della bestialità umana e dell’omertà di stato, egli è uno dei tanti che ogni giorno subiscono sulla propria pelle la politica proibizionista che vige in questo paese.
Senza andare troppo indietro nel tempo già dal 2005 un gruppo di cinquecento insigni economisti americani (fra cui il premio Nobel Milton Freedman) pubblicarono una lettera aperta al presidente, al Congresso e ai governatori sulla legalizzazione della marijuana. La cosa più interessante era che l’argomentazione più forte, accanto alle solite questioni che riguardavano il traffico delle mafie e della malavita, l’uso della violenza e della rapina da parte di persone fondamentalmente pacifiche, era di carattere squisitamente economico: sostituendo alla legislazione proibizionista un sistema di controllo e tassazione dei consumi (come già avviene per altre droghe come l’alcool e il tabacco), non solo ci sarebbe un risparmio di oltre sette miliardi di dollari ma si realizzerebbe anche un introito di oltre sei miliardi. La recente legislazione in vigore in California riguardante l’uso terapeutico della mariujuana (sostenuta persino dal governatore repubblicano Shwarzenegger) sta modificando i pregiudizi di molti americani su un uso controllato di sostanze di questo genere e indirettamente sta operando un’inversione di tendenza su come far fronte al problema del consumo e del traffico illegale di stupefacenti. È recente un articolo apparso sul prestigioso Washington Post intitolato “It’s Time to Legalize Drugs”, in cui una buona parte dell’opinione progressista esce finalmente allo scoperto su un tema molto scottante e molto sentito da tutta la popolazione.
Nonostante tutto ciò la questione continua a essere osteggiata sia del mondo politico che dalla società civile. Robert Nozick, filosofo e docente all’università di Harvard, sostiene che il problema consiste nella forte valenza simbolica che è alla base delle politiche e le leggi proibizioniste: in altri termini, i divieti dello stato soddisfano e fanno salvo il simbolo di ordine e sicurezza indipendentemente dalla loro effettiva e reale efficacia. È un problema culturale, questo. E infatti se solo pensiamo alla piaga dell’alcolismo, non si riesce a comprendere come e perché il consumo dell’alcool sia ancora legale visto e considerato che un alcolista è paragonabile ad un eroinomane o a un cocainomane e che le vittime indirette di questa dipendenza siano molto superiori a quelle riferibili ad altre tossicodipendenze (basti pensare alle vittime innocenti di incidenti stradali causati dall’abuso di alcool). Evidentemente nella nostra società le droghe sono ancora un grosso tabù carico di pregiudizi e paure. Eppure mai come oggi l’opinione pubblica è stata costretta a misurarsi con problemi come quelli di una popolazione giovanile dedita al consumo abituale di droghe ed alcolici, mai come oggi le carceri pullulano di gente coinvolta nella spirale del traffico e del consumo di droga, mai come oggi i fatturati delle mafie hanno raggiunto cifre così enormi grazie al traffico di stupefacenti. Questi fatti concreti, questa tragica realtà, dovrebbero suggerire l’adozione di un comportamento estremamente pragmatico finalizzato alla risoluzione del fenomeno o, quanto meno, alla sua riduzione in termini molto più contenuti. Invece trionfa il simbolo, la questione di principio, il dogma laico, il feticcio intoccabile. Non importa se la malavita si ingrassa a dismisura, se poveri ragazzi confusi cadono in una spirale delinquenziale implacabile. Naturalmente nessuno si sogna di risolvere il problema del consumo e delle dipendenze dalla droga, ma una politica antiproibizionista sicuramente priverebbe le mafie di una buona parte di guadagni, aiuterebbe non poco a evitare l’escalation da droghe leggere a droghe molto più pericolose e letali, eviterebbe che molta gente pacifica finisse in carcere per essere trasformata in criminali, servirebbe a tenere sotto stretto controllo una situazione che al momento è solo stimata. Non è la panacea ma è certo un modo pragmatico di affrontare una questione che ora è estremamente critica.
Riuscirà la prassi a sconfiggere il simbolo? Dipenderà solo da noi se saremo capaci di spogliarci di una cultura ipocritamente rigida, fatta di simboli vuoti e di paure ingiustificate.

sabato 14 novembre 2009

COLEMAN HAWKINS - Out of Nowhere

CHIUDERE GLI OCCHI

NOWHERE


Una delle prerogative della maturità (che non sopravviene a scadenza fissa ma si conforma e si consolida in un lasso di tempo variabile da persona a persona) è il desiderio di vivere momenti di pausa e di riflessione. Nasce, cioè, la necessità di disporre di un luogo e di un tempo da dedicare a sé stessi, in solitudine. Potrebbe sembrare normale che dopo un periodo di attività lavorativa svolta a ritmo sostenuto, se non addirittura frenetico, si cerchi una pausa rilassante o per lo meno distensiva. Ma non è questo il genere di cosa a cui ci si vuole riferire. Si tratta piuttosto di cercare e trovare un luogo particolare in cui potersi dedicare a riflettere, a osservare la natura, a leggere, o più semplicemente a far nulla.
La necessità è quella di poter operare una sorta di “svuotamento” della testa, degli occhi e delle orecchie da suoni, immagini e pensieri che normalmente albergano nei nostri sensi e per i quali si prova specie di nausea, di fastidiosa assuefazione. Si è giunti a uno stato di autorepulsione, di rifiuto di sé stessi, di negazione affettiva, di ribrezzo relazionale. Questo è il momento in cui si rompe il nostro equilibrio dinamico e bisogna fermarsi per ricostruirlo. Girare per le stradine di campagna, passeggiare lungo la spiaggia o camminare a zonzo sotto la pioggia, non importa, quel che conta è avere la percezione di essere in nessun luogo (rende meglio il vocabolo inglese nowhere), ovvero di fluttuare in una diversa dimensione spazio temporale in cui le cose più semplici e naturali ci appaiono nuove rivelazioni. Il volo di un gabbiano, il frenetico incedere di una formica, la ritmica oscillazione di uno stelo d’erba percosso dalla brezza, l’odore della pioggia, il profumo di un ragù assonnato sopra un’esile fiammella, la dignità di un cane randagio accucciato sul marciapiedi. Tutto ci sembra nuovo, diverso, degno di interesse. In questi momenti riaffiora la curiosità del bambino, assaporiamo lo stupore dell’uscir fuori da sé e sentirsi in comunione col resto del mondo. I pensieri si accumulano affastellati sul ciglio della bocca e vorremmo recitare una vecchia poesia imparata da piccoli, non riusciamo a fermare i ricordi e il formarsi di nuove fantasie. A volte, in questi istanti, si prova la repentina sensazione di sentir scorrere il flusso vitale, di aver toccato per un attimo il volto della Vita. Sono ore preziose che non devono essere corrotte da invasioni telefoniche o altri tipi di contatti con il teatro quotidiano che recitiamo ormai passivamente da troppo tempo. Per l’essere umano è estremamente riduttivo misurarsi esclusivamente con le squallide cose che riguardano la sopravvivenza e i rapporti sociali: l’uomo ha bisogno di confrontarsi con qualcosa di più grande e complesso, con qualcosa di metafisico. Il problema è che la società dei consumi tende a spacciare per metafisico qualsiasi bisogno indotto, per cui acquistare un jeans da centocinquanta euro non è più (come dovrebbe essere) un atto scellerato bensì diventa un passo avanti nella processione degli eletti, per non parlare del delirio di onnipotenza che crea il possesso di una borsa di Vuitton e che dire di chi ha giurato di aver visto la Madonna dopo aver inforcato un paio di mutande di Dolce & Gabbana? Per moltissimi, giovani soprattutto, il nowhere preferito è la televisione e in particolari programmi come Uomini e Donne: davanti al piccolo schermo vedono sfilare allegri e allegre scansafatiche dal vocabolario approssimativo, tutti convinti che la vita consista nello scambiarsi monologhi da cerebrolesi e dibattersi nel dubbio di chi trombare e/o da chi farsi trombare nelle prossime ventiquattr’ore. Questi ragazzi (tra l’altro anche un po’ stagionati) fino a non molti decenni fa avrebbero potuto solo intraprendere le onorate carriere di squillo, impiegate Standa, sciampiste, facchini, fattorino di pizzicagnolo, radiatorista e magliaro. Ora possono finalmente aspirare a divenire ospiti di discoteche e night club, modelli per reclamizzare la nuova pizzeria da Ciro e, solo per i più belli e dotati, fare televendite di pentolame e materassi. Un bel passo avanti non c’è che dire. E i giovani spettatori? A costoro cosa accadrà? Alcuni ingrosseranno le file dei casting televisivi, gli altri, la maggior parte, continuerà la vita di sempre tra tivù e manicaretti di mammà e quando verrà il momento di voler fare una passeggiata romantica sussurreranno: verresti con me a fare un’esterna?
Stando così le cose, a noi maturi pellegrini del nowhere non restano molte speranze. Così se accadesse di trovare un luogo veramente speciale, la tentazione di rimanervi potrebbe essere troppo forte. Lasceremmo una famiglia in preda alla disperazione? Ma no, dopo lo show della De Filippi passerebbero tutti a vedere Chi l'ha Visto?

venerdì 13 novembre 2009

giovedì 12 novembre 2009

KATE BUSH - Army Dreamers

SOGNI PERICOLOSI

PETER GREENAWAY - L'ultima tempesta

SOGNO E TEATRO

PAOLO CONTE - Aguaplano

SOGNO O VISIONE?

SOGNI


I sogni, i desideri, le speranze, tutto quello che vogliamo e avremmo voluto avere, essere, provare e sentire. Una serie di cose irrealizzate, non accadute, mai esistite. Una buona parte di noi è fatta anche di queste cose. Ce le portiamo dentro come un vecchio bagaglio sdrucito, sempre più pesante, sempre più ingombrante. Non riusciamo a mollarlo all’angolo di una strada o sotto una vecchia panchina, non riusciamo a dimenticarlo dentro la cassapanca o in fondo al buio ripostiglio di casa. Spesso ci ripromettiamo di non pensarci, di concentrarci solo sulla realtà, sui problemi concreti, sulle cose da fare per tirare avanti, ma inevitabilmente ogni qualvolta ci fermiamo, anche per un attimo, a guardarci dentro lo troviamo lì accanto a noi e non possiamo fare a meno di aprirlo, pur sapendo ciò che contiene. È curioso, ma noi siamo anche quello che non siamo mai stati. La nostra vita è fatta di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che avremmo voluto vivere: un insieme indistinto di essere e di non essere, un vortice di ricordi e di rimpianti, un album fotografico pieno di vuoti alternati a immagini di ciò che siamo stati. Il flusso del tempo ci lascia il ricordo di gioie e sofferenze, di occasioni perse, di presenze dissolte, di frasi non dette, di errori inconfessati, di dolori inferti, di pentimenti nascosti nel buio delle notti insonni. Ci si accorge, più o meno lentamente, che la vita è sempre una partita persa, persa con noi stessi, persa con chi ci circonda, persa con la Storia, persa con il trascendente. A mano a mano che l’esperienza si accumula si percepisce la nostra unicità, quell’unicità che ci fa sentire soli, incompresi e, spesso, disperati. È un supremo egoismo, il nostro, che ci spinge a voler gridare più forte degli altri, a pretendere di essere capiti e commiserati, ad anteporre la nostra sofferenza a tutto il resto del mondo.
Quei sogni che, nella prima parte della nostra vita, sono stati fonte di speranza e di energia, improvvisamente, dopo aver compiuto il giro di boa, diventano una zavorra insopportabile, fantasmi orrendi che ci perseguitano, incubi incancellabili, segni indelebili di un fallimento. A volte tutto ciò sfocia in una sorta di delirio che porta a proiettare i propri fantasmi su figli, nipoti o figure assimilate producendo danni incalcolabili. Quello che non si è compreso è che ci troviamo di fronte a una vera e propria nemesi dell’essere umano. Non esiste, né è mai esistito, uomo che non abbia avuto il suo bel bagaglio di fallimenti e sogni irrealizzati. Alla nostra morte si aggiunge sempre un corollario di rimpianti e di rimorsi; sul ciglio di quel cratere che ci risucchierà nel nulla perdiamo ogni senso della realtà e, soprattutto, ogni senso dell’humour, che invece dovrebbe trionfare: non riusciamo a realizzare che di lì a poco saremo sottoposti alla legge di Lavoisier e i nostri atomi e le nostre molecole si combineranno in altro modo per finire in cibo per cani, lenticchie, ortica e, perché no, in un bel cheeseburger di McDonald’s. In fondo è proprio questo il senso della vita, un continuo rimescolamento molecolare, un riciclaggio totale, un fantastico destino in base al quale non si può escludere che una infinitesima componente del nostro corpo non sia la stessa di una cozza pescata e mangiata nel diciottesimo secolo. I sogni no, quelli sono esclusiva farina del nostro sacco, essi ci appartengono in modo esclusivo e unico. Dobbiamo quindi tenerceli stretti, anche quando cominciano a far male e a essere pesanti da trascinare. Essi sono la prova che abbiamo vissuto, abbiamo pianto, abbiamo amato, insomma i sogni sono il segno del nostro pensiero pulsante. Peccato che finiscano con noi senza lasciare traccia, qualcuno riesce a metterli per iscritto nella speranza che possano sopravviverci e possano interessare qualcun’altro a venire. A fronte di questi pochi fortunati c’è una folla sterminata di anonimi i cui sogni sono andati perduti insieme alle loro esistenze. Per costoro, umanità senza nome, rimangono i luoghi in cui sono vissuti, il selciato che hanno calpestato, i tramonti e le albe che hanno visto rimanendo per un attimo folgorati dalla bellezza e commossi dalla malinconia. Dalle grandi speranze alle più piccole ambizioni, fanno tutte la stessa fine, hanno tutte lo stesso epilogo. Misterioso e definitivo.
La vita non è un sogno, ma sono i sogni a dare un senso alla vita.

mercoledì 11 novembre 2009

lunedì 9 novembre 2009

domenica 8 novembre 2009

OTELLO, MA NON PER TUTTI

“Otello” è una tragedia sul tradimento. Shakespeare vuole dimostrare che la vita è costellata di episodi in cui il tradimento è il vero e unico protagonista, in cui il tradire è conseguenza dell’essere traditi, in cui la rottura della fiducia e del rispetto è molto più frequente di quanto non si possa credere, in cui la percezione di aver subito un’offesa è sufficiente a innescare una tremenda vendetta, in cui anche il tradimento inconsapevole produce conseguenze terribili.
Iago si sente profondamente tradito da Otello, il quale gli ha preferito Cassio nella nomina di luogotenente. Iago fa combutta con Roderigo per confezionare la sua vendetta e tradisce la sua amicizia per spillargli quattrini e usarlo per i suoi piani. Otello si innamora di Desdemona e tradisce la fiducia del di lei padre, che gli aveva aperto le porte della sua casa, portandogli via la figlia. Desdemona, innamorata di Otello, tradisce l’autorità paterna per fuggire con Otello. Otello e Desdemona tradiscono le leggi e le consuetudini dello stato fuggendo insieme, non solo, essi tradiscono soprattutto il tabù della razza. Il Doge tradisce l’applicazione della legge perché non può fare a meno dei servigi del Moro. Iago tradisce l’amicizia di Cassio per spingerlo a muoversi secondo i suoi piani. Iago tradisce il Moro portandolo al convincimento di una squallida tresca tra Cassio e Desdemona. Otello tradisce, perché si sente tradito, la devozione di Cassio e l’amore di Desdemona. Otello tradisce l’obbligo alla prudenza e al buon senso lasciandosi travolgere dal cieco furore della gelosia. Otello tradisce la legge degli uomini e la legge di Dio facendosi giustizia da sé. Otello tradisce se stesso uccidendosi.
Shakespeare disegna un percorso labirintico fatto di menzogne e di furore in cui la verità e la fiducia si perdono definitivamente. L’ambizione e l’amore diventano due sentimenti perniciosi, capaci di trasformare l’essere umano in un mostro. Da questo punto di vista la figura di Iago assume l’aspetto di colui che, inconsciamente, riporta ordine in una vicenda che aveva infranto ogni regola del vivere civile. Così come Otello rappresenta la tragica contraddizione dell’uomo d’armi, ovvero uomo d’ordine, incapace di controllare il violento conflitto interiore che minaccia quei principi e quelle convinzioni che erano alla base della sua vita. Per Shakespeare il tradimento non è un fatto, è piuttosto la percezione di un fatto, è la delusione di un’aspettativa, la frantumazione di un sogno, la rivelazione di un aspetto sconosciuto dell’essere e della prassi. Ma tutto ciò, che nasce nella mente e nel cuore dell’individuo, produce poi qualcosa di concreto, di tangibile, di qualcosa che segnerà il destino di altre persone. Così i fantasmi di un uomo irrompono nella realtà di altri uomini seminando morte e distruzione, come un esercito di sanguinari.
Rappresentare “Otello” senza questo tipo di premessa, senza questa dimensione critica, diventa puerile e soprattutto noioso. Purtroppo a volte accade. E’ accaduto ieri sera a Bari, al Teatro Piccinni, per la regia di Arturo Cirillo. Un allestimento tedioso, con uno Iago verbosamente immobile che pretendeva di intortare un Otello improbabile, gracile, psicolabile.
Perché tutto ciò?

giovedì 5 novembre 2009