Essere felici è uno degli scopi principali dell’essere umano. Buona parte della vita dell’uomo è caratterizzata dall’affannosa ricerca della felicità, ricerca che, molto spesso, è fonte di grande infelicità. Il motivo è chiaro: la felicità non può essere perseguita con ogni mezzo, perché un mezzo eticamente sbagliato rende vano lo scopo. La violenza, il sopruso, la truffa, il furto, possono consentire di raggiungere determinati obiettivi ma fra questi non ci sarà mai la felicità; così come l’impiego di sostanze che alterano la nostra coscienza e la percezione della realtà possono indurre a un temporaneo stato di felicità, ma il ritorno alla realtà vanifica quell’esperienza artificiale lasciando un senso di profonda disperazione e danni più o meno permanenti nel corpo e nella psiche. La felicità è un senso di profonda soddisfazione che accompagna il raggiungimento di determinati obiettivi personali ottenuti attraverso il lavoro, l’impegno, la costanza e la disciplina. La felicità è lo stupendo corollario di un teorema la cui legge afferma l’assoluta necessità che la vita sia vissuta pienamente ma con equilibrio. Riuscire ad agire saggiamente dosando le risorse individuali e le qualità positive quali il desiderio di conoscenza, la generosità, il coraggio e la misericordia, conduce al conseguimento dei propri obiettivi e alla conquista di uno stato di benessere interiore. E’ di Sofocle la frase: ”la felicità dipende dalla saggezza”. La grande cultura classica ci ha insegnato che la felicità è la possibilità di godere della salute, degli affetti sinceri, delle bellezze della natura e dell’arte, in tutte le sue manifestazioni. Essere felici non è possedere qualcosa ma essere posseduti dalla capacità di riconoscere la bellezza, la bontà e la solidarietà. Tutto ciò non ha prezzo, non può essere comprato, ma solo conquistato attraverso un cammino personale impegnativo e, a volte, doloroso e lungo.
La società contemporanea, guidata dal demone del profitto e dello sfruttamento integrale, ha elaborato nel tempo una sottocultura che ha perniciosamente invaso il pianeta, il messaggio fondamentale è che la felicità è alla portata di chiunque abbia denaro da spendere; la felicità consiste nel possesso di beni, nell’ostentazione di oggetti-simbolo, nella rincorsa della giovinezza, nella notorietà ad ogni costo. La televisione ha fabbricato una nuova realtà in cui tutti possano credere, una sorta di second life in cui è tutto possibile. Nel giro di cinquant’anni la società dei consumi ha convinto l’umanità che la vita reale è un brutto sogno e che verità e realtà positiva provengono solo dalla televisione. Le atrocità delle guerre, la follia della gente comune che massacra i propri simili, la violenza oscena del fanatismo, sono tutte storie da raccontare con i particolari più raccapriccianti, diventano oggetto della curiosità più volgare e cinica. Le famiglie riunite intorno al desco, abbondante di ogni tipo di cibo, ascoltano ipnotizzate le omelie dei falsi sacerdoti della televisione e poi discutono fra loro sui fatti di Perugia e di Garlasco senza rendersi conto che tutti loro sono potenziali assassini e massacratori. Genitori che credono nella felicità del possesso di un fuoristrada, figli che praticano l’oblio temporaneo e devastante dello sballo e il felice conformismo delle griffes. Tutta roba che si può avere col denaro. La felicità è una merce, la soddisfazione è alla portata di mano di tutti, senza sforzi né sacrifici. La rinuncia è sinonimo di fallimento, di piacere negato, di frustrazione incombente; la negazione, il rifiuto, sono un’onta intollerabile capace di generare furore cieco e violenza incontrollata. La falsa mitologia di una vita felice grazie all’uso e al possesso delle merci più disparate annienta il pensiero creativo e deprime la riflessione ponderata, la felicità è riflessa dagli oggetti, essa non è più uno stato mentale, un trasporto emotivo, una dimensione della coscienza. Così, mentre si è risucchiati nel vortice del consumo credendo ciecamente agli slogan (satisfaction guarranteed), si precipita nel buco nero dell’insoddisfazione e dell’ossessione spasmodica che spinge a cercare e a ottenere sempre di più. Anche il denaro passa in secondo piano, c’è chi lo presta allegramente pretendendo solo piccole rate a tassi “veramente interessanti”. Non ci vorrà molto per scoprire di essere caduti nell’infelicità più profonda e di avere accumulato debiti secolari. Non resta che piangere in compagnia della famiglia di fronte al televisore al plasma che sarà vostro tra soli tre anni di comode rate.
La società contemporanea, guidata dal demone del profitto e dello sfruttamento integrale, ha elaborato nel tempo una sottocultura che ha perniciosamente invaso il pianeta, il messaggio fondamentale è che la felicità è alla portata di chiunque abbia denaro da spendere; la felicità consiste nel possesso di beni, nell’ostentazione di oggetti-simbolo, nella rincorsa della giovinezza, nella notorietà ad ogni costo. La televisione ha fabbricato una nuova realtà in cui tutti possano credere, una sorta di second life in cui è tutto possibile. Nel giro di cinquant’anni la società dei consumi ha convinto l’umanità che la vita reale è un brutto sogno e che verità e realtà positiva provengono solo dalla televisione. Le atrocità delle guerre, la follia della gente comune che massacra i propri simili, la violenza oscena del fanatismo, sono tutte storie da raccontare con i particolari più raccapriccianti, diventano oggetto della curiosità più volgare e cinica. Le famiglie riunite intorno al desco, abbondante di ogni tipo di cibo, ascoltano ipnotizzate le omelie dei falsi sacerdoti della televisione e poi discutono fra loro sui fatti di Perugia e di Garlasco senza rendersi conto che tutti loro sono potenziali assassini e massacratori. Genitori che credono nella felicità del possesso di un fuoristrada, figli che praticano l’oblio temporaneo e devastante dello sballo e il felice conformismo delle griffes. Tutta roba che si può avere col denaro. La felicità è una merce, la soddisfazione è alla portata di mano di tutti, senza sforzi né sacrifici. La rinuncia è sinonimo di fallimento, di piacere negato, di frustrazione incombente; la negazione, il rifiuto, sono un’onta intollerabile capace di generare furore cieco e violenza incontrollata. La falsa mitologia di una vita felice grazie all’uso e al possesso delle merci più disparate annienta il pensiero creativo e deprime la riflessione ponderata, la felicità è riflessa dagli oggetti, essa non è più uno stato mentale, un trasporto emotivo, una dimensione della coscienza. Così, mentre si è risucchiati nel vortice del consumo credendo ciecamente agli slogan (satisfaction guarranteed), si precipita nel buco nero dell’insoddisfazione e dell’ossessione spasmodica che spinge a cercare e a ottenere sempre di più. Anche il denaro passa in secondo piano, c’è chi lo presta allegramente pretendendo solo piccole rate a tassi “veramente interessanti”. Non ci vorrà molto per scoprire di essere caduti nell’infelicità più profonda e di avere accumulato debiti secolari. Non resta che piangere in compagnia della famiglia di fronte al televisore al plasma che sarà vostro tra soli tre anni di comode rate.
1 commento:
Ma come si fa ad imparare la saggezza, unica generatrice di vera felicità? Ce la insegnano o la impariamo prendendo sberle sul campo? Me lo chiedo spesso.
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