sabato 28 aprile 2007

TOTI e TATA - Il Polpo - Sigla Finale

ANCHE I CATTIVI HANNO UN'ANIMA

ROSSINI - Il Barbiere di Siviglia - R.Raimondi - La Calunnia

LA GRAZIA DELLA MALVAGITA'

MICHAEL JACKSON - Bad

IL FASCINO DEL CATTIVO

AFORISMI capitolo secondo


La pedagogia non è una scienza, è un piccolo orrifico gabinetto dove si sperimentano improbabili teorie su piccole cavie umane.

L’intelligenza e l’onestà intellettuale sono caratteristiche che vengono sempre considerate con molto sospetto perché il loro esercizio conduce sempre all’autonomia di pensiero.

La filosofia è un cannibale insaziabile che finisce col mangiare se stesso.

La libertà non è data dalle leggi, sono le leggi ad essere espressione della libertà.

L’unico atto gratuito dell’uomo è la creazione artistica.

La disobbedienza è il segno di una feroce e ineluttabile rivoluzione interiore.

La serietà è attigua all’imbecillità come l’intelligenza è attigua all’umorismo.

Egoista è chiunque si scontri col nostro egoismo.

Il fascino irresistibile del cristianesimo sta nella sua insolenza.

La libertà di pensiero è un ossimoro. La libera manifestazione del pensiero è un diritto inalienabile, nonostante capiti spesso che se ne possa fare a meno. La democrazia si compie ogni volta che ci viene rivelata una stupidaggine.

La fragilità dell’uomo consiste nella consapevolezza dell’indispensabile inutilità della cultura.

La legge è una triste necessità e contiene sempre il principio dell’arroganza e della prevaricazione.

Essere ridicolo è la condizione esclusiva dell’uomo.

Non sono due dei diversi, quello della bibbia e quello dei vangeli, quel che li separa è l’avvento del Cristo, il quale è stato uno scandalo per Dio stesso.

Un’idea brillante crea molte illusioni sulle capacità del proprio cervello. E’ un guizzo inspiegabile di cellule normalmente dedite a produrre banalità.

Fare sesso è un termine brutto e banale. Fornicare, invece, dà una dimensione millenaria al sollazzo dei sensi.

Non ci sono idee stupide, ma stupidi con le idee.

Mano a mano che il futuro di ieri diventa il passato di oggi, risulta sempre più difficile essere ottimisti sulle sorti dell’umanità. La speranza è la disperazione di domani.







venerdì 27 aprile 2007

REGGIO/GLASS - Koyaanisqatsi - Cloudscape

MADRE NATURA

KUBRICK - 2001 Space Odyssey

ALBORI DELLA CIVILTA'

CAPAREZZA - Vengo dalla Luna

DICIAMOCI TUTTO

FORTUNATAMENTE DI MAMME CE N'E' UNA SOLA





Sapete qual è il vero, autentico, granitico tabù nazionale?: la mamma. Nessuno può e deve parlarne male, nessuno può e deve minacciare il senso e il futuro di questo vero e proprio culto. E’ una sorta di autentica religione laica che mette d’accordo tutti: donne e uomini, sostenitori della sacralità della famiglia, laici, atei, omosessuali ed eterosessuali, gente perbene e delinquenti, vecchi e giovani, conformisti ed anticonformisti. L’amore materno è il paradigma di tutti gli amori, persino di quello divino. Per cui al padre insufficiente o addirittura assente si può anche perdonare, alla madre no. Il sacrificio di Isacco sarebbe stato tollerabile e compreso, no di certo se al posto di Abramo ci fosse stata la madre di Isacco, Sara.
Naturalmente questo aspetto è comprensibile, quei nove mesi in cui una nuova vita si è preparata a nascere, non sono trascorsi senza lasciare tracce profondissime. Ma il dubbio è un altro: fino a che punto l’essere “mamma” non cessa di essere un ruolo naturale e positivo, per diventare una minaccia ed ostacolo alla maturazione del nuovo individuo? Si suole dire “la mamma è sempre la mamma”, alludendo al fatto che questo status non cessa mai di esistere come una sorta di investitura divina, di potere morale di origine trascendentale.
La mamma italica è buona e generosa, il suo cibo è il migliore di tutti, la sua casa è sempre accogliente, la sua comprensione è totale, ed è l’unica a capire veramente le sfortune amorose dei propri figli. La mamma è la quintessenza della famiglia. La mamma è il motore dell’educazione e della maturazione. La mamma può anche sbagliare, ma non si discute, mai.
Io ne ho fin sopra i capelli di questo imperante sentimentalismo mammone e mammista. Chi sono queste mamme che aggrediscono gli insegnanti, sostenendo che i propri pargoli sono dei geni incompresi? Chi sono queste mamme che stanno attente a non far rumore per non svegliare il “piccolo” venticinquenne rincasato alle sei del mattino ciucco fradicio e fumato a ripetizione? Chi sono queste mamme che accolgono a braccia aperte la progenie in esilio, colpevole solo di qualche scopatina extraconiugale? Chi sono queste mamme che educano all’irresponsabilità, facendosi eroicamente carico di tutte le incombenze e i problemi familiari? Chi sono queste mamme che insegnano solo il proprio culto, perché nella vita non ci si deve fidare di nessuno? Chi sono quelle mamme disposte a tutto pur di non litigare con i figli?
Ebbene, tutte queste mamme sono la maggioranza, e sono quanto di peggio possa accadere per il progresso dell’umanità. Questo tipo di amore materno è peggio della peste bubbonica, è la causa di un’epidemia silente che produce immaturi arroganti i quali, a loro volta, diverranno genitori degni di essere rinchiusi in un manicomio criminale. Per favore, non si tiri in ballo la faccenda che esser genitori è la cosa più difficile del mondo: è molto più difficile essere figli. Dover subire decisioni che sembrano quasi sempre ingiuste e non sentirsi compresi non è un gran bel vivere.
Un’altra cosa è estremamente fastidiosa: la figura retorica della madre “eroina”, della “santa donna” che si farebbe uccidere per i figli. Francamente questa “madre coraggio” ci ha rotto le scatole, viene dipinta come l’ultimo baluardo a difesa della istituzione famigliare, basta che abbia procreato e immediatamente anche la donna più mentecatta del pianeta diventa un’intoccabile. E’ vergognoso.

“Io sono una di quelle donne che hanno avuto la fortuna di arrivare alla maternità con una certa esperienza.
Possedevo da tre anni uno Yorkshire Terrier.
A dieci mesi i miei figli erano capaci di accucciarsi al piede. A un anno sapevano afferrare un frisbee a mezz’aria con i denti. A quindici mesi, dopo aver passato settimane a strofinargli il naso nei loro bisogni e a cacciarli fuori, erano addestrati a non sporcare per terra.”
Erma Bombeck




giovedì 26 aprile 2007

mercoledì 25 aprile 2007

Dentist!

GRANDIOSO INGRESSO IN SCENA

Ettore Petrolini - Nerone bravo!

SUGGESTIONI DEL PARTITO DEMOCRATICO

Laurel and Hardy - Shine On Harvest Moon

SAPER USCIRE DI SCENA

martedì 24 aprile 2007

ETTORE PETROLINI - Tutto Ciò Che Sono

FARE "OUTING"

IL MISTERO DI ME STESSO, A ME MEDESIMO FINALMENTE SVELATO



Capita spesso di chiedersi: “ma io chi sono? Mi conosco veramente?”, soprattutto al mattino quando ci si guarda nello specchio e si intravedono in fondo agli occhi smarriti le due porzioni di parmigiana trangugiata la sera prima. “Gnoti seautòn”, conosci te stesso, era la frase scolpita sulle mura dell’oracolo di Apollo a Delfi, a monito perenne della necessità di un percorso interiore che deve sempre precedere il ricorso al trascendente. Una frase così dovrei scriverla un po’ dappertutto in casa: sulla porta del frigorifero, per riflettere sulla miseria umana durante l’incursione di mezzanotte; sullo scarico dello sciacquone, per invitarmi filosoficamente a controllare ogni giorno la salubrità dei miei cataboliti; sul cassettino all’ingresso, per verificare prima di uscire il grado di sguarnimento (ormai cronico) del mio portafogli; sul monitor del computer, per gli attacchi di narcisismo quando scrivo e lavoro. Certo è triste essere consci del fatto che si può vivere una vita intera senza neanche aver stretto la mano al proprio io…che dico la mano, senza neanche essersi incrociati una volta, davanti a uno specchio o in particolari stati di allucinazione dovuti a un mezzolitro o a un piatto di trippa alla romana. In questo senso ritengo di essere un uomo molto fortunato, sono riuscito ad instaurare con me stesso un ottimo rapporto confidenziale anche se, lo ammetto, ci ho messo un po’ di tempo prima di decidermi a darmi il mio numero di cellulare...Messe da parte le opinioni politiche (che devo confessare di aver scoperto essere opposte ed essere causa di fastidiosissimi problemi di coordinamento motorio all’interno della cabina elettorale), riusciamo a comunicare molto bene sul piano filosofico e storico, artistico e musicale (anche se non riesco a spiegarmi la sua passione per Piero Focaccia); abbiamo qualche problema nei rapporti con le donne: io amo conversare e approfondire la conoscenza del femminino, lui metterebbe subito le mani sul culo. Anche in fatto di alimentazione siamo molto diversi, io preferisco la cucina vegetariana, lui venderebbe sua madre per un ragù ortodosso o per il baccalà alla veneziana.
Ma alla fin fine, sono riuscito a conoscere il mistero di me stesso? Devo dire che non è stato facile, anzi, è stata dura convincere me stesso a smetterla di ingozzarsi di patatine fritte e parlare seriamente. Ma alla fine ci sono riuscito. E’ stato molto commovente, non immaginavo di essere una persona così sensibile e delicata, avrei voluto farmi delle domande importanti, ma me stesso era veramente esausto e mi ha chiesto una pausa, una birra grande e un sandwich al gorgonzola.
Ho scoperto di avere tanto amore da dare, anche a più donne contemporaneamente; di avere ancora tanta sete di conoscenza, ci sono circa una cinquantina di vini che devo assolutamente conoscere; di avere qualche desiderio da realizzare, come imparare a fare il babà; di dover controllare determinati impulsi, come l’istinto omicida alla vista di Maurizio Costanzo; di arrotondare alcuni spigoli del carattere, come la facile irritabilità in presenza di cretini in fase conclamata. Ma la cosa più importante, quella a cui ci tengo particolarmente, è trovare una spiegazione definitiva alle mie contraddizioni: credo di aver finalmente capito che io, nonostante il mezzo secolo d’età, non ho ancora deciso chi essere, ovvero mi barcameno miseramente tra il romanticismo estatico e il razionalismo blasè. Come dire fra un bignè alla crema e un biscotto digestive. Questo stato ondivago è causa di incomprensioni ed equivoci oltre a crearmi una sorta di senso di colpa verso tutti coloro (quasi la maggioranza) che non conoscendomi abbastanza hanno qualche perplessità sulla mia salute mentale. Ho pensato a diverse soluzioni: maglietta T-shirt con scritta “state parlando solo con una parte di me, il resto arriverà più tardi, in pullman”; fingere di avere un fratello gemello al quale appioppare tutte le stranezze; diventare molto amico di uno psicoterapeuta.
Ma è proprio questa la mia maggiore urgenza? Quanto me stesso è più importante di un piatto di spaghetti con le vongole? Mi ripeto che conoscere se stessi è fondamentale mentre i gusci vuoti delle vongole mi fissano con abissale disgusto.

lunedì 23 aprile 2007

A. PIVA - LaCapagira

BARI DOPO IL TRAMONTO

F.W. MURNAU - Nosferatu il Vampiro 1922

IL TRAMONTO E'L'ALBA DEL MALE

BILLY WILDER - Sunset Boulevard - 1950

TRAMONTO METAFORICO

IL COMMIATO DEL GIORNO


Eutanasia di luce e di colori è il tramonto.
Promessa mai violata di nuova luce,
promessa mai violata di nuova morte.
Guardare la colorata e serena agonia,
riconoscere il rintocco del proprio vespro,
sentire l’odore del giorno che muore,
lasciare che gli ultimi suoni rimbalzino su se stessi,
pensarsi pensanti davanti al vuoto che sorge.
Il commiato del giorno,
lamento di luce,
urla cromatiche,
ultimo respiro delle nuvole.
Fra poco la notte,
foriera di baci o di pianto.


MADREDEUS - Haja o Que Houver

CREPUSCOLO INTERIORE

sabato 21 aprile 2007

ASSASSINI NATI


Quando si incomincia a pensare come un assassino? Quando incominciamo a pensare che la morte di una certa persona ci porterebbe dei grandi e unici vantaggi; quando cioè la morte di un essere umano rappresenta per noi una grandissima opportunità materiale e/o spirituale che siamo disposti a cogliere senza alcun tipo di scrupolo. E’ molto difficile credere che ci sia un essere umano che non abbia mai, neanche una volta, provato sentimenti del genere e non abbia mai pensato da assassino.
Non dimentichiamo che siamo l’unica specie vivente che uccide non a scopo alimentare. Non dimentichiamo che nei dieci comandamenti, “non uccidere” è al quinto posto preceduto da “onora il padre e la madre”; non dimentichiamo che si può uccidere legalmente per difendersi, per eseguire una sentenza, per fare la guerra. L’assassinio è alla base della civiltà (Caino uccide Abele) e la tortura, il martirio e la morte violenta sono alla base della religione cristiana. L’assassinio è tuttora uno dei mezzi più praticati di conquista del potere politico. Non dimentichiamo che ogni giorno noi abitanti dell’occidente del mondo assassiniamo indirettamente migliaia di abitanti del terzo mondo: le nostre bistecche quotidiane condannano all’inedia uomini, donne, bambini innocenti. Se siamo consci di tutto ciò, non dobbiamo scandalizzarci se il nostro pensiero indugia sull’idea di dare la morte ad un nostro nemico o avversario o, più semplicemente, ad un ostacolo che ci impedisce di raggiungere quella che per noi è sicura felicità. Noi esseri umani siamo assassini nati.
Perché uccidere non solo consente di raggiungere subito un determinato scopo, ma rappresenta anche un momento di totale onnipotenza, di infinito piacere di dominio su tutto: l’assassinio è la più grande bestemmia contro Dio e contro la natura. E la bestemmia è una creazione dell’uomo.
Da un punto di vista morale, desiderare ardentemente la morte di qualcuno e pensare a lungo e dettagliatamente al suo omicidio non è molto distante dal metterlo in atto. Se non uccidiamo è perché abbiamo terrore delle conseguenze legali, non certo di ipotetici sensi di colpa. Quando si odia mortalmente, la colpa non esiste. Infatti, anche in letteratura, quello che sconvolge la mente e il cuore di Macbeth e sua moglie è l’empietà dell’assassinio lucido, privo di odio, dettato solo da un freddo calcolo politico. Invece la fredda, atroce vendetta di Montresor (E.A.Poe: “La botte di Amontillado”) che mura vivo Fortunato è la logica conseguenza di un odio mortale senza limiti e senza pentimenti.
Anche l’amore, anzi, l’amore più di altri sentimenti, può trasformarsi in odio profondo e dare vita ad una guerra senza quartiere e senza regole. La voglia di uccidere, il desiderio di annientare è così forte da fare terra bruciata tutt’intorno, i figli diventano oggetto di scambio e di ricatto, strumenti per esercitare violenza. Così anche i figli impareranno subito a gestire un gran bel genuino odio assassino verso i genitori. Magari daranno sfogo a questi sentimenti organizzando una bella ripresa video dello stupro di gruppo di una compagna di scuola.
La violenza, la crudeltà, la vendetta atroce, l’odio mortale, non devono meravigliarci. Sono i sentimenti tipici dell’uomo. Non è l’amore la peculiarità dell’essere umano: in natura ci sono cetacei, uccelli e primati che potrebbero darci lezioni d’amore. La peculiarità dell’essere umano è la sua infinita capacità di odio e la sua lucida, unica capacità di organizzarlo fino all’assassinio.
Siamo assassini nati.




EDGAR ALLAN POE - Il Rumore del Cuore

ASSASSINO CONFESSO

QUENTIN TARANTINO - Kill Bill vol.2

VENDETTE ASSASSINE

STANLEY KUBRICK - The Shining

FANTASMI ASSASSINI

venerdì 20 aprile 2007

COME UNA NUVOLA




Come una nuvola, lontana
attraversi il cielo del mio giardino.
Oscurando il sole muti i colori,
rinfrescando l’aria plachi l’arsura,
passando maestosa riveli la bellezza impalpabile
delle tue volute ed il mistero del tuo ventre.
Guardo rapito e la tristezza m’assale.
Inadatto a vivere, impreparato a comprendere,
genufletto l’anima, rinuncio all’arena quotidiana.
Ma nell'aria sospesa e silente riprende la vita,
una farfalla volteggia, a sancire
la crudele bellezza del creato.

LITTLE TONY - Cuore matto

CARDIOPATICO IN LOVE

CARMELO BENE - La verità non esiste

LA REALTA' NON SI PUO' DIRE

giovedì 19 aprile 2007

PAOLO CONTE - Vieni via con me

UNA TENTAZIONE IRRESISTIBILE

KATE BUSH - Wuthering Heights

LE CIME DEI NOSTRI PENSIERI

DUBITO, ERGO...ZUM !



E’ difficile credere in Dio se il tuo vicino di casa ascolta a tutto volume Gigi D’Alessio. Così come risulta praticamente impossibile intraprendere una riflessione metafisica se tutto il quartiere è avvolto da odore di calzone alla barese. Per non parlare dei tramonti sul mare, di quegli spettacoli della natura che da sempre hanno generato nell’uomo, al cospetto di cotanta bellezza, quel profondo sentimento di malinconica insignificanza: come si può meditare fra bottiglie di birra, puzzolenti gusci di cozze e cartoni di pizza d’asporto? Non ci è più concesso neanche lo sguardo che vaga lontano, che se vaga troppo lontano, i nostri passi, sfuggiti a ogni controllo, finiscono col calpestare polimorfi cataboliti canini deposti sui marciapiedi secondo un disegno pari al più astuto e micidiale piano di minamento antiuomo. Come si può coltivare l’interesse per la religione quando il vostro commercialista vi ha appena comunicato che pagherete più tasse? E’ possibile trovare il tempo per la meditazione trascendentale quando vi arrivano sms di questo genere?: “nn posso venire, kiama dopo, tvb.” Insomma, la vita odierna sembra regolata da una cospirazione antimetafisica dove i nuovi luoghi sacri sono gli ipermercati e la televisione è l’oracolo delle nuove divinità entrate nell’olimpo contemporaneo: telefonini, lassativi, automobili, ecc. Al giorno d’oggi gli interrogativi sul senso della vita che siamo portati a farci sono: “e se morissi ora…ho le mutande pulite?” oppure “dopo tutto quello che ho speso per la lampada non posso ammalarmi proprio adesso…”. Si è portati a rispondere a domande tipo “è meglio avere o essere?” solo dopo aver verificato il proprio tasso di colesterolo. O si è disposti a parlare dei valori in cui credere solo davanti a un antipasto di frutti di mare. Tutto questo non è anche colpa dei dentisti che ci fanno credere che non avere la piorrea è una prova dell’esistenza di Dio? Nonostante tutto non dobbiamo arrenderci, effettivamente è molto difficile conservare intatta la propria spiritualità di fronte a una pizza con salame calabrese o dopo aver passato dieci minuti con il proprio assicuratore, si tratta di esperienze laceranti, che segnano profondamente. Ma c’è di peggio, vi sono situazioni veramente estreme in cui anche la fede più radicata potrebbe vacillare: tre minuti con un Testimone di Geova, un hot dog alla Fiera del Levante di Bari, un bicchiere di Bayles con ghiaccio.
E l’amore? E’ anch’esso ostaggio dell’odierna volgarità, o può ancora lanciarci in stupende riflessioni filosofico-affettive? Difficile crederlo quando si scopre che la propria donna chatta da tempo con il nick “ziaporcona” e ha piazzato la webcam sotto la scrivania. Ma ci dev’essere da qualche parte l’anima gemella che ci aspetta, sperando che nell’attesa non abbia incontrato un’anima cugina e non si sia accontentata. In fondo l’amore per l’altro non è che il pallido riflesso dell’amore ultraterreno, un piccolo anticipo su un capitale futuro. Quello che preoccupa sono le rate del mutuo: ricordarsi degli anniversari, subire decine di telefonate al giorno, ripetere continuamente che ami senza farsi venire il dubbio, non cedere mai alla tentazione di girare per casa in mutande e pantofole, dimostrare comprensione anche il giorno del derby, non confessare mai (neanche sotto tortura) che non furono i suoi occhi a conquistarti ma il suo culo.
In tutta questa complicatissima realtà è facile smarrire se stessi, è normale essere assaliti da dubbi e paure ancestrali (chi siamo? Dove andiamo? Quando scade il mio bancomat?), ma dobbiamo sforzarci di essere consapevoli del nostro piccolo ma indispensabile ruolo nell’orchestra della vita, silenzio….un, due, tre: zum papa, zum papa, zum!

martedì 17 aprile 2007

DEMETRIO STRATOS interpreta Antonin Artaud

AFORISMI DISARTICOLATI

PACO DE LUCIA - rumba

LE CORDE DELL'ANIMA

AFORISMI


L’amore consuma, la solitudine annienta.

L’amore è intravedere nell’altro l’ombra di un supremo, ignoto disegno.

La creazione artistica è un atto misterioso che ci illude di essere simili a Dio.

L’umorismo è l’uscita d’emergenza di un edificio tetro e pericolante quale è la vita quotidiana.

Vivere il sogno e sognare la vita sono due aspetti della medesima assurda avventura umana di cui ci è sconosciuto sia l’inizio che la fine.

La saggezza è un atto di fede nell’incapacità di comprendere e nella necessità di conoscere.

Ridere è una pratica religiosa perché scaturisce dall’osservazione dell’incompletezza umana

La somma barbarie è la mistificazione della storia.

Il successo di un’idea è direttamente proporzionale alla quantità di eresie che provoca.

Solo per l’amante l’anima ha un corpo.

L’apice dello sfruttamento umano è raggiunto quando si arriva a mercificare l’anima:il consumismo è lo sfruttamento più atroce e completo dell’uomo sull’uomo.

L’arte si offre a tutti, ma non concede interviste.

L’economia non è il senso della vita, ci concede di cercarlo.

La scienza non è un valore ma una pratica. Così come la filosofia è l’esercizio dialettico del dubbio.

L’antitesi della fede è il dubbio, poiché l’ateismo è anch’esso un atto di fede.

Il vero bestemmiatore è sempre timorato di Dio.

La grande critica d’arte è sempre il risultato di una violenza perpetrata su se stessi.

L’unica seria ambizione dell’essere umano è la trascendenza.

Conoscendo l’indole umana, si rimane sempre piuttosto meravigliati di fronte agli splendori delle civiltà.

La sana consapevolezza del pregiudizio è l’unica difesa dai falsi pregiudizi.

L’arte non esiste senza l’artigianato. L’artigianato dell’arte concettuale è un’intuizione estetica.

La giustizia è un arbitrio necessario della maggioranza sulla minoranza. Il giudice non deve mai dimenticare di essere un indispensabile aguzzino.

lunedì 16 aprile 2007

DANIELE SILVESTRI - Salirò

RISCATTO POSTMODERNO

LUIGI ZAMPA - Anni Ruggenti -1962 .

CAFONI DISPERATI

IL CAFONE ALL' INFERNO


Una volta morì un cafone, e mentre l’anima viaggiava in cielo, pensò fra sé: “Io credo che, non appena arrivo in paradiso, un posticino per me ci sarà, per riposarmi, perché, secondo mi è stato sempre detto dai preti, chi soffre sulla terra gode in cielo. Non c’è da metterlo in dubbio, ho lavorato per cinquant’anni nelle masserie.” Come arrivò, bussò alla porta del paradiso. San Pietro, da valente guardiano, aprì il finestrino, cacciò il capo fuori e disse: - Chi siete? – Sono un cafone, avvertite l’Eterno Padre -. San Pietro chiuse il finestrino e andò ad avvisare il padrone. Il Padre Eterno disse: - Lo so chi è arrivato, ma avvertitelo che non può entrare -. San Pietro salutò rispettosamente e col suo solito mazzo di chiavi andò a riferire la risposta. Aprì il finestrino e disse: - L’Eterno Padre non vi vuole accettare – e chiuse il finestrino. Il poveretto, avuta la risposta negativa, se ne andò borbottando verso il purgatorio. Per via diceva fra sé: “Quando io non ho meritato il paradiso con tutta la mia miseria e pazienza e lavorare giorno e notte come una bestia, chi lo deve meritare?” Arrivato al purgatorio, picchiò più volte, spinse la porta, ma nessuno rispose, finchè stanco di aspettare, se ne andò via. Ma mentre moveva i primi passi, disse fra sé: “Scommetto che qui c’è una canaglia peggiore della prima! Quelli almeno mi hanno risposto di no!” E se ne andò verso l’inferno. Come arrivò laggiù, bussò alla porta che in un batter d’occhio si spalancò e Belzebù, che funzionava da guardiano, gridò più volte: - Avanti! Avanti, fratello -. Egli entrò tutto risoluto e diceva fra sé: “I preti sulla terra dicono sempre bugie, m’hanno sempre detto che l’inferno è tanto terribile che non si è mai potuto descriverlo. Io ritengo che sono più gentili all’inferno che nel paradiso e nel purgatorio. Quelle parole “Avanti! Avanti fratello” mi hanno commosso”. Entrato nell’inferno, Belzebù lo invitò a sedersi, egli si sedette e diede un’occhiata all’ambiente e disse: “ Ah! Finalmente sono arrivato a un luogo dive si gode”. I diavoli che stavano intorno si guardarono in faccia meravigliati, diedero un’occhiata a Belzebù e si allontanarono dicendo fra loro:”E’ possibile che ci sia un luogo peggiore di questo? Un inferno che ci fa concorrenza? Andiamo a farlo sapere a Lucifero”. Andarono e gli raccontarono il fatto. Anche Satana a sentirlo si meravigliò e disse: “Andatemi a chiamare il portinaio, Belzebù”. In un batter d’occhio si presentarono alla porta e gli dissero: “Vi vuole il capo”. Poi si rivolsero al cafone: “Signore, permettete due minuti…” Il cafone osservò: “ Signori, dimenticate di chiudere la porta! “ Ma essi risposero: “ Non fa niente”. Allora il cafone, rimasto solo, pensava fra se stesso: “Accidenti che differenza passa fra il paradiso, il purgatorio e l’inferno! Al paradiso tengono le porte serrate con un quintale di chiavi di ferro, come un reclusorio, che per aprire un finestrino ci è voluto del tempo. Al purgatorio scommetto che aprono una volta l’anno, tanto è vero che non hanno portinaio….Immagino quella volta che aprono quanto tempo ci vuole! Mentre qui non si curano affatto della porta. Che brava gente!”. In questo momento ritorna Belzebù e lo invita ad andare con lui dal capo. In un minuto secondo si trovarono in presenza di Satana. Satana lo guardò da capo a piedi e poi disse: “ Vi piace questo luogo?” “Moltissimo, signore. Se sapevo che era così comodo sarei venuto più presto”. “Di dove sei?”, “Della Puglia, signore. Di nascita sono di un paese a confine con la Basilicata,ma come vita l’ho passata a lavorare nelle masserie del Tavoliere”. “E dove si trova il paese che hai tanto disprezzato?” “Nel Tavoliere delle Puglie, signore. Io sono analfabeta, non capisco né geografia né punti cardinali”. “Tu, Belzebù, va con costui a vedere questo Tavoliere”. “Signore, comandatemi dove volete; ma lì non ci voglio più ritornare”. Rivolto a Belzebù disse: “ portatelo a dormire. Buona notte e buon riposo a tutti”. Quando il cafone restò solo, pensava fra se stesso: “Chi mai poteva credere che all’inferno avrei avuto tanti trattamenti come un lord, solo col misero guadagno di lasciare andare l’anima mia per pochi minuti a consumarsi nella fornace ardente? In terra invece i signori agricoltori per cinquant’anni se ne sono serviti, del mio corpo, senza esser mai contenti del lavoro che ho fatto e senza dire nemmeno una volta grazie, del lavoro straordinario che facevo e che non mi spettava”. Così si addormentò. Satana disse ad un diavolo: “Vestiti da contadino e va nel Tavoliere a cercar lavoro in una masseria, per vedere se è vero tutto ciò che ha detto il cafone”. Detto fatto, vestito da contadino va a cercar lavoro. Dopo due giorni appena di lavoro, senza nemmeno chiedere il suo conto, torna all’inferno tutto abbattuto, con la testa rotta insanguinata, le ali mezzo sconquassate e spennate, il viso, le mani e i piedi scottati, faceva pietà. Come Satana lo vide in quelle condizioni, domandò il perché. Il diavolo gli narrò tutto: “Come mi avete ordinato ho fatto, sono andato a una masseria, ho chiesto lavoro e non mi è stato negato. La mattina, insieme con gli altri, ci siamo alzati due ore dopo mezzanotte. In pochi minuti abbiamo mangiato pane nero senza sale, cotto nell’acqua con un po’ di olio e sale. Mentre stavo mangiando, due lavoratori si sono messi a litigare a chi per primo doveva occupare il buco della fornace dove cucinare. Dalle chiacchiere passarono ai fatti, uno di essi per sbaglio, invece di colpire l’avversario, con una lunga mazza di ferro arroventato colpisce me alla testa. Alle tre e mezzo siamo andati a lavorare, con la pioggia e col freddo, abbiamo lavorato tutta la giornata. Solo mezz’ora di riposo a mezzogiorno, quando abbiamo cambiato i buoi e mangiato un pezzo di pane. Finalmente la sera, due ore dopo il tramonto, si è sospeso il lavoro. Tornati alla masseria, anzitutto abbiamo messo a posto gli animali e dopo ognuno, chi ne aveva bisogno, si è recato a prendere il pane dal distributore, ma anche lì per averlo si sostengono vere battaglie, col risultato di molti feriti. La prima sera non ci capivo niente, mi trovai non so come nella zuffa, mi sconquassarono le ali e il pane non lo potetti avere. La seconda sera per fortuna ebbi il pane, mi recai in cucina per vedere il sistema di cucinare ma non ho fatto a tempo. Mentre stavo per entrare si accese una zuffa; senza capire da dove venne, mi vedo addosso una caldaia di acqua bollente e mi scottarono mani, piedi e viso. Stavo per pararmi la testa ferita, quando ebbi un altro colpo proprio in testa. Questa è la millesima parte dei miei patimenti. Il cafone ha ragione di tutto quello che ha detto”.
Allora Lucifero, sentendo queste cose, chiamò a sé tutti i diavoli e disse loro:” Fratelli, come ha potuto constatare coi suoi occhi questo nostro fratello che viene di lassù, noi stiamo per essere sopraffatti da un altro inferno che ci fa concorrenza. Dunque, per conservare la nostra sovranità, prendete tutti gli attrezzi e andiamo a stabilirci nel Tavoliere delle Puglie”.
(Liberamente tratto da Tommaso Fiore)

domenica 15 aprile 2007

sabato 14 aprile 2007

ELIO PETRI - Sbatti il mostro in prima pagina

CONVERSAZIONE IN FAMIGLIA

MARIA CALLAS - Pasolini Medea

LA DONNA

KATE BUSH - Babooshka

DIFFIDENZA FEMMINILE

LA STIRPE DI CAINO



Avete mai sentito una donna, che non fosse in camicia di forza o con la canna di una pistola alla tempia, parlar bene del genere maschile? Naturalmente speculare, è il comportamento degli uomini nei confronti del genere femminile. Avete mai riflettuto sul fatto che i due sessi impiegano buona parte della loro esistenza a discutere, a litigare e a farsi del male? Vi è successo qualche volta di pensare che questo atavico, stupido antagonismo non avrà mai fine? Naturalmente queste riflessioni non investono la dimensione del diritto, ovvero dell’uguaglianza dei due sessi non solo di fronte alla legge ma anche di fronte alla società e alla sua mutevole morale. Il problema non può essere in modo riduttivo condotto nell’alveo, pur sacrosanto, dei diritti e dei doveri, della discriminazione sessuale e del maschilismo più o meno strisciante. I due generi non sono antagonisti per questo, anzi, oserei dire che la discriminazione esiste proprio perché conseguenza di una guerra mai dichiarata che perdura dagli albori della civiltà. L’uomo e la donna hanno una visione del mondo e dei rapporti umani assolutamente opposta. E’ un’opposizione talmente totale che molto raramente può diventare complementare ai fini della costruzione di un rapporto di vita comune, molto più frequentemente accade che per scopi riproduttivi e di generica mutua assistenza, fra l’uomo e la donna si stringa un patto di alleanza, un impegno di reciproca sopportazione e una promessa (raramente mantenuta) di non belligeranza. Madre Natura, che quando fa le cose non sbaglia mai (tranne quello stupido incidente della creazione delle zanzare), per ovvi motivi di sopravvivenza della specie ha dotato il genere femminile (non solo negli umani, ma in tutte le specie che si riproducono sessualmente) di un bagaglio biologico e genetico infinitamente più ricco e potente di quello del genere maschile. Tanto per fare degli esempi basti pensare a cose come la longevità, la fine acutezza psicologica, l’istinto materno, la grande determinazione. Il maschio è più forte fisicamente e viene dotato di una carica di generica ottusa aggressività da impiegare per difendere, per conquistare e per cacciare, ed è singolare, quando non grottesco, che egli impieghi queste doti indifferentemente se deve difendersi da un’aggressione, se deve giocare a calcetto, se deve cacciare per sfamarsi o se deve fare la fila al supermercato. E qui arriviamo al fondo della questione, scoprendo che alla base dei rapporti fra uomo e donna c’è una naturale, biologica, incompatibilità che viene di molto aggravata ed esasperata dalla componente culturale, dall’unica cosa che rende l’umano diverso dagli altri viventi: il linguaggio, la comunicazione concettuale, il poter parlare di se stessi, il poter esprimere idee e sentimenti. Il linguaggio trasforma questa sostanziale incomunicabilità in una continua, ridondante comunicazione di impossibile reciproca comprensione: non facciamo altro che dirci che non ci capiamo e non ci capiremo mai, ci comunichiamo all’infinito l’impossibilità di comunicare. Per questo l’amore è e resterà sempre un mistero, è impossibile spiegarsi il perché di una tale irresistibile attrazione fisica e mentale che riesce a superare (anche se solo per un tempo limitato) questo muro di granito che divide i due sessi.
L’amore fa credere che l’altro sia indispensabile (difetti compresi), che l’altro sia fonte inesauribile di gioia e sicurezza, che la vita sia una cosa meravigliosa. Perché? Forse il motivo consiste nel fatto che se non ci fosse una spinta così forte sarebbe molto difficile decidere di stringere quel famoso patto di alleanza di cui sopra ed accettarne tutte le conseguenze; solo un sentimento così forte e misterioso può vincere la naturale reciproca diffidenza e il legittimo timore di un ignoto, sinistro futuro. Il destino dell’uomo e della donna è stato scritto migliaia di anni fa quando il prototipo di uomo, narcisista e fessacchiotto, fece combutta col prototipo di donna, curiosa e coraggiosa, e finirono con l’essere cacciati a calci nel sedere dal paradiso terrestre. Ma non finisce qui. Le scritture ci dicono incontestabilmente che siamo votati allo scontro, alla ybris, all’invidia sacrilega, alla sopraffazione e all’empietà; l’umanità deriva da un pazzo assassino: noi siamo la stirpe di Caino.

giovedì 12 aprile 2007

EDUARDO DE FILIPPO - Natale in Casa Cupiello

SONNI ATAVICI

RISVEGLI

La luce filtrava attraverso le fessure della tapparella andandosi a conficcare proprio fra le palpebre. Cieco e intorpidito dal sonno primaverile mi rifiutavo di accettare il nuovo giorno. Ma un peso mi gravava sul petto, un senso di calore e di oppressione che ostacolava il mio respiro. Dischiudendo gli occhi fui penetrato dallo sguardo della gatta che si era accucciata sullo sterno facendo delle fusa assolutamente esagerate. Era ora, se avessi indugiato ancora un po’ avrei cominciato a sentire le punte dei suoi artigli affacciarsi piano piano sulla pelle, meglio alzarsi. Svegliarsi al mattino è come un po’ rinascere ogni volta, passare dalla quiete rassicurante del sonno all’azione e alla preoccupazione della veglia: per qualche istante si ritorna neonati e si vorrebbe urlare e piangere per il dispiacere dell’incantesimo che finisce all’improvviso. Occhi prominenti, viso gonfio, bocca impastata, andatura da condannato a morte, lentamente si guadagna la cucina per preparare l’elisir che ci farà tornare esseri umani. Ma quella dannata mattina feci una scoperta terrificante: il caffè era finito. Mi assalì un senso di smarrimento e di disperazione, non sapevo se piangere o bestemmiare, tornai a controllare…niente, era finito. A quel punto avevo davanti a me due opzioni, erano nascoste in fondo al pensile, abbandonate lì da tempo immemorabile: una scatoletta di tè in bustine e un barattolino di caffè solubile. Riflettevo, e mentre riflettevo il mio corpo reclamava prepotentemente la sua dose consueta di caffeina: ero già in crisi di astinenza? In pochissimi minuti scaldai l’acqua e preparai il caffè solubile: mentre giravo il cucchiaino nella tazza saliva nelle narici un odore singolare, era come se stessi sciogliendo un pocket coffee in un brodo di liquirizia, una vera schifezza. Ma le mie cellule invocavano quel fottuto alcaloide ed io trangugiai quel liquido nerastro come fosse olio di ricino. La fase uno era terminata, per completare il mio rientro coatto nel mondo sensibile dovevo passare alla fase due. Entrai in bagno, prima di dedicarmi alle abluzioni dovevo procedere all’evacuazione e quindi con una bella rivista in mano mi accinsi a lasciare al mondo la consueta parte di me. Quest’operazione è assolutamente fondamentale, non solo per ovvie ragioni fisiologiche ma anche per operare quello “svuotamento” mentale e spirituale indispensabile per affrontare al meglio la nuova giornata. Ero nel bel mezzo di una delicatissima operazione di “trasferimento” quando squillò il telefono. Naturalmente non avrei mai risposto ma quello squillo ripetuto creava un’angoscia indicibile, bloccando le mie delicate operazioni. Dovetti leggere un articolo intero dedicato a Riccardo Scamarcio per poter assolvere con successo alla missione. Non mi restava che una bella doccia tonificante e la giornata sarebbe stata tutta mia. Fu in cabina doccia che feci la seconda terrificante scoperta: il bagnoschiuma era finito. Disperato, nudo come un verme, bagnato e rincitrullito, aprivo tutti gli armadietti alla ricerca di qualcosa che facesse schiuma. Come al solito in fondo, fece capolino una bottiglia di plastica azzurra, ebbi un istante di raccapriccio: un bagnoschiuma Avon!! L’ultima volta che lo avevo usato era stato come lubrificante per favorire l’infilaggio di un cavo elettrico aggiuntivo nell’impianto domestico. Non potevo indugiare oltre e mi infilai sotto la doccia. Avete mai usato un bagnoschiuma profumo “bubble gum”? Cioè gomma da masticare? Non lo fate, per tutto il giorno, e anche il giorno appresso, emanereste un tanfo orrendo. Ero sveglio ora. Seduto alla scrivania con una bella tazza di caffè solubile accanto provavo l’ebbrezza aromatica della gomma da masticare mista al caffè-liquirizia, le mie orecchie si beavano della musica napoletana del pazzoide dirimpettaio alternata al richiamo megafonico di un venditore ambulante che gridava “scarcioffiiii”, i miei occhi fissi sul monitor si chiedevano il perché di tante emails di venditori per corrispondenza di viagra. Ma dove mi trovo? Che ci faccio qui??
Il suono della sveglia mi fece saltare dal letto…avevo sognato! Mi ero appena messo in piedi quando udii dalla strada “scarcioffiiii”, il sangue mi si gelò, andai in cucina e cominciai a preparare il caffè solubile.

mercoledì 11 aprile 2007

LA GATTA CENERENTOLA - Scena delle ingiurie

LE VETTE DELLA CIVILTA'
capitolo terzo

LINA WERTMULLER - Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto

LE VETTE DELLA CIVILTA'
capitolo secondo

VITTORIO DE SICA - L'oro di Napoli - 'o pernacchio

LE VETTE DELLA CIVILTA'
capitolo primo

PARI SIAMO ! IO LA LINGUA, EGLI HA IL PUGNALE


Sono pochi coloro che si rendono conto della grande civiltà contenuta in un insulto. E’ stato Sigmund Freud ad affermare che la civiltà è nata quando per la prima volta l’uomo ha usato la parola al posto della clava. L’insulto potrebbe addirittura essere usato come mezzo di studio del livello di civiltà raggiunto da una comunità in un determinato momento storico. L’insulto contiene, attraverso le parole e i gesti del corpo, tutta la storia e la cultura di un popolo e rappresenta un grande serbatoio di creatività applicata alla psicologia e al comportamento. L’insulto non è puro e semplice turpiloquio, piuttosto è complessa arte simbolica d’evocazione di concetti e di immagini anche piuttosto articolati attraverso l’esercizio della parola. L’insulto è sublimazione della violenza e dell’aggressività, attraverso il suo esercizio si colpisce senza pietà evitando spargimenti di sangue, lutti e faide familiari. L’insulto è democratico, tutti possono praticarlo senza distinzioni di sesso, di ceto, di età, di condizione fisica, intellettuale e culturale. L’insulto costituisce un inesauribile catalogo semantico di eufemismi, onomatopee, allitterazioni e figure retoriche; attraverso l’insulto anche il più ignorante fra gli ignoranti o il più idiota fra gli idioti può trovare il proprio momento di ispirata declamazione poetica ed avere un pubblico che lo applaude. L’insulto non è sola parola: è tono di voce, è gesto, è espressione del viso; è un ordigno micidiale di puro sentimento ostile, è un’arma letale. Se volessimo scegliere un insulto fra i tanti, a simbolo della sua immensa forza distruttrice da una parte e liberatoria dall’altra, non potremmo che scegliere la quintessenza dell’ingiuria, un concentrato potentissimo di disprezzo, l’offesa trascendentale in cui la parola cessa di esistere perché insufficiente e si trasforma in puro suono assassino: la pernacchia (o pernacchio).
L’arte dell’insulto nasce nel momento in cui unendo psicologia e creatività si riesce a forgiare l’ingiuria ad personam, si riesce cioè, pur attingendo allo sterminato repertorio esistente, a “costruire” un insulto su misura, personalizzato, che va a colpire mortalmente le debolezze e le contraddizioni dell’avversario. Non è cosa da tutti, essa richiede consapevolezza delle potenzialità del mezzo e perfetta conoscenza e padronanza di tutto il repertorio. Saper insultare con successo può essere paragonato al saper tirare di scherma, o alla famosa disciplina zen del tiro con l’arco.
Non c’è da fidarsi molto di coloro che non ricorrono mai all’uso dell’ingiuria, potrebbero rivelarsi persone che preferiscono la violenza fisica a quella verbale o potrebbero essere persone talmente beate ed in pace col mondo da risultare folli, affette da quel genere di follia che rasenta la santità ma che impedisce di condurre una vita normale. Anche il bestemmiatore abituale è da evitare, per lui la stessa vita è un insulto e quindi non è in grado di discernere tra la realtà che va pazientemente sopportata e quella contro la quale bisogna insorgere e reagire. Poi ci sono gli educati, i perbenisti, quelli che non perdono mai la bussola e che spesso si confortano con ansiolitici e consulenze psicoterapeutiche. A costoro vogliamo ricordare che dicendo caspita, corbezzoli, cribbio, osteria, porcogiuda, ed altro, non fanno altro che usare eufemismi per significati ben poco edificanti e comunque tutti riconducibili alla pratica del turpiloquio. Allora forse è meglio dirla qualche volta una gran bella parolaccia, così come togliersi la soddisfazione di “colpire” culturalmente una persona che ci sta tanto antipatica e che non vorremmo più vederci intorno.
Una pratica consapevole ed equilibrata dell’insulto è sicuramente una cosa positiva: ripristina le giuste distanze sociali e personali ed è altamente liberatoria. E poi a volte accade che dopo essersi reciprocamente mandati affanculo si scopre di amarsi disperatamente.


martedì 10 aprile 2007

APHRODITE'S CHILD - It's Five O Clock

IMPEGNI IMPROROGABILI CON SE STESSI

LOUIS MALLE - Ascenseur pour L'Echafaud

MALEDETTI ASCENSORI

LASSU' QUALCUNO MI AMA


L’ascensore saliva speditamente verso gli ultimi piani del palazzone, la cabina era tutta foderata d’acciaio con un grande specchio posto di fronte alle porte automatiche. Galleggiava nell’aria un odore di detersivo industriale misto a linoleum, i tubi al neon illividivano i colori, la mia faccia nello specchio aveva la tonalità carneo-giallina di un mongolo siberiano in vacanza in città. Di fronte a me un signore in giacca e cravatta, cartella in similpelle nera, testa grossa, stempiato con un evidente inizio di “coltivazione capillifera” a scopo di riporto per cercare di coprire la calvizie. Emanava un odore di deodorante balsamico che unito all’odore ambientale generava una sorta di olezzo indefinibile, anzi improbabile, direi quasi impossibile; era come se quegli odori si rifiutassero di fondersi e fossero costretti dalla circostanza a convivere fianco a fianco: ecco, io mi trovavo sulla linea di confine, con una narice sentivo il tanfo dell’ascensore e con l’altra il deodorante balsamico, era pura schizofrenia olfattiva. Mentre mi consolavo pensando che comunque ero fortunato: e se quell’uomo fosse stato affetto da meteorismo incontrollabile? Accadde l’incidente. L’ascensore si bloccò di colpo, fu buio per un paio di secondi, poi si accese un fioco neon che doveva essere la luce d’emergenza, io imprecai ad alta voce e lui di rimando “sì, accidenti!!!”. Fui investito violentemente da quelle due parole, non per il carico d’ansia di cui erano espressione ma per il grande carico d’aglio di cui erano portatrici, per un istante quel testone con riportino incipiente mi sembrò un’enorme testa d’aglio da incubo notturno post pesto alla genovese. Mi stavo riprendendo quando un altoparlante invisibile emise un cicalino, subito dopo la voce maschile di un gemello di Lino Banfi:”non vi preoccupète, abbiamo chiamèto il tecnico, fra pouco potrete uscire, abbiète un bò di pacienza!! “. Istintivamente mi feci indietro andando a sbattere con le terga alla parete metallica dell’ascensore, ero atterrito, mi sentivo una mosca estiva attaccata dalle molecole micidiali di un potente insetticida, gemetti per nascondere il rantolo e chiusi gli occhi in attesa della fine. “Permette? Ragionier Gaetano Paposcia, delle Assicurazioni Nazionali”, gli strinsi la mano e cercando di respirare il meno possibile biascicai il mio nome. “Questa cosa non ci voleva, sono già in ritardo ad un appuntamento importante…ieri ho fatto tardi con gli amici, siamo andati a mangiare” a quel punto non potevo non chiedere conferma dei miei sospetti ”pesto alla genovese?” e lui sgranando gli occhi ”esatto e poi pepata di cozze…ma come ha fatto a indovinare?”. Ecco il mistero di cotanta potenza aromatica! Non solo il pesto, anche la pepata di cozze…Un esperto in guerra chimica non avrebbe mai concepito una tale formula!! Interrompendo la mia apnea sibilai “un menù un po’ pesante..” e lui con aria spavalda “pesante? E sabato allora? Dovevo morire? Mia moglie ha fatto la trippa al sugo e gli strascinati, le orecchiette quelle grosse, madò…che grande sfazione!! Tre piatti mi sono frecato!!!”. La mia mente era in preda ad allucinazioni da anossia, immaginavo il sistema circolatorio dell’assicuratore come un magma ribollente di trigliceridi e colesterolo, ogni tanto qualche globulo rosso sfrecciava in quel fiume lipidico insano a bordo di gusci di cozze e strascinati.Si era avvicinato con fare confidenziale, i miei occhi sbarrati ora potevano ammirare una vistosa cascata di forfora sul collo della sua giacca e un piccolo distintivo dorato sul bavero, provai ad allontanarmi chiedendogli “lei è del Rotary?” “No, sono donatore di sangue”, “lei donatore di sangue??” ero allibito, pensavo a quelle sacche ripiene di rossa quintessenza distillata da pantagrueliche mangiate di cozze crude, involtini a ragù di cavallo, castrato e zampina alla brace, pasta al forno con polpette, focaccia imbottita di mortadella….Un’arma biologica. Chissà le povere ignare vittime di quelle trasfusioni assassine… Ero solo, indifeso, in balia di un “gastronomic serial killer”, ne sarei uscito vivo? Avrei potuto raccontare il pericolo scampato? Era giunto il momento di invocare qualche santo taumaturgo specializzato? Che ne so, San Pellegrino, San Marzano…
All’improvviso un cicalino ruppe il religioso silenzio “signori, sono il tecnico dell’ascensore, mi trovo nella cabina di comando all’ultimo piano, adesso vi tiro su e potrete uscire”. Ero salvo. La testa mi doleva per le apnee ripetute ma ero vivo. L’ascensore riprese la sua salita, io ero felice, avevo avuto una prova inconfutabile: lassù qualcuno mi ama.

lunedì 9 aprile 2007

PETULA CLARK - Downtown

ELOGIO DELLA CITTA'

ANIMALS IN IRELAND - The Bothy band

DEDICATO AI "PASQUETTARI" DOMESTICI

LA PASQUETTA PERFETTA


Il giorno di Pasquetta non è una festività religiosa, infatti non vi è alcun precetto da parte della Chiesa di andare a messa. Si tratta di una festività laica introdotta dallo Stato nel dopoguerra per allungare le ferie pasquali, così come per il 26 dicembre con il Natale. La consuetudine è quella di fare una gita fuori porta con amici e parenti e consumare un lauto picnic a base di carne alla brace. Altra consuetudine, praticata generalmente dai più giovani, è quella di organizzare giochi e passatempi prettamente campestri come la mosca cieca, il nascondino, calcio, pallavolo, corsa di biciclette ecc. Naturalmente in questo clima di festa gioiosa non può mancare la musica che viene diffusa ad alto volume con potentissimi radioloni o i sofisticati impianti stereo delle stesse automobili. In poco tempo il luogo ameno scelto per passare la giornata si trasforma in un angolo da bolgia dantesca: fumo di carboni umidi e grasso d’agnello bruciato che cola dalla graticola, urla e versacci di tutti i generi di bambini e ragazzini liberati come bestie tenute in gabbia, risate sguaiate di uomini e donne impegnati a preparare le vivande di cui si ingozzeranno di lì a poco, musica techno a tutto volume con “bass surround” da conati di vomito, grida di giochi e palloni che rimbalzano dappertutto. Insomma, l’idea e lo scopo di questa giornata non è godere della natura primaverile e del suo effetto benefico e rilassante, ma effettuare una vera e propria aggressione alla natura, spargendo inquinamento acustico e rifiuti di ogni genere. La Pasquetta è la giornata-simbolo dell’alterazione dell’equilibrio ambientale da parte dell’uomo, è la festa dell’inquinatore, basta pensare alla quantità di agnelli crudelmente macellati, all’inquinamento ambientale causato dal traffico, alla quantità di rifiuti prodotti e abbandonati e all’inquinamento acustico di cui sopra.
Sicuramente qualcuno obietterà che è una tradizione e che come tale va rispettata e onorata. Mi permetto di far notare che la Pasquetta è tradizione alla stregua di altre festività tipo la festa della mamma, la festa del papà, san Valentino, ecc,; ma anche se fosse una tradizione, che vuol dire? Per caso la corrida, in Spagna, non è un’antichissima tradizione? Eppure dovrebbe essere immediatamente vietata. Il senso profondo e autentico della tradizione consiste nel tramandare di generazione in generazione valori positivi, senso di identità culturale e di appartenenza a una comunità. Non mi sembra che festeggiare il consumismo campestre a suon di musica da discoteca e sonore scoreggie rappresenti un evento culturale o contenga valori degni di essere tramandati.
Comunque sia, oggi 9 Aprile 2007, giorno di Pasquetta, il sole splende caldo sulla campagna fiorita, sarà una bella giornata per i milioni di gitanti italiani, un giorno da dimenticare per la fauna e la flora selvatica, il giorno della graticola per agnelli e capretti sgozzati per farci felici.
Buona giornata.

domenica 8 aprile 2007

sabato 7 aprile 2007

VLADIMIR MAJAKOVSKIJ - Ascoltate!

ABBIAMO BISOGNO DELLE STELLE

MARIO BIONDI - This Is What You Are

QUESTO E' QUELLO CHE SEI

CIELO, MIO MARITO !!



Normalmente si crede che vi siano due grandi categorie tipologiche di tradimento amoroso: quello unicamente sessuale, che non pregiudica i rapporti sentimentali esistenti, anzi, paradossalmente ha lo scopo di rafforzarli; quello sentimentale, in cui l’innamoramento di un’altra persona viene solo temporaneamente nascosto e vissuto clandestinamente per motivi di vario genere, ma che è inevitabilmente destinato a uscire allo scoperto. In realtà vi è un’altra categoria, non poco frequentata, assolutamente originale e non riconducibile alle precedenti già citate: il tradimento autoreferenziale è una forma di infedeltà particolare, in cui la molla che spinge a cercare un altro partner non è né di tipo sessuale né di tipo affettivo. E’, sostanzialmente, la risultante di diversi elementi: necessità di alimentare la propria autostima, necessità di dimostrare a se stessi di essere capaci di trasgredire, necessità di verificare l’efficacia della propria finzione, necessità di dimostrare ogni volta la propria cinica visione della vita e dei rapporti personali. Insomma una sorta di tecnica relazionale per soddisfare alcune pulsioni molto forti, niente che non riguardi il proprio io profondo.
Questo è il tipico caso in cui si tradisce il proprio partner per essere fedeli a se stessi, per provare a se stessi di non essere rimasti in gabbia in un rapporto fossilizzato, basato sulla consuetudine. E’ il tipico tradimento che si consuma “a prescindere” da chi ne è oggetto e da chi ne è vittima; è il tipico tradimento inevitabile e soprattutto ripetibile all’infinito,non vi è alcuna possibilità di neutralizzarlo. Eppure c’è chi si ostina a combatterlo: nuove lune di miele, consulenti matrimoniali, rinnovata creatività nella disponibilità sessuale, regali, coccole esagerate, eccetera eccetera.
Perché il tradimento, in generale, è così destabilizzante? Prima di tutto perché rompe degli archetipi legati alla sopravvivenza della specie: per la donna è sinonimo di abbandono, di privazione della sussistenza e della protezione per sé e per i suoi figli; per l’uomo è grave minaccia per la propria riproduzione e per il ruolo e prestigio sociale all’interno della tribù. Poi subentrano aspetti psicologici: il tradimento del partner è una minaccia gravissima al proprio livello di autostima, ci si sente “preferiti” ad un altro/a, e questo è estremamente doloroso; la paura della privazione, della perdita, del lutto, una morte affettiva improvvisa alla quale non si riesce a rassegnarsi; la frustrazione del senso di “possesso” del partner, la perdita dell’esclusiva affettiva che distrugge quel senso di unicità indispensabile che si credeva di rappresentare per l’altro; dolore per il sentirsi truffati, presi in giro, da chi mai avreste pensato essere capace di farlo.
Il “tradimento”, accezione cristiana di una parola latina che significava “consegnare”, tradere, (infatti la “consegna” di Gesù fatta da Giuda nell’Orto dei Getsemani rappresenta “il tradimento” per antonomasia). Il tradimento, nei suoi molteplici aspetti, è sempre presente nella vita di ciascuno di noi, primo fra tutti forse il tradimento più grave, il più serio, quello verso se stessi: non esiste uomo e donna che almeno una volta nella vita non abbia tradito le proprie convinzioni, le proprie autentiche aspirazioni, i propri veri sentimenti. Poco importa sapere che si avevano dei buoni motivi, ci sono sempre dei buoni motivi alla base del tradimento di se stessi, ma ci serve convincerci di questo per poterci perdonare e dimenticare al più presto. Strano, la comprensione e la pietà che abbiamo con noi stessi è infinitamente più grande di quella che abbiamo verso gli altri, con le persone che amiamo; noi ci perdoniamo in fretta, ma non perdoniamo agli altri; noi abbiamo sempre un buon motivo, gli altri non hanno mai dei buoni motivi.
Comunque si dispongano gli elementi di questa questione non si sfugge ad una realtà oggettiva: siamo dei grandi fetenti, bugiardi e traditori. Per cui costruire la propria esistenza inseguendo il miraggio dell’”anima gemella” può essere molto pericoloso, impariamo ad accontentarci dell’”anima cugina”, magari non è il massimo, ma ha un vantaggio: non è merce rara, i cugini, più o meno alla larga, si trovano molto più facilmente dei gemelli.



venerdì 6 aprile 2007

KATE BUSH - Army Dreamers

ANIMI VIOLENTI

IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI








Il cucciolo della pecora, per la sua evidente purezza e aria indifesa, rappresenta il simbolo dell’innocenza e, per questo, era l’animale offerto in sacrificio dagli ebrei durante la Pasqua. Le stesse immagini bibliche (Isaia) del divino pastore che conduce il gregge del suo popolo e quella del servo di Dio che come un agnello sacrificale viene condotto al macello, finiscono anche nei Vangeli. Gesù è il buon pastore che cerca le pecorelle smarrite; il Battista (Giovanni) chiama Gesù “l’agnello di Dio” che si fa carico di tutti i peccati del mondo. Già nelle catacombe romane Cristo è raffigurato come agnello di Dio; l’agnello pasquale è il Cristo che sorregge la bandiera della vittoria sulla morte, è il simbolo popolare della Resurrezione. Ma l’agnello sacrificale è anche simbolo del martirio, sublime olocausto per la salvezza dell’umanità. Per i cristiani, e in particolare per i cattolici, l’agnello è diventato un cibo rituale che non può mancare sulla tavola imbandita per il banchetto pasquale. Lo stesso modo cruento con cui vengono macellati gli agnelli ricorda in qualche modo le pene del martirio rinnovate attraverso la sofferenza inferta ai piccoli animali: la macellazione di un agnello avviene attraverso il suo sgozzamento e immediato dissanguamento, per questo viene appeso per una zampa posteriore ad un gancio e lasciato morire. Se dal macellaio avete acquistato un agnello o un capretto da latte, sappiate che quel misero mucchietto di carne e tenere ossa non aveva più di 20 giorni di vita.
La Pasqua cristiana, il giorno della resurrezione a nuova vita di pace e di amore, noi la festeggiamo con lo sgozzamento di oltre due milioni di agnelli, un mare di sangue.
Tutto sommato la vittima sacrificale, il capro espiatorio, è sempre appartenuta alla nostra cultura; pensiamo di essere moderni, di esserci liberati di pesanti e discutibili consuetudini, crediamo che i veri valori siano l’amore, la pace e la tutela della natura. In realtà siamo cambiati ben poco o forse siamo peggiorati, siamo pronti a qualsiasi sacrificio per non turbare il nostro cane o il nostro gatto ma non abbiamo nessuna difficoltà a comprare, cucinare e mangiare un agnellino trucidato e dissanguato. Dobbiamo festeggiare la Pasqua, la vita che vince sulla morte, e lo facciamo procurando la morte di milioni di indifesi esseri viventi. Buona Pasqua.

giovedì 5 aprile 2007

SANDY MULLER - nao tenho pressa

IO NON HO FRETTA

LA MORTE, QUESTA SCONOSCIUTA


Ci sono cose ben peggiori della morte. La pasta al forno con la mortadella, vino e gassosa, lo shampoo alla mela verde, le ascelle non lavate, una serata con una donna separata da poco, una serata con un uomo appena piantato dalla sua donna. Eppure la morte è l’unica cosa che fa veramente tremare i polsi di gente estremamente risoluta come i venditori di enciclopedie o i dentisti. In realtà nessuno sa cosa realmente essa sia, così come nessuno può dire di sapere cosa esattamente ci aspetta dopo di essa. Al di là delle teorie filosofiche e delle convinzioni religiose, in realtà non se ne sa proprio un bel niente. Quello che sappiamo è cosa succede nella vita dopo che la morte è passata per fare un po’ di spazio: non succede nulla; c’è il dolore dei sopravvissuti, la soddisfazione degli addetti ai servizi funebri, la preoccupazione di ereditare qualche debito, un generico senso di costernazione espresso più che altro per scopi scaramantici. La vita continua, the show must go on. Con l’ultimo atto della tumulazione della salma si archivia definitivamente una vita, ne rimarrà traccia negli archivi anagrafici e in eventuali opere dell’ingegno, giacchè la traccia nella memoria dei congiunti è destinata anch’essa a scomparire.
Ricapitolando, la questione sta in questi termini: temiamo la morte ma non ne sappiamo nulla. Non è solo legittimo timore di patire dolore e sofferenze, è proprio paura dell’ignoto, paura di dover lasciare ciò che si conosce per una cosa che non si conosce, certi che mai nessuno la conoscerà. E’ questo il motivo per cui l’uomo non vuole morire e fa di tutto per procrastinare questo ineluttabile evento. La cosa paradossale è che questo voler vivere il più possibile si verifica a tutte le latitudini, un giovane sudamericano che sopravvive faticando come una bestia per dieci ore al giorno in una miniera a cielo aperto ha la stessa determinazione di un impiegato della Provincia, noto luogo ameno in cui si pratica allegramente otium et negotium fra cappuccini e cornetti. Poi ci sono i poeti, coloro che sostengono che si può vivere la vita ma essere interiormente, affettivamente e culturalmente, morti. Ma questa è un’altra faccenda.
Non c’è molto da fare e men che meno da dire su questa faccenda, la cosa più intelligente da fare è aspettare, stare a vedere che succede, essere curiosi ma calmi; la calma è fondamentale, non bisogna avere alcuna fretta. Anche quando avremo la sensazione che il nostro tempo stia per finire dobbiamo restare calmi, la fretta non serve a niente, se la nostra ora è arrivata scopriremo l’arcano, se invece è stato un errore ricordatevi la prossima volta che non è opportuno mangiare due chili di cozze crude e tuffarsi in acqua per digerire meglio.

mercoledì 4 aprile 2007

Orson Welles/ Moby Dick

ANNEGARE LA SOLITUDINE

L'ECCEZIONE E LA REGOLA






Ma le mie urla
Feriscono
Come fulmini
La campana fioca
Del cielo

Sprofondano
Impaurite

“Solitudine” di Giuseppe Ungaretti


La solitudine è uno stato mentale, una dimensione dello spirito. Ci si sente soli in un supermercato, mentre si fa la fila alla cassa e tutti guardano sbigottiti il tuo carrello che contiene solo carta igienica e pizza surgelata. Ci si sente soli in un cinema, il lunedì pomeriggio al primo spettacolo. Ci si sente soli a messa, quando si scambia il segno della pace con gente della quale non te ne frega nulla. Ci si sente soli di notte, mentre si divora un pessimo panino con le acciughe. Ci si sente soli dopo una telefonata all’amico lontano. Ci si sente soli quando non si è creduti. Ci si sente soli quando ti sembra che la vita si sia dimenticata di te. Ci si sente soli quando si girovaga sul web per passare il tempo che non passa. Ci si sente soli quando ci si sforza di essere allegri per non essere costretti a dare spiegazioni che non ci sono. Ci si sente soli quando si accende il televisore per non sentire il silenzio che ti assedia. Ci si sente soli quando si incontra un’altra solitudine e non c’è nulla da dire.
Ognuno di noi è un mondo a parte. In ognuno di noi sono serbati ricordi ed esperienze che mai nessun altro potrà condividere. Pensieri intimi, fantasie innominabili, piccoli e grandi segreti. Siamo soli nel momento della nascita e in quello della morte, dovremmo essere abituati a questa ineluttabile condizione monadica. E invece no, ogni volta ci ribelliamo e facciamo di tutto per spezzare questo destino, illudendoci che un giorno ci riusciremo. Canzoni, poesie, romanzi, teatro, cinema, tutti hanno cercato di esorcizzare questo demone, questa scimmia infernale appollaiata sulla nostra spalla. Per molte persone questo stato può essere causa di profondo disagio e di nevrosi, per altre è fonte di reddito (psicoterapeuti, dietisti, artisti, lenoni, agenzie di incontri, siti web, ed altro), per la maggioranza è un peso da sopportare non senza difficoltà. Forse l’aspetto più pericoloso di questa condizione consiste nella presunzione che la propria solitudine sia più pesante e insopportabile di quella degli altri, che il proprio fardello sia il più grosso, che nessuno sia in grado di capirci.
In realtà siamo grotteschi. La nostra presunzione ci trasforma in macchiette sempre preoccupate a raggiungere “la felicità”, come deformi fenomeni da baraccone ostentiamo il nostro sublime dolore e innalziamo penose invocazioni per un destino meno crudele; come marionette ci sbattiamo in ogni modo per sfuggire all’eccezione della solitudine in una regola fatta di vita serena e gioiosa. Ma non abbiamo capito nulla, o ci ostiniamo a non volerlo capire, non vediamo che la solitudine è la regola e che la sua eccezione consiste in brevi momenti di gioia e serenità. Se avessimo il coraggio e l’intelligenza di considerare questa realtà forse vivremmo molto più intensamente e consapevolmente quelle poche eccezioni che la vita ci concede; la regola, la solitudine, sarebbe più sopportabile e molto meno dolorosa. Parole inutili.


Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

“Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo

martedì 3 aprile 2007

ELIS REGINA canta JOBIM - AGUAS DE MARZO

LA VOCE DEL LOGOS

Mozart IL FLAUTO MAGICO -Der Holle Rache - DIANA DAMRAU

LA VOCE DEL PATHOS

FLATUS VOCIS



La voce nasce insieme all’uomo. L’atto della nascita è infatti rappresentato dal primo vagito, da quell’incredibile primo suono-respiro. La voce, quindi, prima di essere comunicazione e linguaggio è grido di presenza e simbolo di vita. La sua natura è essenzialmente corporea, ha relazione col respiro, è emanata dagli stessi organi deputati all’alimentazione e alla sopravvivenza: la voce è prima di tutto il suono della vita. In quel suono emesso dal corpo c’è tutto il nostro essere al mondo, tutta la nostra essenza vitale legata al corpo e alla mente, nella voce risiede il nostro essere, ascoltare la voce è, quindi, prima di tutto atto di condivisione della vita fra umani. La parola non esiste se non prende corpo e suono attraverso la voce; la parola non può essere Verbo (rivelazione del mistero, annuncio di salvezza) se non viene pronunciata con la voce; la parola non può articolarsi in Logos (linguaggio, conoscenza) senza il supporto della voce; la parola non può essere Pathos (testimonianza di affetto, sofferenza, pietà) se il suono della voce non le dà forma e senso. La voce è essenza rivelata, il prodigium altro non è che emissione (prod) di una voce divina (agium), il dio latino Aius Locutius fu appellato così perché volle farsi voce egli stesso, senza intermediazioni di umani sacerdoti. Aio, il verbo latino che ha valore di affermazione categorica e positiva, contiene l’asserzione della verità, è l’esercizio della voce della verità.
L’ambivalenza della voce, intesa come emissione di suono puro e suono articolato nel linguaggio, consente la realizzazione di quella magica e unica forma di espressione musicale quale è il canto. Con il canto la voce viene arditamente piegata alle regole della musica e a quelle del linguaggio per poter raggiungere un livello di comunicazione linguistico-affettiva che tende all’espressione totale di poesia e musica. Attraverso il canto i connotati della voce (tono, timbro, registro) acquisiscono valenze e significati che superano l’individualità del cantante per diventare strumenti di evocazione emotiva e di narrazione simbolica. Essi non rappresentano solo l’essenza del cantante ma diventano oggetto di identificazione affettiva dell’ascoltatore: la voce del cantante si trasfigura in quella dell’ascoltatore, passa da una dimensione privata ad una collettiva.
Le due componenti, quella linguistica (logos) e quella affettiva (pathos), si manifestano in modi, quantità e rapporti diversi, in base alle caratteristiche della composizione musicale, pur essendo sempre presenti in contemporanea. Per cui avremo composizioni in cui la parte linguistica sarà prevalente su quella affettiva e viceversa, il tutto dipenderà dall’autore, dal genere musicale e dall’esecutore, ovvero dal cantante.
La grande potenza evocativa della voce non ha paragoni nel vasto repertorio degli strumenti musicali del mondo, poiché la voce è l’unico strumento/persona; la voce cantata non emette solo suono e linguaggio ma trasporta con sé l’umanità, il senso dell’essere, la volontà di esistere. La voce cantata non solo dice, ma si dice; racconta, ma si racconta; manifesta, ma si manifesta.
In questa dimensione anche il silenzio assume un significato profondo, esso diventa parola non detta, voce non espressa; il silenzio entra, assordante, nell’espressione del linguaggio non profferito, nello spazio dell’affetto non espresso. La “voce” del silenzio racconta anch’essa una storia nata con l’uomo: il silenzio “è” quando la voce “non è”, senza la voce il silenzio non esisterebbe.

lunedì 2 aprile 2007

Totò e Anna Campori - Romeo e Giulietta

UN UOMO INNAMORATO

CEFALO IN LOVE


L’amore è per l’uomo un sentimento destabilizzante. Un uomo innamorato raramente riesce a nascondere la sua condizione: sguardo perso, andatura curva e dinoccolante, respiro corto con frequenti sospiri, appetito scarso, perdita dell’attenzione e linguaggio insicuro. Un uomo innamorato non è un bello spettacolo, e il fatto che lui ne sia perfettamente conscio aumenta di molto la sua goffaggine. L’occhio assume le sembianze di quello di un cefalo intrappolato in un tramaglio: sbarrato, cristallizzato in uno stupore mortale. All’origine di questa catastrofica condizione c’è proprio lo stupore, ci si sente travolti da un vortice di sensazioni inusuali senza riuscire a controllarle; non è la solita tempesta ormonale che scoppia più o meno frequentemente e che ha una collocazione topografica ben precisa e circoscritta. L’amore obnubila il cervello, rende insicuri, introduce idee fisse ricorrenti, alimenta desideri e paure irrazionali, spinge ad un’insana iperattività, turba il sonno, crea incubi. In quei brevissimi momenti in cui sembra di aver ritrovato la lucidità ci si chiede: ma cos’avrà quella donna per farmi un simile effetto? Non c'è risposta.
La questione è complessa ed è stata oggetto di studi di vario genere senza che si siano raggiunti risultati univoci. Il problema principale è che l’uomo è biologicamente e culturalmente modellato per rispondere a precise esigenze di carattere riproduttivo della specie e di carattere sociale. Il linguaggio, ad esempio, è per lui soprattutto mezzo di scambio di informazioni piuttosto che esternazione della propria interiorità; e infatti due uomini che chiacchierano del più e del meno sono infinitamente più noiosi di quanto non lo siano due donne, la chiacchiera femminile “produce” sempre qualcosa, quella maschile non per nulla è definita “cazzeggio”, ovvero totalmente inutile. L’uomo viene educato a risolvere i problemi, ad avere un approccio meccanicistico alla vita, a tendere alla razionalizzazione di tutto, ad apparire forte e sicuro. Quando accade, e quasi sempre contro la sua volontà, di essere travolto dall’amore, ecco che si trasforma in un cefalo, una copia squamata e catatonica di quello che era prima. Uomini grandi e grossi, magari anche un po’ burberi, si lanciano senza vergogna sul terreno minato del “love talking”: amoruccio, tesorino, passerotto, gattina, polpettina e altri ameni appellativi che mai ci si sarebbe sognati di usare. Anche il modo di parlare cambia, si diventa preda del “baby talking”, in cui il normale timbro di voce muta assumendo toni infantili ed emettendo suoni demenziali. Il cefalo ora è sulla graticola, ma lui, come il martirio di San Lorenzo, non sente il dolore, anzi è felice di esserci perché quel ferro rovente è sicura promessa di eterna beatitudine. Domande oscene come “quanto mi ami?” o “mi hai pensato oggi?” suonano come armonie celestiali e si affanna a rispondere con iperbolica affettazione; anche quando le domande tendono ad assumere il tono di un perfido interrogatorio riesce a mantenere quell’aura e quell’espressione da mercato ittico. Come fare a rispondere, senza essere prosaici o svelare le proprie miserie umane, alla domanda “perché non mi hai risposto al telefono?”, non si può dire impunemente “cara, stavo facendo la cacca” e allora ci si inventano docce bibliche o raccomandate da firmare giù al portone. Ma l’apice della totale metamorfosi in muggine viene raggiunto nell’intimità: quei rifiuti ripetuti e quelle brusche inspiegabili interruzioni, che in altri casi sarebbero stati motivo di immediata irritazione e rapido definitivo commiato, vengono vissuti con serafica pazienza e immutata adorazione.
Questa faccenda della metamorfosi amorosa è una nemesi per l’uomo, nessuno ne è sfuggito e nessuno mai ne sfuggirà. L’uomo, per poter entrare in sintonia sentimentale con la donna, deve cambiare, deve squarciare il suo bozzolo spinoso e con le nuove squame lucenti tuffarsi nel mare dei sentimenti; ma quest’uomo rinnovato, a dispetto della stupenda canzone napoletana, non è O’ Guarracino, è un grosso, stupido, cefalo.