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venerdì 9 maggio 2008

IN MEMORIA DI PEPPINO IMPASTATO


Nella notte fra l’8 e il 9 Maggio 1978 fu barbaramente massacrato Peppino Impastato. Per quest’omicidio sono stati condannati, fra il 2001 e il 2002, i mafiosi Tano Badalamenti e Vito Palazzolo. Il primo all’ergastolo, il secondo a 30 anni di reclusione. Perché giustizia fosse fatta (giacchè il caso era stato archiviato ben due volte) furono necessarie le proteste e una petizione popolare. Inquirenti e magistratura, in quella circostanza, diedero prova che i sospetti della loro collusione con la mafia non erano affatto infondati. Peppino Impastato, con la sua breve vita e con la sua tragica morte, rappresenta un esempio grandissimo di coraggio e di impegno civile. Dalle antenne di una piccola radio locale egli ha sfidato apertamente la mafia e il suo sistema di potere, attraverso la parola e l’informazione libera ha avuto il coraggio di colpire e delegittimare una società basata sul terrore e sugli affari sporchi. Peppino Impastato è un eroe e un esempio. Se fosse possibile fare una graduatoria dei martiri che si sono battuti contro la mafia, egli sarebbe al primo posto; poiché Impastato non era un magistrato né un poliziotto, non aveva compiti istituzionali da svolgere né giuramenti da osservare, non era un servitore dello Stato. Eppure, se non fosse per il film “I Cento Passi”, la sua storia e il suo coraggio sarebbero sconosciuti alla maggioranza degli italiani. In questi giorni sono pochi coloro che lo hanno ricordato, abbondano, invece, le celebrazioni dell’anniversario dell’omicidio di Aldo Moro. Non ha senso paragonare due eventi così tragici (accaduti quasi contemporaneamente), ma evidentemente si preferisce dibattere sui misteri ancora irrisolti dell’”affaire Moro” piuttosto che far conoscere la verità di omissioni e complicità che investono la magistratura siciliana impegnata nelle indagini sulla morte di Peppino Impastato. Una magistratura collusa e funzionale al sistema mafioso che non è stata mai portata allo scoperto e per la quale mai nessuno ha pagato. La vicenda di Peppino Impastato ci ricorda che esiste una macchia incancellabile sulla magistratura siciliana che il sacrificio di molti giudici onesti non potrà mai riscattare fino in fondo. Un’altra grande lezione ci giunge da quella tragica notte di trent’anni fa: la mafia, l’ingiustizia, la prevaricazione, si combattono giorno per giorno nella vita quotidiana di ognuno di noi, rifiutando omertà e compromessi, comportandosi come uomini liberi.

mercoledì 16 gennaio 2008

IL REGNO DI NAPOLI



Lo spettacolo scandaloso di fine anno, Napoli e dintorni sommersa dai rifiuti, non è che una logica e tristissima conclusione di un lento percorso di distruzione delle risorse, della cultura e dell’orgoglio del Mezzogiorno d’Italia. Dal 1860 fino ad oggi si è perseguita una politica di rapina e di affossamento del sud a favore dello sviluppo industriale del nord. Con la scusa dell’unità d’Italia si è consumato un feroce ladrocinio calpestando ogni tipo di diritto internazionale; con la complicità della nuova classe dirigente italiana si è poi organizzato un efficiente sistema di bugie e falsità storiche, tuttora in auge nelle nostre scuole, allo scopo di giustificare in chiave risorgimentale e di libertà tutta la sporca vicenda dell’unità d’Italia. L’annosa questione meridionale, i cui effetti possiamo ammirare sparsi nelle strade di Napoli e dintorni, nasce proprio con la conquista e l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Col furto sistematico e la spoliazione di uno stato sovrano i cui titoli erano quotati alla borsa di Parigi, acquistati e scambiati in tutta Europa.
Nel 1860, Giuseppe Garibaldi come entrò a Palermo pretese che il Banco di Sicilia gli versasse la modica cifra di 2.178.818 ducati, dei cinque milioni ivi custoditi. In cambio rilasciò un foglietto “per ricevuta di spese di guerra” e l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il tutto. La ricevuta è ancora conservata nell’archivio storico della banca, ma non è stata mai onorata.
In quel periodo Napoli era la terza città d’Europa, nelle sue province si lavorava il ferro, la ceramica, i filati. Le fabbriche di Pietrarsa e l’Opificio Reale costituivano il più grande complesso siderurgico dell’Europa del Sud, vi lavoravano 1.000 operai e altri 7.000 vivevano dell’indotto. La fonderia Orotea di Palermo, della famiglia Florio, era famosa nel mondo per i suoi prodotti di precisione, impiegava 600 operai. Venne smantellata perché fosse sostituita dall’Ansaldo di Genova. Il settore tessile era alla totale avanguardia in Europa, lo stabilimento di Piedimonte d’Alife, dello svizzero Egg, contava 1.300 operai, 36 filatoi e 500 telai. La maggiore filanda del nord, la Conti di Milano, impiegava solo 415 operai. A Scafati, Pallenzano e Salerno vi erano le industrie di Mayer e Zollinger, a San Leucio fu creata su 80 ettari di terra la più prestigiosa seteria d’Europa nonché unico esempio di comune operaia. A Napoli Guppy & Pattison avviarono una fabbrica di macchine a vapore che occupava 1.200 operai. Il cantiere navale di Castellammare occupava 2.000 persone. La flotta del regno delle due Sicilie contava 40.000 uomini di equipaggio. Il Napoletano era la regione italiana più industrializzata con 1.189.000 operai pari al 37% degli attivi, contro i 345.000 del Piemonte, pari al 17% (dati del censimento in occasione dell’Unità d’Italia). Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie rappresentava un gettito economico di 443,2 milioni, mentre il Regno di Sardegna ne poteva contare solo 27. Il meridione d’Italia, da solo, batteva il doppio delle monete di tutti gli altri stati in Italia. Nel giro di tre anni (1860-1863) l’erario di Napoli passò a zero, da Torino furono mandati 4 milioni per far fronte ai bisogni più immediati. In poco tempo il nuovo stato mise in ginocchio l’economia arrivando a far pagare, nel 1866, a ventidue milioni di italiani il doppio di tasse di quanto avevano pagato diciannove milioni di prussiani. Nell’ultimo anno di regno borbonico, la Sicilia pagò 32 milioni di tasse. Nel 1861 i Savoia aumentarono le tasse del 56% raggiungendo i 50 milioni. Nel 1866 70 milioni, nel 1890 200 milioni. Nell’Italia unita lo stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per quello del Sud. Furono investiti per la bonifica idraulica 267 milioni nel triangolo Torino-Verona-Grosseto e 3 milioni in tutto il regno delle due Sicilie.
Inutile continuare, è evidente che il sud d’Italia è stato conquistato e depredato di tutte le sue grandi ricchezze da una dinastia di reali d’accatto, usurpatori e opportunisti, buoni solo ad affamare la gente. Fenomeni come la mafia e la camorra diventeranno cruciali grazie al ruolo che gli verrà riconosciuto da Garibaldi e dai suoi compari nel reclutamento di “picciotti” per risalire la Sicilia e per sedare la pubblica opinione chiaramente filoborbonica nella città di Napoli. Non sarebbe male se oltre a ripulire le strade si procedesse a ripulire i libri di storia, le menzogne che ci hanno raccontato sono molto più schifose di tonnellate di rifiuti.

lunedì 16 aprile 2007

IL CAFONE ALL' INFERNO


Una volta morì un cafone, e mentre l’anima viaggiava in cielo, pensò fra sé: “Io credo che, non appena arrivo in paradiso, un posticino per me ci sarà, per riposarmi, perché, secondo mi è stato sempre detto dai preti, chi soffre sulla terra gode in cielo. Non c’è da metterlo in dubbio, ho lavorato per cinquant’anni nelle masserie.” Come arrivò, bussò alla porta del paradiso. San Pietro, da valente guardiano, aprì il finestrino, cacciò il capo fuori e disse: - Chi siete? – Sono un cafone, avvertite l’Eterno Padre -. San Pietro chiuse il finestrino e andò ad avvisare il padrone. Il Padre Eterno disse: - Lo so chi è arrivato, ma avvertitelo che non può entrare -. San Pietro salutò rispettosamente e col suo solito mazzo di chiavi andò a riferire la risposta. Aprì il finestrino e disse: - L’Eterno Padre non vi vuole accettare – e chiuse il finestrino. Il poveretto, avuta la risposta negativa, se ne andò borbottando verso il purgatorio. Per via diceva fra sé: “Quando io non ho meritato il paradiso con tutta la mia miseria e pazienza e lavorare giorno e notte come una bestia, chi lo deve meritare?” Arrivato al purgatorio, picchiò più volte, spinse la porta, ma nessuno rispose, finchè stanco di aspettare, se ne andò via. Ma mentre moveva i primi passi, disse fra sé: “Scommetto che qui c’è una canaglia peggiore della prima! Quelli almeno mi hanno risposto di no!” E se ne andò verso l’inferno. Come arrivò laggiù, bussò alla porta che in un batter d’occhio si spalancò e Belzebù, che funzionava da guardiano, gridò più volte: - Avanti! Avanti, fratello -. Egli entrò tutto risoluto e diceva fra sé: “I preti sulla terra dicono sempre bugie, m’hanno sempre detto che l’inferno è tanto terribile che non si è mai potuto descriverlo. Io ritengo che sono più gentili all’inferno che nel paradiso e nel purgatorio. Quelle parole “Avanti! Avanti fratello” mi hanno commosso”. Entrato nell’inferno, Belzebù lo invitò a sedersi, egli si sedette e diede un’occhiata all’ambiente e disse: “ Ah! Finalmente sono arrivato a un luogo dive si gode”. I diavoli che stavano intorno si guardarono in faccia meravigliati, diedero un’occhiata a Belzebù e si allontanarono dicendo fra loro:”E’ possibile che ci sia un luogo peggiore di questo? Un inferno che ci fa concorrenza? Andiamo a farlo sapere a Lucifero”. Andarono e gli raccontarono il fatto. Anche Satana a sentirlo si meravigliò e disse: “Andatemi a chiamare il portinaio, Belzebù”. In un batter d’occhio si presentarono alla porta e gli dissero: “Vi vuole il capo”. Poi si rivolsero al cafone: “Signore, permettete due minuti…” Il cafone osservò: “ Signori, dimenticate di chiudere la porta! “ Ma essi risposero: “ Non fa niente”. Allora il cafone, rimasto solo, pensava fra se stesso: “Accidenti che differenza passa fra il paradiso, il purgatorio e l’inferno! Al paradiso tengono le porte serrate con un quintale di chiavi di ferro, come un reclusorio, che per aprire un finestrino ci è voluto del tempo. Al purgatorio scommetto che aprono una volta l’anno, tanto è vero che non hanno portinaio….Immagino quella volta che aprono quanto tempo ci vuole! Mentre qui non si curano affatto della porta. Che brava gente!”. In questo momento ritorna Belzebù e lo invita ad andare con lui dal capo. In un minuto secondo si trovarono in presenza di Satana. Satana lo guardò da capo a piedi e poi disse: “ Vi piace questo luogo?” “Moltissimo, signore. Se sapevo che era così comodo sarei venuto più presto”. “Di dove sei?”, “Della Puglia, signore. Di nascita sono di un paese a confine con la Basilicata,ma come vita l’ho passata a lavorare nelle masserie del Tavoliere”. “E dove si trova il paese che hai tanto disprezzato?” “Nel Tavoliere delle Puglie, signore. Io sono analfabeta, non capisco né geografia né punti cardinali”. “Tu, Belzebù, va con costui a vedere questo Tavoliere”. “Signore, comandatemi dove volete; ma lì non ci voglio più ritornare”. Rivolto a Belzebù disse: “ portatelo a dormire. Buona notte e buon riposo a tutti”. Quando il cafone restò solo, pensava fra se stesso: “Chi mai poteva credere che all’inferno avrei avuto tanti trattamenti come un lord, solo col misero guadagno di lasciare andare l’anima mia per pochi minuti a consumarsi nella fornace ardente? In terra invece i signori agricoltori per cinquant’anni se ne sono serviti, del mio corpo, senza esser mai contenti del lavoro che ho fatto e senza dire nemmeno una volta grazie, del lavoro straordinario che facevo e che non mi spettava”. Così si addormentò. Satana disse ad un diavolo: “Vestiti da contadino e va nel Tavoliere a cercar lavoro in una masseria, per vedere se è vero tutto ciò che ha detto il cafone”. Detto fatto, vestito da contadino va a cercar lavoro. Dopo due giorni appena di lavoro, senza nemmeno chiedere il suo conto, torna all’inferno tutto abbattuto, con la testa rotta insanguinata, le ali mezzo sconquassate e spennate, il viso, le mani e i piedi scottati, faceva pietà. Come Satana lo vide in quelle condizioni, domandò il perché. Il diavolo gli narrò tutto: “Come mi avete ordinato ho fatto, sono andato a una masseria, ho chiesto lavoro e non mi è stato negato. La mattina, insieme con gli altri, ci siamo alzati due ore dopo mezzanotte. In pochi minuti abbiamo mangiato pane nero senza sale, cotto nell’acqua con un po’ di olio e sale. Mentre stavo mangiando, due lavoratori si sono messi a litigare a chi per primo doveva occupare il buco della fornace dove cucinare. Dalle chiacchiere passarono ai fatti, uno di essi per sbaglio, invece di colpire l’avversario, con una lunga mazza di ferro arroventato colpisce me alla testa. Alle tre e mezzo siamo andati a lavorare, con la pioggia e col freddo, abbiamo lavorato tutta la giornata. Solo mezz’ora di riposo a mezzogiorno, quando abbiamo cambiato i buoi e mangiato un pezzo di pane. Finalmente la sera, due ore dopo il tramonto, si è sospeso il lavoro. Tornati alla masseria, anzitutto abbiamo messo a posto gli animali e dopo ognuno, chi ne aveva bisogno, si è recato a prendere il pane dal distributore, ma anche lì per averlo si sostengono vere battaglie, col risultato di molti feriti. La prima sera non ci capivo niente, mi trovai non so come nella zuffa, mi sconquassarono le ali e il pane non lo potetti avere. La seconda sera per fortuna ebbi il pane, mi recai in cucina per vedere il sistema di cucinare ma non ho fatto a tempo. Mentre stavo per entrare si accese una zuffa; senza capire da dove venne, mi vedo addosso una caldaia di acqua bollente e mi scottarono mani, piedi e viso. Stavo per pararmi la testa ferita, quando ebbi un altro colpo proprio in testa. Questa è la millesima parte dei miei patimenti. Il cafone ha ragione di tutto quello che ha detto”.
Allora Lucifero, sentendo queste cose, chiamò a sé tutti i diavoli e disse loro:” Fratelli, come ha potuto constatare coi suoi occhi questo nostro fratello che viene di lassù, noi stiamo per essere sopraffatti da un altro inferno che ci fa concorrenza. Dunque, per conservare la nostra sovranità, prendete tutti gli attrezzi e andiamo a stabilirci nel Tavoliere delle Puglie”.
(Liberamente tratto da Tommaso Fiore)