“Anche il filosofo che crede di guidare il mondo non guida che il vento. Il paradosso della sapienza è che la sapienza suprema consiste nel sapere che la sapienza è vento quando pretende di essere suprema.” Daniel Lys
Questa profonda, tragica consapevolezza viene da lontano, ne troviamo testimonianza nella Bibbia, nei discorsi di Socrate, nelle disperate riflessioni di Seneca, nel Trionfo della Morte di Petrarca, e via via scendendo fino ai giorni nostri in cui la filosofia si cimenta nella riflessione sulla complessità della società contemporanea che sfuggendo ad ogni schematizzazione teorica mette in crisi i modelli di interpretazione, le scale dei valori, il sapere in generale.
Ci troviamo di fronte all’eterna antinomia che vede da una parte il sapiente tormentato e pessimista, dall’altra l’ignorante ilare ed ottimista. Il pessimismo del primo si fonda sulla consapevolezza che il sapere comporta interrogativi senza risposta, il sentirsi pellegrini in un percorso labirintico che durerà per tutta la vita; l’ottimismo del secondo è dato dal vivere cogliendo le piccole gioie e le momentanee soddisfazioni nella certezza che chi sa provvederà anche per lui. Per il sapiente la morte è una violenza culturale, una vessazione che impedisce di dare un senso compiuto all’esistenza e di rispondere in modo definitivo alle domande cruciali dell’umanità; per l’ignorante la morte è un accidente, un accadimento ineluttabile che interrompe il flusso vitale del patimento/godimento. Ma se “Chi aumenta sapienza, aumenta dolore”, come scrisse Giordano Bruno, perché dovremmo immergerci nella ricerca, nello studio e nell’approfondimento? Forse che il sapere è una forma di perversione masochista? Sebbene la domanda sia più che pertinente, essa non ha risposta. Poiché il sapere risponde alla curiosità dell’uomo, al desiderio invincibile di indagare, di congetturare, di soddisfare l’interrogativo: perché? Il sapere è una sorta di furore intellettuale che non ha fine, è una fame insaziabile di conoscenza che spinge a fagocitare qualsiasi cosa, è un furore che si autoalimenta diventando, nel tempo, sempre più avido e vorace. E’ scritto nell’Ecclesiaste (1,18) “Quanto più cresce la sapienza, altrettanto crescono gli affanni”, il monito biblico è chiaro: il sapere porta a cogliere la complessità, l’estrema contraddizione della condizione umana, e inevitabilmente porta a maturare un senso di tragica inutilità sul quale ci si interroga e al quale non si può fare a meno di cercare disperatamente una risposta. Indipendentemente dalle circostanze e dalle situazioni, la domanda è sempre la stessa: perché?
Se siamo davanti a un cielo stellato o sbigottiti davanti alla nostra auto in panne, dopo aver pagato trecento euro per il tagliando, il nostro pensiero vaga lontano… nei misteriosi spazi siderali o nella misteriosa progenie mercenaria del nostro meccanico. Quando contempliamo gli occhi innocenti e luminosi di un bambino potremmo anche ammettere che siamo ad immagine e somiglianza divina, ma come la mettiamo con l’impiegato allo sportello con lo sguardo spento di un lobotomizzato? Forse potrebbe aver ragione Sant’Ignazio di Loyola quando scrive che “non la dovizia del sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente”, ma allora, se così fosse, perché non ci fermiamo ad un approccio affettivo, emozionale, della realtà? Perché quando pronunciamo, con l’aria di una sentenza da ergastolo, la parola “ti amo”, lei, con la grazia e la dolcezza di un poliziotto impegnato nel terzo grado, risponde “mi ami o, semplicemente, mi vuoi bene?” e continua “ma la tua è passione o amore?”, concludendo “non mi guardavi negli occhi quando l’hai detto, sarà vero?”. A questo punto urge il ricorso al sapere, alla logica e alla retorica “se ho detto ti amo significa che il mio sentimento non è semplice affetto amicale, ma vero e autentico trasporto dell’anima e del corpo e quindi anche passione travolgente per le tue sembianze e il tuo essere profondo. Non ti ho guardata negli occhi perché temevo di leggervi il disagio di un sentimento non corrisposto, non osavo interpretare il tuo sguardo come un rifiuto…” “Ohh, caro, ma io ti amo e aspettavo da tempo che tu me lo dicessi…””Dici davvero? Hai aspettato molto?” “Beh, a dire il vero è da un mesetto che sono cotta di te… da quando quella sera per salutarmi, invece del solito bacetto mi hai messo la lingua nell’orecchio…” “Io?? Lingua nell’orecchio? Ti sbagli di grosso… quella sera avevo in braccio Pippo, il mio barboncino, al buio..è stato lui a slinguazzarti, io non avrei osato…” “Pippo?? Dannato imbecille!! Il tuo cane è più intelligente di te!”.
Questa profonda, tragica consapevolezza viene da lontano, ne troviamo testimonianza nella Bibbia, nei discorsi di Socrate, nelle disperate riflessioni di Seneca, nel Trionfo della Morte di Petrarca, e via via scendendo fino ai giorni nostri in cui la filosofia si cimenta nella riflessione sulla complessità della società contemporanea che sfuggendo ad ogni schematizzazione teorica mette in crisi i modelli di interpretazione, le scale dei valori, il sapere in generale.
Ci troviamo di fronte all’eterna antinomia che vede da una parte il sapiente tormentato e pessimista, dall’altra l’ignorante ilare ed ottimista. Il pessimismo del primo si fonda sulla consapevolezza che il sapere comporta interrogativi senza risposta, il sentirsi pellegrini in un percorso labirintico che durerà per tutta la vita; l’ottimismo del secondo è dato dal vivere cogliendo le piccole gioie e le momentanee soddisfazioni nella certezza che chi sa provvederà anche per lui. Per il sapiente la morte è una violenza culturale, una vessazione che impedisce di dare un senso compiuto all’esistenza e di rispondere in modo definitivo alle domande cruciali dell’umanità; per l’ignorante la morte è un accidente, un accadimento ineluttabile che interrompe il flusso vitale del patimento/godimento. Ma se “Chi aumenta sapienza, aumenta dolore”, come scrisse Giordano Bruno, perché dovremmo immergerci nella ricerca, nello studio e nell’approfondimento? Forse che il sapere è una forma di perversione masochista? Sebbene la domanda sia più che pertinente, essa non ha risposta. Poiché il sapere risponde alla curiosità dell’uomo, al desiderio invincibile di indagare, di congetturare, di soddisfare l’interrogativo: perché? Il sapere è una sorta di furore intellettuale che non ha fine, è una fame insaziabile di conoscenza che spinge a fagocitare qualsiasi cosa, è un furore che si autoalimenta diventando, nel tempo, sempre più avido e vorace. E’ scritto nell’Ecclesiaste (1,18) “Quanto più cresce la sapienza, altrettanto crescono gli affanni”, il monito biblico è chiaro: il sapere porta a cogliere la complessità, l’estrema contraddizione della condizione umana, e inevitabilmente porta a maturare un senso di tragica inutilità sul quale ci si interroga e al quale non si può fare a meno di cercare disperatamente una risposta. Indipendentemente dalle circostanze e dalle situazioni, la domanda è sempre la stessa: perché?
Se siamo davanti a un cielo stellato o sbigottiti davanti alla nostra auto in panne, dopo aver pagato trecento euro per il tagliando, il nostro pensiero vaga lontano… nei misteriosi spazi siderali o nella misteriosa progenie mercenaria del nostro meccanico. Quando contempliamo gli occhi innocenti e luminosi di un bambino potremmo anche ammettere che siamo ad immagine e somiglianza divina, ma come la mettiamo con l’impiegato allo sportello con lo sguardo spento di un lobotomizzato? Forse potrebbe aver ragione Sant’Ignazio di Loyola quando scrive che “non la dovizia del sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente”, ma allora, se così fosse, perché non ci fermiamo ad un approccio affettivo, emozionale, della realtà? Perché quando pronunciamo, con l’aria di una sentenza da ergastolo, la parola “ti amo”, lei, con la grazia e la dolcezza di un poliziotto impegnato nel terzo grado, risponde “mi ami o, semplicemente, mi vuoi bene?” e continua “ma la tua è passione o amore?”, concludendo “non mi guardavi negli occhi quando l’hai detto, sarà vero?”. A questo punto urge il ricorso al sapere, alla logica e alla retorica “se ho detto ti amo significa che il mio sentimento non è semplice affetto amicale, ma vero e autentico trasporto dell’anima e del corpo e quindi anche passione travolgente per le tue sembianze e il tuo essere profondo. Non ti ho guardata negli occhi perché temevo di leggervi il disagio di un sentimento non corrisposto, non osavo interpretare il tuo sguardo come un rifiuto…” “Ohh, caro, ma io ti amo e aspettavo da tempo che tu me lo dicessi…””Dici davvero? Hai aspettato molto?” “Beh, a dire il vero è da un mesetto che sono cotta di te… da quando quella sera per salutarmi, invece del solito bacetto mi hai messo la lingua nell’orecchio…” “Io?? Lingua nell’orecchio? Ti sbagli di grosso… quella sera avevo in braccio Pippo, il mio barboncino, al buio..è stato lui a slinguazzarti, io non avrei osato…” “Pippo?? Dannato imbecille!! Il tuo cane è più intelligente di te!”.
Ecco come il peso della cultura si rivela insopportabile e inutile, ecco perché il sapiente sceglie sempre e solo la compagnia di pesci rossi.
2 commenti:
Bisogna augurarsi di non essere tutti sapienti, a volte e molto spesso si sente la necessità della compagnia dei nostri simili.
Eh, alla fine mi son detta che è meglio vivere day by day, prendendo quello che viene. Tanto, come giustamente hai scritto, più ci si arrovella e ci si interroga, più ci si impantana in situazioni difficili.
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