La tragica, e ancora non chiarita, vicenda che ha portato alle sevizie e alla morte di Stefano Cucchi, oltre che indignare dovrebbe invitare a riflettere seriamente sul problema del consumo delle droghe. Cucchi non solo è stato vittima della bestialità umana e dell’omertà di stato, egli è uno dei tanti che ogni giorno subiscono sulla propria pelle la politica proibizionista che vige in questo paese.
Senza andare troppo indietro nel tempo già dal 2005 un gruppo di cinquecento insigni economisti americani (fra cui il premio Nobel Milton Freedman) pubblicarono una lettera aperta al presidente, al Congresso e ai governatori sulla legalizzazione della marijuana. La cosa più interessante era che l’argomentazione più forte, accanto alle solite questioni che riguardavano il traffico delle mafie e della malavita, l’uso della violenza e della rapina da parte di persone fondamentalmente pacifiche, era di carattere squisitamente economico: sostituendo alla legislazione proibizionista un sistema di controllo e tassazione dei consumi (come già avviene per altre droghe come l’alcool e il tabacco), non solo ci sarebbe un risparmio di oltre sette miliardi di dollari ma si realizzerebbe anche un introito di oltre sei miliardi. La recente legislazione in vigore in California riguardante l’uso terapeutico della mariujuana (sostenuta persino dal governatore repubblicano Shwarzenegger) sta modificando i pregiudizi di molti americani su un uso controllato di sostanze di questo genere e indirettamente sta operando un’inversione di tendenza su come far fronte al problema del consumo e del traffico illegale di stupefacenti. È recente un articolo apparso sul prestigioso Washington Post intitolato “It’s Time to Legalize Drugs”, in cui una buona parte dell’opinione progressista esce finalmente allo scoperto su un tema molto scottante e molto sentito da tutta la popolazione.
Nonostante tutto ciò la questione continua a essere osteggiata sia del mondo politico che dalla società civile. Robert Nozick, filosofo e docente all’università di Harvard, sostiene che il problema consiste nella forte valenza simbolica che è alla base delle politiche e le leggi proibizioniste: in altri termini, i divieti dello stato soddisfano e fanno salvo il simbolo di ordine e sicurezza indipendentemente dalla loro effettiva e reale efficacia. È un problema culturale, questo. E infatti se solo pensiamo alla piaga dell’alcolismo, non si riesce a comprendere come e perché il consumo dell’alcool sia ancora legale visto e considerato che un alcolista è paragonabile ad un eroinomane o a un cocainomane e che le vittime indirette di questa dipendenza siano molto superiori a quelle riferibili ad altre tossicodipendenze (basti pensare alle vittime innocenti di incidenti stradali causati dall’abuso di alcool). Evidentemente nella nostra società le droghe sono ancora un grosso tabù carico di pregiudizi e paure. Eppure mai come oggi l’opinione pubblica è stata costretta a misurarsi con problemi come quelli di una popolazione giovanile dedita al consumo abituale di droghe ed alcolici, mai come oggi le carceri pullulano di gente coinvolta nella spirale del traffico e del consumo di droga, mai come oggi i fatturati delle mafie hanno raggiunto cifre così enormi grazie al traffico di stupefacenti. Questi fatti concreti, questa tragica realtà, dovrebbero suggerire l’adozione di un comportamento estremamente pragmatico finalizzato alla risoluzione del fenomeno o, quanto meno, alla sua riduzione in termini molto più contenuti. Invece trionfa il simbolo, la questione di principio, il dogma laico, il feticcio intoccabile. Non importa se la malavita si ingrassa a dismisura, se poveri ragazzi confusi cadono in una spirale delinquenziale implacabile. Naturalmente nessuno si sogna di risolvere il problema del consumo e delle dipendenze dalla droga, ma una politica antiproibizionista sicuramente priverebbe le mafie di una buona parte di guadagni, aiuterebbe non poco a evitare l’escalation da droghe leggere a droghe molto più pericolose e letali, eviterebbe che molta gente pacifica finisse in carcere per essere trasformata in criminali, servirebbe a tenere sotto stretto controllo una situazione che al momento è solo stimata. Non è la panacea ma è certo un modo pragmatico di affrontare una questione che ora è estremamente critica.
Riuscirà la prassi a sconfiggere il simbolo? Dipenderà solo da noi se saremo capaci di spogliarci di una cultura ipocritamente rigida, fatta di simboli vuoti e di paure ingiustificate.
Senza andare troppo indietro nel tempo già dal 2005 un gruppo di cinquecento insigni economisti americani (fra cui il premio Nobel Milton Freedman) pubblicarono una lettera aperta al presidente, al Congresso e ai governatori sulla legalizzazione della marijuana. La cosa più interessante era che l’argomentazione più forte, accanto alle solite questioni che riguardavano il traffico delle mafie e della malavita, l’uso della violenza e della rapina da parte di persone fondamentalmente pacifiche, era di carattere squisitamente economico: sostituendo alla legislazione proibizionista un sistema di controllo e tassazione dei consumi (come già avviene per altre droghe come l’alcool e il tabacco), non solo ci sarebbe un risparmio di oltre sette miliardi di dollari ma si realizzerebbe anche un introito di oltre sei miliardi. La recente legislazione in vigore in California riguardante l’uso terapeutico della mariujuana (sostenuta persino dal governatore repubblicano Shwarzenegger) sta modificando i pregiudizi di molti americani su un uso controllato di sostanze di questo genere e indirettamente sta operando un’inversione di tendenza su come far fronte al problema del consumo e del traffico illegale di stupefacenti. È recente un articolo apparso sul prestigioso Washington Post intitolato “It’s Time to Legalize Drugs”, in cui una buona parte dell’opinione progressista esce finalmente allo scoperto su un tema molto scottante e molto sentito da tutta la popolazione.
Nonostante tutto ciò la questione continua a essere osteggiata sia del mondo politico che dalla società civile. Robert Nozick, filosofo e docente all’università di Harvard, sostiene che il problema consiste nella forte valenza simbolica che è alla base delle politiche e le leggi proibizioniste: in altri termini, i divieti dello stato soddisfano e fanno salvo il simbolo di ordine e sicurezza indipendentemente dalla loro effettiva e reale efficacia. È un problema culturale, questo. E infatti se solo pensiamo alla piaga dell’alcolismo, non si riesce a comprendere come e perché il consumo dell’alcool sia ancora legale visto e considerato che un alcolista è paragonabile ad un eroinomane o a un cocainomane e che le vittime indirette di questa dipendenza siano molto superiori a quelle riferibili ad altre tossicodipendenze (basti pensare alle vittime innocenti di incidenti stradali causati dall’abuso di alcool). Evidentemente nella nostra società le droghe sono ancora un grosso tabù carico di pregiudizi e paure. Eppure mai come oggi l’opinione pubblica è stata costretta a misurarsi con problemi come quelli di una popolazione giovanile dedita al consumo abituale di droghe ed alcolici, mai come oggi le carceri pullulano di gente coinvolta nella spirale del traffico e del consumo di droga, mai come oggi i fatturati delle mafie hanno raggiunto cifre così enormi grazie al traffico di stupefacenti. Questi fatti concreti, questa tragica realtà, dovrebbero suggerire l’adozione di un comportamento estremamente pragmatico finalizzato alla risoluzione del fenomeno o, quanto meno, alla sua riduzione in termini molto più contenuti. Invece trionfa il simbolo, la questione di principio, il dogma laico, il feticcio intoccabile. Non importa se la malavita si ingrassa a dismisura, se poveri ragazzi confusi cadono in una spirale delinquenziale implacabile. Naturalmente nessuno si sogna di risolvere il problema del consumo e delle dipendenze dalla droga, ma una politica antiproibizionista sicuramente priverebbe le mafie di una buona parte di guadagni, aiuterebbe non poco a evitare l’escalation da droghe leggere a droghe molto più pericolose e letali, eviterebbe che molta gente pacifica finisse in carcere per essere trasformata in criminali, servirebbe a tenere sotto stretto controllo una situazione che al momento è solo stimata. Non è la panacea ma è certo un modo pragmatico di affrontare una questione che ora è estremamente critica.
Riuscirà la prassi a sconfiggere il simbolo? Dipenderà solo da noi se saremo capaci di spogliarci di una cultura ipocritamente rigida, fatta di simboli vuoti e di paure ingiustificate.
6 commenti:
é un argomento difficile e di difficile soluzione a questo si aggiunge la mancata volontà di cercare di risolverlo ma solo la manipolazione per fini elettorali e politci intanto .....si continua
Esatto. Si continua a discutere senza avere il coraggio di affrontare i pregiudizi e le paure. Intanto le associazioni criminali ringraziano.
Nel tempo ho finito per convincermi anch'io della giustezza delle tesi antiproibizioniste.
Nel mio passato ho due amici morti per overdose di eroina: non mi pare avessero iniziato con l'erba.
Mi colpì, piuttosto, un'intervista a Muccioli padre, quand'era ancora in vita. E, da allora, la paura mi fece diventare intransigente. Adesso che mio figlio ha 17 anni non so come reagirei se gli vedessi fumare uno spinello. Di certo non peggio della sera in cui si è ritirato dopo aver bevuto con gli amici.
Ciao Saverio.
Anch'io sono del parere che l'alcool sia un pericolo molto maggiore dello spinello. E poi la legalizzazione della mariujuana eviterebbe la frequentazione di quei delinquenti che fanno gli spacciatori.
A presto.
L'alcool è più pericoloso di tutte le varie droghe giustamente messe al bando, per via dello stato di benessere apparente che dà, ma i fumi dell'alcool sono subdoli e quando ti accorgi che hai superato il limite tornare indietro è impossibile.
Sono assolutamente d'accordo. Il problema è che l'alcool è la droga attualmente più usata dalle giovani generazioni.
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