Nella storia della cultura il discorso sull’assenza viene fatto dalla donna. L’uomo è vagabondo, è cacciatore e cerca l’avventura, la donna è fedele e aspetta. Cosicché quando l’uomo esprime l’assenza dell’altra, si muove all’interno di una dimensione femminina: l’uomo quando attende e soffre è sostanzialmente femminizzato. In amore, l’altro è percepito in uno stato di perpetua partenza, mentre chi ama è fermo, immobile, in perpetua attesa. L’assenza amorosa può quindi essere espressa solo da chi resta, che subisce l’attesa perchè ritiene di amare più di quanto non sia amato. Per sopportare l’attesa si deve ricorrere necessariamente all’oblio, dimenticare per sopravvivere, altrimenti la morte. Se l’innamorato, in certe circostanze, non dimenticasse, per un certo tempo, morirebbe di consunzione, di tensione emotiva, come un novello Werther.
L’assenza genera una sorta di allucinazione schizofrenica poiché nonostante l’altro sia fisicamente assente, è presenza interlocutrice, è oggetto di invocazione, di domande, di sospiri. Quest’angoscia tremenda si protrae nel tempo e se non fosse alternata al ritmo vitale della memoria e della gestualità quotidiana, si piomberebbe nell’immobilità assoluta, in quella inazione che porta inevitabilmente al lutto, alla perdita definitiva. Questo senso profondo di privazione si proietta come un’ombra anche durante la presenza: la presenza fisica diventa insufficiente, l’altro, nella mente, continua a mancare. Ciò che accade è misterioso poiché si perde ogni senso della proporzione. Il tempo dell’attesa è una dimensione solenne e incantata: si aspetta l’altro attivando un blocco, la mente si svuota e il corpo si ferma, restando immobili; aspettiamo non tanto la persona fisica quanto l’idea che abbiamo dell’altro: aspettiamo di soddisfare il bisogno che abbiamo di amare, aspettiamo quella parte di noi stessi che abbiamo scoperto in un altro corpo. In questo senso colui che ama è colui che aspetta, e il delirio della sua condizione è totalmente individuale, la sua certezza più assoluta è che il proprio amore sia infinitamente più grande di quello dell’altro. Questo accade perché siamo disposti ad accettare tutto dall’altro, e questa nostra stupefacente disponibilità la leggiamo come infinito trasporto, come amore senza limiti, se così non fosse non potremmo spiegarci, senza impazzire, perché il nostro subire superi ogni nostra ragionevole aspettativa. In realtà il nostro dare illimitato e senza riserve è l’unica strada percorribile verso ciò che l’amore rappresenta: l’emanazione di noi stessi, il superamento della barriera corporea, oltrepassare il fisico per osare verso il metafisico. Il pianto, l’abbraccio, l’amplesso, sono momenti in cui il nostro corpo si liquefa, diventa acqua che tracima gli argini corporei per espandersi dappertutto; attraverso l’amato conquistiamo l’universo e ricomponiamo noi stessi, conquistiamo l’unità dell’essere.
L’angoscia dell’assenza è paragonabile all’angoscia che genera uno specchio senza riflesso, non riusciamo a vederci, la superficie dello specchio ci rimanda un’immagine opaca, informe e incolore. Impariamo a confrontarci con lo stupore per le nostre sensazioni, i nostri pensieri e i nostri comportamenti; siamo colpiti dalla nostra stupidità che si alimenta di banalità e incongruenze, ci scopriamo apprensivi e ipersensibili. Durante il tempo dell’attesa una sola immagine è quella ricorrente: l’abbraccio. Una stretta immobile che ricongiunge le parti mancanti, momentanea illusione della fine della sofferenza.
L’assenza genera una sorta di allucinazione schizofrenica poiché nonostante l’altro sia fisicamente assente, è presenza interlocutrice, è oggetto di invocazione, di domande, di sospiri. Quest’angoscia tremenda si protrae nel tempo e se non fosse alternata al ritmo vitale della memoria e della gestualità quotidiana, si piomberebbe nell’immobilità assoluta, in quella inazione che porta inevitabilmente al lutto, alla perdita definitiva. Questo senso profondo di privazione si proietta come un’ombra anche durante la presenza: la presenza fisica diventa insufficiente, l’altro, nella mente, continua a mancare. Ciò che accade è misterioso poiché si perde ogni senso della proporzione. Il tempo dell’attesa è una dimensione solenne e incantata: si aspetta l’altro attivando un blocco, la mente si svuota e il corpo si ferma, restando immobili; aspettiamo non tanto la persona fisica quanto l’idea che abbiamo dell’altro: aspettiamo di soddisfare il bisogno che abbiamo di amare, aspettiamo quella parte di noi stessi che abbiamo scoperto in un altro corpo. In questo senso colui che ama è colui che aspetta, e il delirio della sua condizione è totalmente individuale, la sua certezza più assoluta è che il proprio amore sia infinitamente più grande di quello dell’altro. Questo accade perché siamo disposti ad accettare tutto dall’altro, e questa nostra stupefacente disponibilità la leggiamo come infinito trasporto, come amore senza limiti, se così non fosse non potremmo spiegarci, senza impazzire, perché il nostro subire superi ogni nostra ragionevole aspettativa. In realtà il nostro dare illimitato e senza riserve è l’unica strada percorribile verso ciò che l’amore rappresenta: l’emanazione di noi stessi, il superamento della barriera corporea, oltrepassare il fisico per osare verso il metafisico. Il pianto, l’abbraccio, l’amplesso, sono momenti in cui il nostro corpo si liquefa, diventa acqua che tracima gli argini corporei per espandersi dappertutto; attraverso l’amato conquistiamo l’universo e ricomponiamo noi stessi, conquistiamo l’unità dell’essere.
L’angoscia dell’assenza è paragonabile all’angoscia che genera uno specchio senza riflesso, non riusciamo a vederci, la superficie dello specchio ci rimanda un’immagine opaca, informe e incolore. Impariamo a confrontarci con lo stupore per le nostre sensazioni, i nostri pensieri e i nostri comportamenti; siamo colpiti dalla nostra stupidità che si alimenta di banalità e incongruenze, ci scopriamo apprensivi e ipersensibili. Durante il tempo dell’attesa una sola immagine è quella ricorrente: l’abbraccio. Una stretta immobile che ricongiunge le parti mancanti, momentanea illusione della fine della sofferenza.
4 commenti:
L'illusione di aspettare e di abbracciare qualcuno?...no a me non rimane neanche quella.
La storia finisce e se proprio ho voglia ne ricomincio un'altra.
E' uno strano modo di vivere ma lo preferisco. Buona Serata.
L'abbraccio, il contatto fisico, che si vorrebbe durassero in eterno. L'assenza dell'amato, soprattutto se è abbandono, è la morte di una parte di sè.
l'amore da te descritto è raro:tutti lo ricercano,ma pochi lo trovano.Fortunati coloro che lo provano!L'assenza,la mancanza dell'altro è davvero intollerabile e l'abbraccio è un momento in cui i due corpi si fondono e staccarsi è sofferenza,viene a mancare una parte di se stessi.
sì, mio caro, l'amore che tu hai descritto è quello che ho provato. Te ne ho parlato, in giorni di grande complicità, narrando fatti più che emozioni.
Non ho saputo usare le tue parole, bellissime, che mi fanno provare dispiacere per esserci persi. Certo è che quando l'attesa finisce rimane il vuoto, ma questa è un'altra storia...
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