sabato 17 gennaio 2009

IMPERATIVI CATEGORICI


Osservando la vetrina di un grande negozio di calzature mi è venuto in mente Immanuel Kant. Non si è trattata di una visione, poiché in fatto di visioni, estasi e allucinazioni varie ho una discreta esperienza; l’ultima, in ordine di tempo, è avvenuta poco prima di Natale: mentre fissavo con malcelata ingordigia la vetrina di un principesco pizzicagnolo in cui troneggiavano monoliti di formaggio, rosari di salsiccie, delikatessen di ogni genere e varie anatomie del porco transustanziate in sicure promesse d’estatica voluttà, ho visto un santo (probabilmente San Daniele) sbucare da dietro un enorme provolone facendomi gesti di entrare in negozio. C’è chi si è dato all’ascetismo per molto meno…Ma torniamo a Kant, chi avesse reminiscenze liceali ricorderà i due imperativi categorici espressi dal filosofo tedesco: quello relativo all’etica e quello relativo all’estetica. Secondo Kant dentro ognuno di noi è presente, innato, un sentimento che ci consente di riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, così come è presente un altro sentimento che è in grado di cogliere la bellezza, di discernere tra l’arte e la non arte, di riconoscere il valore estetico delle opere dell’ingegno e delle manifestazioni della natura. Guardavo la vetrina piena di scarpe dell’ultima collezione, tutte integralmente o parzialmente di vernice, sembravano le mitiche scarpe di coppale della prima comunione, una roba disgustosa. Riflettevo: se il mio imperativo categorico estetico sta avendo dei conati di vomito come mai vedo clienti soddisfatti e, guardando per la strada, vedo giovani ragazze e ragazzi che sorridono alla vita con i piedi verniciati tipo flatting da rimessaggio nautico? E’ evidente che il povero Immanuel non poteva prevedere il fenomeno della società dei consumi, della pubblicità, del condizionamento strisciante, del subdolo dominio delle menti. La società si è sviluppata in una direzione per la quale l’imperativo si è trasformato in rincoglionimento categorico. Il cucciolo dell’uomo sin dai primi mesi di vita viene sottoposto ad un accurato lavaggio del cervello fino a diventare, con gli anni, un autentico ebete ruspante pronto a consumare qualsiasi cosa e a desiderare tutto quello che gli viene pompato nel cervello. Assurge a bello qualsiasi cosa sia condivisa con gli altri, l’omologazione diventa eleganza. L’oggetto del piacere è sempre lo stesso, la differenza di classe sociale si manifesta attraverso i suoi cloni commerciali che hanno prezzi diversi: si parte dal top, l’originale e quindi il più costoso, per passare poi alle imitazioni fino a giungere al contraffatto, ovvero alla patacca più o meno verosimile. Il passo dall’omologazione del gusto all’omologazione del pensiero è breve. Poiché la merce non rappresenta solo se stessa ma anche un modo d’agire e di pensare (l’hamburger, ovvero il fast food, è un’ideologia) ne consegue che i grandi consumatori agiscono e pensano in modo molto simile, che hanno gli stessi valori di riferimento e che la loro etica sia ormai etica comune. E qui crolla il secondo imperativo categorico del povero Kant: quali sono i valori etici della società dei consumi? Ovviamente il denaro, l’unico mezzo che consente di consumare. E se il consumo è vita, il denaro è la linfa vitale, senza della quale c’è solo la morte civile. Si badi bene, qui non si parla di miseria (che pure affligge i tre quarti del pianeta), cioè di quella condizione che rende drammatica la sopravvivenza, bensì di quella capacità economica che consente di essere consumatori, di quella disponibilità di denaro che permette di soddisfare tutti i bisogni indotti: la moda, la comunicazione, i gadget elettronici, l’auto, la moto, le vacanze, la palestra, il solarium, i locali notturni, l’alcol e la droga. Chi deve fare a meno di tutto ciò è un morto civile, un paria. Il denaro è quindi la misura di tutte le cose, il bene supremo, la vera potenza. Un’etica basata sulla morale del denaro genera comportamenti e azioni che sono al di fuori del problema del bene e del male, poiché il male non è solo quello contemplato dalle leggi e l’onestà non è caratteristica dell’incensurato. Mi sono intristito davanti a quelle scarpe ignobili e ho diretto lo sguardo verso una boutique, i manichini vestivano dei giacconi sportivi con il cappuccio ornato da pellicce di cane e di gatto, una signora guardava i manichini con un certo interesse tenendo al guinzaglio un piccolo cane. Il cane ha guardato la vetrina poi ha girato la testa verso di me fissandomi con un’aria sollevata, sono sicuro che in quell’istante ha pensato: “Certo che ho avuto un bel culo!!”. “Un modo “canino” di esprimere un concetto filosofico sulla casualità”, avrebbe detto il prof. Kant.

4 commenti:

enne ha detto...

Sono d'accordo con il cane della signora, con Kant e con te. Non aspettarti un commento meno banale perchè sono le 4,30 del mattino.

Saverio ha detto...

Grazie, a presto.

ap ha detto...

...più ci penso e più sono convinto che più uno è facoltoso e più vizi si fa e alla fine è più insoddisfatto di prima. Non è altro che il cane che si morde la coda. Non per niente Gesù ammoniva: Guai a voi ricchi che avete la vostra consolazione. A presto Piero-

Saverio ha detto...

Una volta solo i ricchi potevano togliersi determinate "soddisfazioni". Ora lo fanno tutti e arrivano ad indebitarsi pur di consumare.
Non importa quanti soldi hai..c'è sempre qualcuno disposto a farti un prestito....
A presto