Qual è la caratteristica fondamentale dell’essere umano? La coscienza del sé. Se non ci fosse questa consapevolezza dell’essere, altri aspetti come il linguaggio o il pensiero astratto non avrebbero molto senso. Quando ci guardiamo allo specchio ci assale l’angoscia del tempo che passa, degli eccessi alcolici della sera prima o della scarsa efficienza del rasoio elettrico; quando allo specchio si guarda il nostro cane o il nostro gatto l’angoscia che li assale è di un altro tipo, sembra che si chiedano: e questo intruso chi è?
Questa nostra autocoscienza è la stessa che ci spinge a porci al centro di ogni cosa, a fare di noi stessi la misura di tutte le cose, a pretendere che tutto ci sia dovuto e a considerare che i nostri problemi siano più gravi e importanti di quelli degli altri. Amiamo vivere e agire come se la nostra esistenza fosse assolutamente indispensabile, come se il nostro spazio non possa essere riempito da nessun altro all’infuori di noi. Eppure la natura ce la mette tutta a cercare di dimostrarci che siamo solo un mucchietto di elettroni, che le nostre brillantissime riflessioni dipendono dalla quantità di un alcol steroideo dal nome piuttosto schifoso: il colesterolo, che siamo capaci di incredibili livelli di astrazione del pensiero così come di scoreggie inimmaginabili. Ma non basta, tutto questo non è sufficiente a ricondurre la nostra autocoscienza entro livelli di naturale normalità. Cova in ogni essere umano un delirio di onnipotenza spaventoso, esso viene tenuto a bada solo dai limiti oggettivi che egli incontra nel proprio percorso di vita: le punizioni dei genitori, la condizione sociale, sganassoni veri e metaforici ricevuti, un posto di blocco della Stradale, l’allergia ai gamberetti, l’innamoramento perso per una battona nigeriana, una prostata “secessionista”.
La nostra smisurata presunzione ci impedisce di cogliere gli aspetti più semplici e illuminanti della realtà che ci circonda, abbiamo una fame smodata di complessità apparente e, come l’uomo barocco, amiamo essere stupiti e sorpresi; ma a differenza dell’uomo barocco, che attraverso lo stupore estetico riscopriva lo stupore del mistero della vita, ci stupiamo del nulla, della scoperta del vuoto all’interno di un preziosissimo cofanetto. La forma non come dimensione simbolica del contenuto, bensì la forma come illusione del contenuto: l’essere corrisponde all’apparire. Trionfa la bidimensionalità, la terza dimensione, la profondità, non serve perché non si vede.
A questo punto viene spontaneo convincersi che siamo spacciati. Noi umani siamo destinati a vivere nel delirio egocentrico e nell’autocompiacimento almeno fino a quando non faremo un’esperienza o un incontro illuminante. A qualcuno è successo, non crediate che si tratti di cose particolarmente speciali o esotiche, non è necessario il viaggio a Kyoto o a Calcutta, a volte basta che un piccione in volo ci caghi in testa. Oppure può accadere che mentre facciamo la spesa scopriamo con indescrivibile stupore che le zucchine hanno i peli o che le vongole sorridono.
Qualsiasi cosa, anche la più banale, può illuminarci sulla terza dimensione, aprendo una prospettiva di osservazione della realtà per noi nuova e originale. Inizia così un percorso di riduzione del nostro Io a favore di quello che ci circonda; cambiano anche i rapporti e le relazioni, siamo naturalmente portati a parlare di meno e ad ascoltare di più, a essere più comprensivi e meno intransigenti. Il tempo che passa non è più un nemico da abbattere in una lotta impari, esso diventa il nostro capufficio, da lui siamo stati assunti e da lui saremo licenziati, inutile ricorrere ai sindacati. Tutto insomma è avvolto in un’aria di leggera relatività, di grazia casuale in cui il nostro essere è solo una modestissima variabile della cui esistenza interessa a pochi, anzi a pochissimi se scartiamo gli interessati all’assegno di mantenimento e i compagni di calcetto.
Ma cosa ci è successo? Niente di particolare. Abbiamo scoperto il sorriso della vongola.
Questa nostra autocoscienza è la stessa che ci spinge a porci al centro di ogni cosa, a fare di noi stessi la misura di tutte le cose, a pretendere che tutto ci sia dovuto e a considerare che i nostri problemi siano più gravi e importanti di quelli degli altri. Amiamo vivere e agire come se la nostra esistenza fosse assolutamente indispensabile, come se il nostro spazio non possa essere riempito da nessun altro all’infuori di noi. Eppure la natura ce la mette tutta a cercare di dimostrarci che siamo solo un mucchietto di elettroni, che le nostre brillantissime riflessioni dipendono dalla quantità di un alcol steroideo dal nome piuttosto schifoso: il colesterolo, che siamo capaci di incredibili livelli di astrazione del pensiero così come di scoreggie inimmaginabili. Ma non basta, tutto questo non è sufficiente a ricondurre la nostra autocoscienza entro livelli di naturale normalità. Cova in ogni essere umano un delirio di onnipotenza spaventoso, esso viene tenuto a bada solo dai limiti oggettivi che egli incontra nel proprio percorso di vita: le punizioni dei genitori, la condizione sociale, sganassoni veri e metaforici ricevuti, un posto di blocco della Stradale, l’allergia ai gamberetti, l’innamoramento perso per una battona nigeriana, una prostata “secessionista”.
La nostra smisurata presunzione ci impedisce di cogliere gli aspetti più semplici e illuminanti della realtà che ci circonda, abbiamo una fame smodata di complessità apparente e, come l’uomo barocco, amiamo essere stupiti e sorpresi; ma a differenza dell’uomo barocco, che attraverso lo stupore estetico riscopriva lo stupore del mistero della vita, ci stupiamo del nulla, della scoperta del vuoto all’interno di un preziosissimo cofanetto. La forma non come dimensione simbolica del contenuto, bensì la forma come illusione del contenuto: l’essere corrisponde all’apparire. Trionfa la bidimensionalità, la terza dimensione, la profondità, non serve perché non si vede.
A questo punto viene spontaneo convincersi che siamo spacciati. Noi umani siamo destinati a vivere nel delirio egocentrico e nell’autocompiacimento almeno fino a quando non faremo un’esperienza o un incontro illuminante. A qualcuno è successo, non crediate che si tratti di cose particolarmente speciali o esotiche, non è necessario il viaggio a Kyoto o a Calcutta, a volte basta che un piccione in volo ci caghi in testa. Oppure può accadere che mentre facciamo la spesa scopriamo con indescrivibile stupore che le zucchine hanno i peli o che le vongole sorridono.
Qualsiasi cosa, anche la più banale, può illuminarci sulla terza dimensione, aprendo una prospettiva di osservazione della realtà per noi nuova e originale. Inizia così un percorso di riduzione del nostro Io a favore di quello che ci circonda; cambiano anche i rapporti e le relazioni, siamo naturalmente portati a parlare di meno e ad ascoltare di più, a essere più comprensivi e meno intransigenti. Il tempo che passa non è più un nemico da abbattere in una lotta impari, esso diventa il nostro capufficio, da lui siamo stati assunti e da lui saremo licenziati, inutile ricorrere ai sindacati. Tutto insomma è avvolto in un’aria di leggera relatività, di grazia casuale in cui il nostro essere è solo una modestissima variabile della cui esistenza interessa a pochi, anzi a pochissimi se scartiamo gli interessati all’assegno di mantenimento e i compagni di calcetto.
Ma cosa ci è successo? Niente di particolare. Abbiamo scoperto il sorriso della vongola.
2 commenti:
Saverio, io sono ancora in attesa che mi sorrida almeno una cozza, ma non c'è verso: forse sono troppo occupata a piangere sul mio essere, sostanzialmente, una cazzona.
"Carpe Diem", é importante vivere e comportarsi ogni giorno
per quello che si è ,
e non per apparire.
E' un argomento che trovo interessante e molto affine al mio sentire. Il sorriso poi...è un grande regalo dell'animo di noi uomini, chi lo dona ne ha il gene, chi lo riceve si arricchisce di tanta umanità.
E' terapeutico, è gioviale è il contrario della tristezza. Sei bello/a quando sorridi.Ecco sì in definitiva il sorriso è bellezza, il ridere invece è ben altro.Maria.
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