Sono passati quasi settant’anni da quando Sergei Ejsenstejn, per il suo Aleksandr Nevskij (1938, primo film sonoro del grande regista sovietico), impiegò una colonna sonora scritta appositamente da Prokofev allo scopo di interagire intimamente con il ritmo e l’estetica del montaggio.
In tutto questo tempo abbiamo assistito al lento ma inarrestabile mutamento del complesso e articolato rapporto fra musica e immagine; passando attraverso i contributi determinanti della commedia musicale, dei cartoni animati, delle avanguardie del cinema, della pubblicità cinematografica e televisiva e dell’universo estetico delle “fiction” televisive, il rapporto musica/immagine giunge ad un punto nodale nel 1975, quando entra in scena il videoclip. Naturalmente già in passato, a partire dagli anni ’40, l’industria discografica aveva utilizzato il cinema e la televisione per veicolare i propri prodotti, nel 1959, ad esempio, due italiani (Angelo Bottani ed Emilio Nistri) inventarono una sorta di juke-box cinematografico chiamato Cinebox e il primo artista ad esservi ospitato fu Renato Carosone. Ma se ci riferiamo al videoclip inteso come prodotto di pubblicità musicale con una precisa estetica ed un chiaro codice comunicativo, possiamo dire che esso appare in tv nel 1975 per reclamizzare la canzone Bohemian Rhapsody dei Queen.
Pur nascendo dalla semplice esigenza di creare un supporto pubblicitario ad un brano musicale sfruttando appieno il medium televisivo, il videoclip si è sviluppato elaborando un’estetica polimorfica che ingloba tutto: arte, tecnologia, mercato, spettacolo, moda, pubblicità. La possibilità di applicare sempre con successo quest’estetica in settori diversi della comunicazione si spiega, prima di tutto, con l’estrema adattabilità del mezzo alle esigenze più disparate e, soprattutto, col fatto che il video rappresenta (in contraddizione col termine) la sopraffazione della dimensione sonora su quella visiva.
Nel videoclip l’immagine e la sua funzione rappresentativa vengono compresse dall’evento musicale, che è l’unico e vero generatore di comunicazione: l’immagine “fa vedere” ciò che la musica sta raccontando. La tecnica di montaggio delle immagini segue fedelmente la struttura musicale, le sequenze ed il ritmo di montaggio sono in perfetta sincronia con lo sviluppo dell’evento musicale: la musica passa da una condizione di pura e semplice auto-rappresentazione ad una condizione di iper-rappresentazione. In altri termini, l’informazione musicale da essere unicamente di tipo “digitale” diviene anche di tipo “analogico”, utilizzando un altro medium (cinema/televisione) basato sull’informazione analogica (immagine).
Si apre così una nuova dimensione percettiva: l’orecchio che “guarda” e l’occhio che “ascolta”; questa dilatazione sensoriale consente di fissare nella memoria in modo più efficace l’informazione e risulta, tra l’altro, estremamente gradevole a causa dell’indubbio effetto di straniamento che comporta la “visione della musica”. Che si tratti di bieca pubblicità o di produzione artistica conta poco, l’effetto sulla mente è il medesimo e la fruizione del messaggio è assicurata.
In tutto questo tempo abbiamo assistito al lento ma inarrestabile mutamento del complesso e articolato rapporto fra musica e immagine; passando attraverso i contributi determinanti della commedia musicale, dei cartoni animati, delle avanguardie del cinema, della pubblicità cinematografica e televisiva e dell’universo estetico delle “fiction” televisive, il rapporto musica/immagine giunge ad un punto nodale nel 1975, quando entra in scena il videoclip. Naturalmente già in passato, a partire dagli anni ’40, l’industria discografica aveva utilizzato il cinema e la televisione per veicolare i propri prodotti, nel 1959, ad esempio, due italiani (Angelo Bottani ed Emilio Nistri) inventarono una sorta di juke-box cinematografico chiamato Cinebox e il primo artista ad esservi ospitato fu Renato Carosone. Ma se ci riferiamo al videoclip inteso come prodotto di pubblicità musicale con una precisa estetica ed un chiaro codice comunicativo, possiamo dire che esso appare in tv nel 1975 per reclamizzare la canzone Bohemian Rhapsody dei Queen.
Pur nascendo dalla semplice esigenza di creare un supporto pubblicitario ad un brano musicale sfruttando appieno il medium televisivo, il videoclip si è sviluppato elaborando un’estetica polimorfica che ingloba tutto: arte, tecnologia, mercato, spettacolo, moda, pubblicità. La possibilità di applicare sempre con successo quest’estetica in settori diversi della comunicazione si spiega, prima di tutto, con l’estrema adattabilità del mezzo alle esigenze più disparate e, soprattutto, col fatto che il video rappresenta (in contraddizione col termine) la sopraffazione della dimensione sonora su quella visiva.
Nel videoclip l’immagine e la sua funzione rappresentativa vengono compresse dall’evento musicale, che è l’unico e vero generatore di comunicazione: l’immagine “fa vedere” ciò che la musica sta raccontando. La tecnica di montaggio delle immagini segue fedelmente la struttura musicale, le sequenze ed il ritmo di montaggio sono in perfetta sincronia con lo sviluppo dell’evento musicale: la musica passa da una condizione di pura e semplice auto-rappresentazione ad una condizione di iper-rappresentazione. In altri termini, l’informazione musicale da essere unicamente di tipo “digitale” diviene anche di tipo “analogico”, utilizzando un altro medium (cinema/televisione) basato sull’informazione analogica (immagine).
Si apre così una nuova dimensione percettiva: l’orecchio che “guarda” e l’occhio che “ascolta”; questa dilatazione sensoriale consente di fissare nella memoria in modo più efficace l’informazione e risulta, tra l’altro, estremamente gradevole a causa dell’indubbio effetto di straniamento che comporta la “visione della musica”. Che si tratti di bieca pubblicità o di produzione artistica conta poco, l’effetto sulla mente è il medesimo e la fruizione del messaggio è assicurata.
Nessun commento:
Posta un commento