mercoledì 28 novembre 2007

Trainspotting - Scena Iniziale e Finale

PROGETTI DI VITA

INTEMPERANZA


Rileggere Epicuro, evitando accuratamente la trattatistica superficiale e molti fra i manuali di filosofia in uso nei licei. Il pensiero epicureo (nonostante risalga al III secolo a.C.) è sorprendentemente attuale perché mette al centro della sua riflessione la condizione umana intesa come ricerca del piacere e rifiuto del dolore. Naturalmente sia il concetto di piacere che quello di dolore sono da intendersi in senso lato, ovvero sia da un punto di vista fisico che morale. Epicuro sostiene che la sofferenza rappresenti uno stato di alienazione e che l’uomo che soffre non possa disporre liberamente delle proprie facoltà fisiche e morali, e che quindi gli sia di fatto inibito il controllo di sé stesso e l’esercizio della propria condizione di essere razionale dedito alla interpretazione della realtà e dei suoi misteri. Egli osserva che anche la ricerca del piacere procura sofferenza e dolore poiché dopo l’estasi l’uomo precipita nuovamente nella realtà e si ritrova di fronte alle paure e alle ansie che aveva cercato di fugare. Quando dice: “non avremmo ragione alcuna di condannare gli intemperanti, se le cose da cui essi traggono piacere davvero riuscissero a fugare in loro la paura della morte, ad allontanare il dolore e a insegnare i limiti del desiderio” egli evidenzia la grossolana contraddizione dei comportamenti intemperanti i quali non producono nulla se non ulteriore frustrazione e dolore. Questi comportamenti sono inoltre soggetti ad un implacabile meccanismo di retro azione (feedback) attraverso il quale la sofferenza post estatica diviene sempre più insopportabile spingendo l’uomo a cercare di scacciarla con ulteriore intemperanza attraverso un’escalation che produrrà solo autodistruzione. Nella storia dell’uomo è sempre stato presente l’uso di sostanze stupefacenti ma con uno scopo ben preciso: consentire la comunicazione rituale tra umanità e divinità, favorire l’uscita dal mondo reale per poter esplorare il mondo metafisico ed ottenere risposte a domande precise. Il vino per i riti dionisiaci, la birra per quelli animisti, il fungo peyote per quelli sciamanici, altro non sono che dei medium per poter entrare nel mondo magico. L’uso non rituale, ma personale, di sostanze stupefacenti risponde ad una condizione di disagio esistenziale le cui radici possono essere molto diverse e variare dai contesti storico-sociali: il contadino delle Ande mastica foglie di coca per sopperire alla spossatezza delle grandi altitudini, l’operaio inglese della rivoluzione industriale si ubriaca di gin per anestetizzare la sofferenza di dodici ore di lavoro massacrante, il bracciante italiano (a nord come al sud) annega nel vino la fatica senza speranza di riscatto, l’uomo in carriera sniffa cocaina per essere sempre all’altezza della situazione, i giovani (adolescenti e non) si ubriacano e fumano cannabis per riempire il vuoto della disillusione, per intorpidire l’insicurezza, per illudersi di una vita passata all’insegna del divertimento e dell’immediata soddisfazione di tutti i bisogni. Alla fine appare chiaro che l’intemperanza, la pratica dell’eccesso, rappresenta il disperato tentativo di essere quello che non si è, di fare quello che normalmente non si farebbe mai, niente di più. I giovani intemperanti non si riconoscerebbero mai nelle parole di William Blake “ la via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza “ perché il comportamento estremo non viene visto come una ricerca dei propri limiti bensì nella celebrazione dell’assenza di ogni limite. In questi comportamenti non c’è una ricerca esistenziale ma una ricerca dell’annichilimento esistenziale; alla base del fenomeno esperenziale non c’è il desiderio di ricostruirsi, c’è solo la necessità di autodistruggersi, di frantumare se stessi in un modo emozionalmente unico, sempre diverso e sempre più estremo.
Tornando ad Epicuro, forse la sua risposta al dilemma del piacere e del dolore non è molto condivisibile (almeno ai giorni nostri) perché egli sostiene che solo l’atarassia (ovvero l’allontanamento da ogni esperienza emotiva, sia positiva che negativa) può garantire la vera serenità, solo tenendosi a distanza da ogni eccesso sarà possibile conseguire il piacere supremo. In ogni caso, quel che più conta dell’insegnamento epicureo è la conquista della consapevolezza che ogni cosa ed ogni esperienza può produrre effetti e conseguenze estremamente diverse fra loro e che ognuno di noi ha il dovere morale di valutare e riflettere anche sugli aspetti apparentemente più positivi della nostra vita.

PICCOLI MOSTRI CRESCONO


Da tempo ormai le giovani generazioni sono sotto le luci della ribalta mediatica. Delitti agghiaccianti, morti a catena sulle strade, bullismo delinquenziale, sessualità violenta, abuso quotidiano di droghe ed alcolici. Questi comportamenti non devono essere definiti trasgressivi perché se è vero che la trasgressione si manifesta come volontà di abbattere limitazioni e convenzioni sociali che bloccano e/o inibiscono la libertà individuale nel nome di un moralismo gretto e integralista, in questi casi non vi è il benché minimo spirito di emancipazione e di superamento di vuote convenzioni e vecchie ipocrite consuetudini. Questi comportamenti sono più semplicemente (e tristemente) eccessivi. Le nuove generazioni sono contagiate dall’ideologia dell’eccesso, da una visione della vita intesa come ricerca continua (e ossessiva) del limite estremo, ovvero della religione del nessun limite. La famiglia contemporanea è democratica, non tende a imporre regole con la forza, non esercita un forte controllo interno, favorisce il dialogo e la discussione su qualsiasi argomento, si mostra quasi sempre disponibile a risolvere i problemi della prole, manifesta sempre e comunque la massima fiducia e protezione per i propri membri. Tutto ciò in sé non ha nulla di sbagliato se non fosse per un piccolo particolare: la famiglia si trova a gestire la più potente arma biologica del XXI secolo, il consumista perfetto, anzi, il consumista assoluto. Parliamo delle giovani generazioni cresciute a televisione e merendina, piccoli mostri che hanno imparato a chiedere appena in grado di parlare e a pretendere appena in grado di capire quanto idioti siano i propri genitori (cosa che avviene puntualmente appena vanno all’asilo). La famiglia contemporanea non sa (né lo ammetterebbe mai) di essere una specie di grande incubatrice nella quale viene allevato un essere destinato ad avere una sola unica grande funzione: consumare. La vita dei nuovi umani è già programmata per garantire nuovi introiti per l’industria senza alcun limite: persino la cacca del neonato è fonte di ricchezza. La famiglia deve lavorare, deve litigare, deve sacrificarsi, deve addirittura autodistruggersi pur di garantire ai figli il massimo indispensabile: uno stile di vita adeguato alla soddisfazione di tutti quei bisogni indotti dalla società dei consumi attraverso i sistemi di comunicazione di massa. Dopo la famiglia subentra la scuola che, grazie a cialtroni incompetenti chiamati pedagoghi, nel tempo, ha stravolto la propria funzione per divenire la prima agenzia di asservimento alla schiavitù del consumo. Non si va più a scuola per imparare a pensare con la propria testa (il buon Epitteto scrisse: solo le persone istruite sono libere), per apprendere come cogliere il senso profondo delle cose e dei fatti, per capire che la cultura è l’unica grande risorsa dell’uomo; ora la scuola serve per “socializzare”, ovvero il luogo in cui gli studenti sfoggiano abbigliamento e gadget firmato, telefonini ipertecnologici, motorini e scooter ultimo grido, dove i più balordi possono sfogare i propri istinti, dove i genitori frustrati possono sfogarsi contro gli insegnanti, dove gli insegnanti vengono costretti a pensare solo alla pensione, dove i presidi (quasi sempre ex insegnanti incompetenti) vivono il delirio d’onnipotenza.
Secondo voi quali possono essere i desideri, le speranze, gli interessi di un sedicenne medio che possiede il motorino, il personal computer, il telefonino, la ragazza, i soldi in tasca, che può rincasare quando vuole e che la mamma lo sveglia con gran delicatezza all’ora di pranzo? Niente!!! La sua vita è squallidamente immersa nel vuoto pneumatico, la sua socialità si fonda sul cazzeggio con altri disperati come lui, la sua affettività si struttura nel sesso malinconico; il suo unico scopo è non pensare, non essere costretto a guardare in quell’angosciante buco nero che è dentro di lui. Allora si passa il tempo libero a uscire da sé stessi, a stordire una coscienza dolente ma inconsapevole con l’alcool e le altre droghe. Ci troviamo di fronte alla tossico dipendenza di massa, che è l’ultimo gradino verso l’annientamento delle coscienze, obbiettivo strategico della società dei consumi. Fino a trent’anni fa entrando in un’osteria eravamo disposti a comprendere quel popolo di tristi e vecchi bevitori che annegavano nel vino i rimpianti di una vita fallita; oggi è molto difficile comprendere il nuovo popolo di bevitori che annegano le speranze di una vita che deve ancora venire. Questa dimensione astorica è la cosa più impressionante, vivere solo nel presente può trasformare una giornata in una vita intera, fino alla notte fatale.


sabato 24 novembre 2007

TOTO' - A' Livella

VERSI IMMORTALI

FRANCO e CICCIO - Sedotti e Bidonati

IL DOLORE DEI SUPERSTITI

SERGIO LEONE - Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo

ALLA RICERCA DEL CARO ESTINTO

IL GRANDE SONNO


Novembre è il periodo dedicato al culto dei morti, culto precristiano codificato nella mitologia classica dal mito di Persefone, condannata a vivere per sei mesi sulla Terra e per sei mesi nell’Ade. La persistenza nel Sud d’Italia di questo culto con forti componenti e simbologie risalenti al mondo antico è descritto molto efficacemente nel libro di Ernesto De Martino “Morte e Pianto Rituale”.
Al di là della fede religiosa e delle credenze personali, è indubbio che ogni singolo essere umano vivente conserva nella memoria un lutto, ovvero il ricordo e il rimpianto per la perdita di una persona cara. Che si sia credenti, atei o agnostici, è indiscutibile che ognuno di noi ha sperimentato la scomparsa di qualcuno al quale eravamo legati, ognuno di noi ha sperimentato il duro confronto emotivo (non dialettico, né teorico) con la morte e con la metafisica. Ogni volta che la morte giunge vicino a noi ci appare come uno scandalo, una cupa oscenità così definitiva e irrevocabile da spingerci a diventare blasfemi, rabbiosi, iracondi per la nostra somma impotenza. Non possiamo sopportare il “grande sonno” nel quale sono caduti i nostri cari e nel quale cadremo anche noi. Il cimitero, che in questi giorni si popola improvvisamente, è una sorta di città-dormitorio nella quale entriamo silenziosi, quasi in punta di piedi: sia che si preghi o si parli, lo facciamo a bassa voce con toni e movimenti cauti poichè la paura inconscia di svegliare i “dormienti” è grande e atavica. Passeggiare silenziosi lungo i viali di cipressi respirando un’aria strana ma inconfondibile, fatta di profumi balsamici delle conifere mista ad acuti sentori di fiori freschi e piante putride, al suono dei propri passi che interrompono gorgheggi e cinguettii di uccelli invisibili, produce un effetto particolare: una malinconica serenità ci pervade lentamente, così come emerge dentro di noi la consapevolezza di essere in un luogo sacro, anzi nel luogo più sacro del mondo. Non è una sacralità confessionale, bensì antropologica: è la certezza di essere in un luogo speciale nelle cui viscere sono custoditi i resti di un’umanità estinta, di ricordi, di speranze, di idee, di esperienze, di emozioni scomparse per sempre. Attraverso le fotografie sulle lapidi cogliamo quell’istante di vita congelata che impietosamente ci consente di sovrapporre ad un nome sconosciuto uno sguardo, una figura materiale che ha attraversato lo spazio e il tempo. Se non fosse per le date scolpite, per le fogge dei vestiti e le acconciature dei capelli, non saremmo in grado di distinguere uno sguardo fotografato qualche anno fa da un altro risalente a un secolo fa. L’umanità fermata dal fotogramma è la stessa, stessi dubbi, stesse paure, stessa gioia, stessa malinconia. E’ come scorrere un immensa galleria fotografica di attori che dalla fine dell’800 ad oggi hanno interpretato lo stesso dramma, una folla sterminata di interpreti di un’unica rappresentazione teatrale che si replica all’infinito.
L’unica cosa sconosciuta di questa rappresentazione è quanto durerà la nostra parte e in che modo usciremo di scena, non c’è alcun modo di parlare col regista ed è impossibile riuscire ad avere qualche biglietto omaggio. Non ci sono pause né intervalli, anche il sonno ha un senso preciso: è una prova quotidiana che ci prepara all’uscita di scena, quando saremo presi dal “grande sonno”.
Visitare il cimitero produce anche un altro effetto, direi tonificante, poiché ravviva il senso della vita che scorre dentro di noi; attiva pensieri scaramantici, potenzia il desiderio di essere vivi, alimenta l’illusione di avere ancora tanto tempo davanti a sé, infonde la certezza di essere protetti dai propri cari estinti. Così il rito devozionale per i defunti, attraverso i fiori, i lumini e le preghiere, finisce con l’assumere anche la funzione di training autogeno, riequilibra la nostra autostima e calma le nostre tensioni interiori. Non esiste nessun luogo capace di farci sentire così completamente vivi e vitali come il cimitero. Così come è il cimitero il luogo più idoneo per valutare l’aumento del costo della vita da un anno all’altro. Il cimitero può svolgere anche un’importante funzione pedagogica che va dalla conoscenza dei propri avi (che dovrebbe essere il primo rapporto con la storia) , alla frequentazione di un luogo in cui il silenzio è obbligatorio, alla visita dell’unico posto in cui non si celebrano falsi miti e menzogne consumistiche: il luogo della certezza, della verità, della dignità ritrovata. Il “grande sonno” che dà un senso alla vita.

venerdì 23 novembre 2007

PASQUALE SQUITIERI - Li chiamarono...briganti

PARTIGIANI CONTRO L'OPPRESSIONE

BICENTENARIO DI UN BABBEO


Fu Maxime Du Camp, scrittore francese e camicia rossa, a definire così il suo generale, Giuseppe Garibaldi. Giuseppe Mazzini scrisse di lui:”è una canna al vento”; lo storico inglese Denis Mack Smith:”rozzo e incolto”; Indro Montanelli:”un onesto pasticcione”. Chiunque volesse seriamente approfondire, attraverso letture storiche non agiografiche, la figura del nostro più grande eroe nazionale rimarrebbe profondamente deluso. Giuseppe Garibaldi fu un avventuriero, dalle idee molto traballanti e privo di qualsiasi capacità di analisi politica, per lui la lotta per la libertà consisteva essenzialmente nel menar le mani contro un avversario che cambiava continuamente, in base alle sue convinzioni del momento. Le sue eroiche imprese in America Latina consistettero in azioni di guerriglia e di pirateria al soldo di signorotti locali che si combattevano per la divisione delle immense terre di quel continente. La sua fama fu decretata da un tipografo italiano, Giovan Battista Cuneo, il quale stampò un giornale “Il Legionario Italiano” in cui si millantavano imprese eroiche e rocambolesche di quei rivoluzionari italiani comandati da Garibaldi e vestiti in rossa uniforme. La leggenda attraversò l’oceano e dall’Italia in fermento giunsero inviti a rientrare: ci sarebbe stato da menar le mani. Immediatamente Garibaldi mollò la guerra americana per tornare in Italia, con lui sessanta uomini e la sua nuova compagna, Anita, il cui marito era misteriosamente scomparso il giorno dopo in cui il generale se n’era invaghito. A Cavour e compagni era chiaro che solo un tipo come lui avrebbe potuto accettare di guidare un manipolo di disperati senza esperienza e armati di vecchi rottami. La missione era segreta e, se fosse andata male, nessuno avrebbe mai ammesso di esserne coinvolto. Il finanziamento proveniva soprattutto dall’Inghilterra attraverso i canali internazionali della massoneria. La spedizione, male armata e per niente equipaggiata, era invece dotata di casse di denaro allo scopo di poter corrompere tutti coloro che si fossero opposti e poter comprare l’aiuto ed il sostegno della mafia che controllava il territorio siciliano. Guarda caso lo sbarco avvenne a Marsala, la più importante colonia inglese in Sicilia (a causa della produzione del vino), si pensi che in quella città gli abitanti inglesi erano più dei siciliani. Guarda caso le operazioni di sbarco furono protette da due navi da guerra inglesi, le quali fecero in modo che la flotta borbonica non potesse ostacolarlo. Da quel momento inizia la più grande menzogna mai raccontata al popolo italiano: Garibaldi e i suoi eroici uomini conquistano il Regno delle Due Sicilie. In realtà non accadde nulla di eroico e men che meno di patriottico. La millantata eroica battaglia di Calatafimi non è mai avvenuta: l’esercito borbonico (cinque volte più numeroso dei garibaldini) fu costretto a ritirarsi senza combattere, i comandanti e gli ufficiali erano stati pagati per ordinare la ritirata. E così avanti fino a Napoli: uno degli eserciti meglio equipaggiati d’Europa, con una marina che era la prima del Mediterraneo, non furono sbaragliati dall’eroico esercito garibaldino, semplicemente non hanno mai avuto la possibilità di combattere. I “picciotti” che durante l’avanzata trionfale hanno incrementato le file dei “liberatori” erano molto spesso mafiosi senza scrupoli con la certezza che il nuovo ordine li avrebbe molto avvantaggiati. Uno dei garibaldini più impegnati era il buon Ippolito Nievo, messo a fare il cassiere perché l’unico in grado di non rubare. Dalle sue mani passò tutto il denaro impiegato a corrompere, a comprare, a rimborsare spese mai avvenute: non faceva domande ma annotava tutto sui suoi quaderni, fino all’ultimo centesimo. Quando,nel 1861, qualcuno in Piemonte cominciò a far circolare la voce di sue irregolarità e colpevoli omissioni si precipitò in Sicilia per recuperare i diversi bauli che contenevano tutta la contabilità della missione. Purtroppo la nave che lo portava da Palermo a Napoli sparì misteriosamente fra i flutti e con lei il Nievo e tutta la documentazione contabile. Quel naufragio “impossibile”, poiché non fu rinvenuto alcun genere di relitto, è forse la prima strage mafiosa della storia d’Italia. La Spedizione dei Mille è stato un gran colpo di teatro per impadronirsi di uno stato sovrano da parte di una monarchia in bancarotta, quale quella Piemontese, con la complicità determinante di un’Inghilterra impegnata a controllare l’economia del Mediterraneo.
Grazie Giuseppe Garibaldi, dobbiamo alla tua dabbenaggine e ignoranza se esiste una questione meridionale, se la mafia è diventata un’industria, se una dinastia di ladri e opportunisti ha potuto regnare per troppo tempo sul nostro paese. Ma verrà un giorno in cui tutti gli italiani sapranno come sono andate veramente le cose e il tuo nome, insieme a quello del sanguinario generale Cialdini e del ruffiano di stato Cavour, saranno ricordati come i tristi protagonisti di quel grande imbroglio chiamato Risorgimento d’Italia.
Negli USA hanno avuto il coraggio di ammettere che la conquista del West, della nuova frontiera, è avvenuta attraverso il genocidio dei Nativi Americani e che personaggi mitizzati come il generale Custer erano, in realtà, dei folli sanguinari. Sarebbe ora che anche in Italia sia fatta giustizia dei cosiddetti “briganti” e delle migliaia di donne, uomini e bambini del sud trucidati, torturati e deportati nel nome di re Vittorio Emanuele II, un essere senza scrupoli.
Restare nell’ignoranza di ciò che accadde prima che fossimo nati significa rimanere per sempre bambini. “ Marco Tullio Cicerone

domenica 11 novembre 2007

FABRIZIO DE ANDRE' - Un Giudice

ESERCITARE LA GIUSTIZIA

ELIO PETRI - Sbatti il Mostro in Prima Pagina

LEZIONE DI GIORNALISMO

KILL RAFFAELE SOLLECITO N.1


La vicenda dell’omicidio della studentessa inglese a Perugia mi ha molto colpito e coinvolto. La ragione è che sono amico di uno dei tre ragazzi indagati, lo conosco da tantissimo tempo, così come conosco molto bene una parte della sua famiglia d’origine. Ritengo di conoscere Raffaele piuttosto bene, in tutti i risvolti del suo carattere, in tutti gli aspetti della sua personalità e non nascondo che gli voglio bene. Non voglio entrare nello specifico di questa tragica circostanza in cui è stato coinvolto, anche se dentro di me sono assolutamente convinto della sua estraneità. Quello che mi preme segnalare è il disgustoso linciaggio mediatico di cui è vittima. Sono un giornalista e conosco bene i perversi meccanismi che regolano il flusso e l’uso delle notizie, ma non posso tacere sulle grossolane falsità dette e scritte sul suo conto, né sul cinico accanimento di cronisti da strapazzo che non hanno esitato un istante a dipingere un ritratto che non corrisponde alla realtà. Frasi e fotografie prese (direi sottratte) dal suo blog sono state utilizzate per inculcare il dubbio, per dare l’immagine di una personalità ambigua e disturbata di un’apparente normalità che cela un’orribile perversione.
Presunti esperti e presuntuosi cronisti si danno da fare a descrivere Perugia e il suo ambiente universitario come un covo di giovani etilisti rimbambiti dagli spinelli e dalle ore passate nei locali notturni. Evidentemente costoro non conoscono le nuove abitudini di tutta la gioventù italiana nelle grandi città come nell’ultimo paese di provincia. E’ molto difficile incontrare il sabato notte un ragazzo tra i sedici e i venticinque anni che non sia brillo o fumato che entra ed esce da un locale all’altro. Questi signori non hanno figli né nipoti, o mentono spudoratamente.
Come ormai accade sempre, sono trapelate notizie riservate, stralci di interrogatorio e tutto ciò che può servire a giudicare e condannare senza appello. Sembra paradossale, ma in una società che tende sempre di più ad elaborare norme di procedura che garantiscano i diritti della persona (e fra questi diritti c’è la privacy e la propria onorabilità), i sistemi di comunicazione di massa agiscono in senso opposto e si mobilitano massicciamente per tirare su, in brevissimo tempo, una micidiale forca mediatica. La tragica vicenda di Enzo Tortora non ha insegnato niente poiché nessuno ha pagato per aver distrutto l’onore e la salute di una persona onesta, né magistrati né giornalisti hanno dovuto rispondere dei loro barbari comportamenti.
Non credo sia possibile immaginare cosa si prova ad essere improvvisamente catapultati su un banco accusatorio senza avere la possibilità di difendersi da un’accusa infamante: per la pubblica opinione, Raffaele Sollecito è un giovane pervertito coinvolto in un sanguinoso ed assurdo omicidio e, indipendentemente dagli esiti delle investigazioni, questo marchio ignominioso diventerà un peso che dovrà portare addosso per sempre. Ancora una volta gli sciacalli dell’informazione hanno una nuova vittima, ancora una volta si è consumato il linciaggio morale di una persona impossibilitata a difendersi.
“Nel passato gli uomini subivano la tortura della ruota, adesso subiscono quella della stampa.”
Oscar Wilde




Francesco Saverio Sasso




sabato 10 novembre 2007

A RAFFAELE


Amico mio,
non so cosa ti sia accaduto, in quale vortice di orrore o di menzogna tu sia stato risucchiato.
Sono sgomento e piango per te. Mi vengono in mente le ore passate insieme a parlare dei tuoi progetti, delle tue perplessità, delle tue speranze. Non posso non ricordare la morte improvvisa di tua madre e il tuo immenso dolore. Ricordo le feste passate insieme e le gite in cui abbiamo riso e scherzato. Vederti in televisione, col capo coperto, portarti in galera vestito con lo stesso giaccone con cui sei venuto l'ultima volta a salutarmi è stato terribile, mi ha attanagliato un'angoscia senza fine. Ti conosco come una persona pulita e sincera, non riesco a pensarti diversamente. Ti prego, segui la strada della verità, che è l'unica ad avere un senso, lascia che la tua umanità si manifesti completamente. Io non smetterò mai di esserti amico e di volerti bene.
Ti abbraccio.