Vent’anni fa, il 20 Novembre 1989, si spegneva uno dei più grandi scrittori italiani del XX secolo: Leonardo Sciascia. Naturalmente questo anniversario passerà senza che nessuno si sia preoccupato di ricordare la vita e le opere di uno scrittore che ha lasciato un segno indelebile nella cultura e nella letteratura di questo paese. Eppure mai come ai nostri giorni avremmo bisogno del contributo di un intellettuale libero e onesto come Sciascia che ci aiutasse a capire e a interpretare una realtà politica, sociale ed economica che in vent’anni è mutata così radicalmente.
Siciliano di Racalmuto, Sciascia apre la sua sicilianità al contesto culturale europeo proseguendo sulla strada già battuta da Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Le sue storie sono un racconto critico di una realtà in cui semplicità e complessità sono due facce della stessa medaglia. Quando, nel 1960, fu pubblicato il romanzo “Il Giorno della Civetta” in cui, per la prima volta, uno scrittore descriveva le caratteristiche e la cultura della mafia, il potere politico e istituzionale si sforzava ancora di negarne l’esistenza parlando di semplice malavita locale. Sciascia è il primo a raccontare di come sia stato possibile che il crimine organizzato si sia intimamente intrecciato al potere per creare quella grigia zona di contiguità che come una cappa asfissiante uccide lo stato di diritto e condiziona l’economia e la libertà della società civile. Mano a mano che la sua produzione letteraria si sviluppa attraverso opere apparentemente eterogenee, Sciascia, insieme a Pasolini, diventa una delle coscienze critiche più scomode del secondo dopoguerra. Il suo impegno civile si materializza anche nella politica: eletto nel consiglio comunale di Palermo, nelle liste del PCI, diventa scomodo persino per il partito che lo ha sponsorizzato, con il quale rompe definitivamente dopo aver dichiarato di una conversazione tra lui, Guttuso e Berlinguer in cui quest’ultimo avrebbe ammesso che le brigate rosse erano state addestrate in Cecoslovacchia. Durante i giorni oscuri del rapimento Moro, Sciascia pubblica un piccolo saggio sulle contestatissime lettere dello statista democristiano scritte dalla prigionia. “L’Affaire Moro” è una lucidissima analisi di quelle carte, un’analisi completamente controcorrente rispetto al giudizio che allora ne diede tutto il mondo politico. Pannella e il Partito Radicale offriranno a Sciascia la possibilità di entrare in Parlamento per continuare, da deputato, a osservare e criticare le cose dello stato. Oltre a un intenso lavoro parlamentare (documentato dall’ultimo libro di Camilleri) Sciascia non si sottrae al giudizio di quei magistrati che erano impegnati nel pool antimafia e non si preoccupa di scatenare un putiferio quando dichiara e scrive che per alcuni di quei magistrati l’antimafia era solo motivo di prestigio e di carriera.
Sciascia (ancora una volta insieme a Pasolini) è convinto che il dovere morale di un intellettuale è quello di leggere e interpretare la realtà tenendo sempre presente che il potere tende a sfuggire dal controllo democratico per assumere forme diverse e autoalimentarsi all’infinito.
Ricordiamo Leonardo Sciascia leggendo e rileggendo i suoi libri, forse è l’unico modo degno di onorare un grandissimo scrittore.
Siciliano di Racalmuto, Sciascia apre la sua sicilianità al contesto culturale europeo proseguendo sulla strada già battuta da Verga, De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Le sue storie sono un racconto critico di una realtà in cui semplicità e complessità sono due facce della stessa medaglia. Quando, nel 1960, fu pubblicato il romanzo “Il Giorno della Civetta” in cui, per la prima volta, uno scrittore descriveva le caratteristiche e la cultura della mafia, il potere politico e istituzionale si sforzava ancora di negarne l’esistenza parlando di semplice malavita locale. Sciascia è il primo a raccontare di come sia stato possibile che il crimine organizzato si sia intimamente intrecciato al potere per creare quella grigia zona di contiguità che come una cappa asfissiante uccide lo stato di diritto e condiziona l’economia e la libertà della società civile. Mano a mano che la sua produzione letteraria si sviluppa attraverso opere apparentemente eterogenee, Sciascia, insieme a Pasolini, diventa una delle coscienze critiche più scomode del secondo dopoguerra. Il suo impegno civile si materializza anche nella politica: eletto nel consiglio comunale di Palermo, nelle liste del PCI, diventa scomodo persino per il partito che lo ha sponsorizzato, con il quale rompe definitivamente dopo aver dichiarato di una conversazione tra lui, Guttuso e Berlinguer in cui quest’ultimo avrebbe ammesso che le brigate rosse erano state addestrate in Cecoslovacchia. Durante i giorni oscuri del rapimento Moro, Sciascia pubblica un piccolo saggio sulle contestatissime lettere dello statista democristiano scritte dalla prigionia. “L’Affaire Moro” è una lucidissima analisi di quelle carte, un’analisi completamente controcorrente rispetto al giudizio che allora ne diede tutto il mondo politico. Pannella e il Partito Radicale offriranno a Sciascia la possibilità di entrare in Parlamento per continuare, da deputato, a osservare e criticare le cose dello stato. Oltre a un intenso lavoro parlamentare (documentato dall’ultimo libro di Camilleri) Sciascia non si sottrae al giudizio di quei magistrati che erano impegnati nel pool antimafia e non si preoccupa di scatenare un putiferio quando dichiara e scrive che per alcuni di quei magistrati l’antimafia era solo motivo di prestigio e di carriera.
Sciascia (ancora una volta insieme a Pasolini) è convinto che il dovere morale di un intellettuale è quello di leggere e interpretare la realtà tenendo sempre presente che il potere tende a sfuggire dal controllo democratico per assumere forme diverse e autoalimentarsi all’infinito.
Ricordiamo Leonardo Sciascia leggendo e rileggendo i suoi libri, forse è l’unico modo degno di onorare un grandissimo scrittore.
1 commento:
Grande scrittore e grande fumatore questo era il genio di Sciascia-
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