lunedì 29 settembre 2008

CILLUZZO




Cilluzzo apparteneva a quella folta umanità che non ha alcun motivo di sorridere alla vita.
Ultimo di otto figli, viveva in una famiglia così povera che ogni sera, riuniti intorno al desco, il padre ringraziava Iddio per il pane con cui potevano accompagnare un’insipida brodaglia calda che non potendo essere chiamata “minestra”,accezione riservata solo al pasto della domenica, era detta, a bassa voce, “piatto”. La malasorte di Cilluzzo non si esauriva alle sue condizioni familiari, egli era nato “male” (così dicevano tutti) ovvero non era nato sano: non era in grado di camminare normalmente, non parlava normalmente e, soprattutto, il suo cervello non era in grado di cogliere la triste complessità della vita, Cilluzzo era spastico. Aveva vissuto un’infanzia grama, senza giocattoli, senza giochi con i coetanei, era sempre attaccato alla veste scura della madre la quale se lo portava sempre appresso, come quelle cagne randagie anziane, con le mammelle avvizzite dai troppi allattamenti, che non hanno più la forza né il coraggio di allontanare il proprio ultimo cucciolo. Dal mese di ottobre fino a marzo inoltrato la madre se lo portava a raccogliere le olive di cascola. Tutto infagottato di stracci, veniva lasciato solo sotto un grande albero d’ulivo ai limiti dello spiazzo dove si accendeva il fuoco per combattere il freddo e sotto la cui cenere si facevano appassire le olive della misera colazione. In quelle interminabili e fredde ore d’attesa, Cilluzzo fissava il cielo incantato dai volteggi delle gazze, delle ghiandaie e delle tortore. Aveva imparato a masticare le foglie acidule della portulaca, quelle profumate della ruca e i fiori gialli della cicoria selvatica. Faceva amicizia con i burberi gechi nascosti nelle cavità dei tronchi e con le curiose lucertole verdi e gialle che correndo facevano frusciare le foglie secche sul terreno. Persino il cane del massaro, incattivito dalla catena e dal cibo scarso, lo annusava e gli leccava le manine con sincera accondiscendenza, sentiva che Cilluzzo non era parte degli umani che tanto odiava, era un altro vivente sventurato alla mercè di furbi e spietati. Un momento gioioso della vita del piccolo Cilluzzo era quando si saliva sul terrazzo per sciorinare il bucato. Quel grande spazio bianco di calce e inondato dal sole abbacinante era per lui una cosa bellissima. Poi mano a mano che le lenzuola venivano stese incominciava lo spettacolo del teatro delle ombre proiettate sui candidi teli profumati di alloro.
Nonostante la miseria e il fisico gracile Cilluzzo cresceva e, giunto all’età di sei anni, il padre, che non si era neanche posto la questione se fosse il caso di provare a mandarlo a scuola, decise di affidarlo a compare Vitino, un vecchio bracciante anchilosato dall’artrosi che campava intrecciando cesti, cestini e sporte con i giovani polloni d’ulivo. Compare Vitino era un brav’uomo intristito dalla morte della moglie, dalla mancanza di figli e dalle ossa doloranti; a volte il tormento era insopportabile e l’unico rimedio che conosceva, e sul quale non lesinava mai, era il vino. Ben presto la tristezza di Cilluzzo per il distacco dalla madre fu lenita da una grossa fetta di pane e pomodoro che trovava ogni mattina quando arrivava a casa del vecchio. Dopo la colazione Cilluzzo, con la lentezza del pensiero e del corpo che lo governava, disponeva fuori sul marciapiede i cesti da vendere, si sedeva per terra e aspettava i clienti. Nel frattempo compare Vitino cucinava e riassettava la povera casa invocando l’anima santa della moglie e bestemmiando contro la propria genealogia. A metà mattina, quando il sole valicava il palazzo di fronte illuminando e riscaldando la misera casa-bottega, come una lumaca dopo la pioggia, compare Vitino usciva fuori per sedersi a lavorare. Cilluzzo era affascinato dalla velocità e dalla precisione di quelle mani grandi e grinzose, seguiva ogni movimento ma poi la mente incominciava a fantasticare, quei ramoscelli intrecciati gli ricordavano i nidi incastonati sugli alberi, il cielo e le nuvole. Cosicché, nonostante gli sforzi del vecchio di cercare di istruire il bambino nell’arte dell’intreccio, Cilluzzo non riusciva ad apprendere nulla e compare Vitino, dopo ogni tentativo, inforcava una bestemmia e rientrava in casa a tracannare un bicchiere di vino. In realtà al vecchio poco importava se Cilluzzo imparava il mestiere, aveva deciso di prendere in casa quel bambino “alla buono” (come si usava dire di coloro che, per motivi diversi, non erano in grado di provvedere a se stessi) per avere un’anima accanto che alleviasse il dolore dei morsi famelici della solitudine; i suoi amici erano tutti morti consumati dalla fatica e annichiliti dalla disperazione. Nell’angolo più buio della casa riposavano i suoi fantasmi illuminati dalla luce fioca di un lumino ad olio: santini, fotografie commemorative di defunti, l’unica foto del suo matrimonio, immagini che, immerse nel silenzio, urlavano contro una vita avara di gioie, fatta di sudore, fame e lacrime. L’irruzione, seppure discreta, di Cilluzzo in quella specie di antro fatto di desolazione, solitudine e cupa rassegnazione aveva ridato senso alla vita del vecchio bracciante. Passarono dieci anni finchè giunse il giorno in cui compare Vitino sentì che stava morendo. Quella mattina rimase a letto senza parlare fissando l’angolo buio dei suoi ricordi. Cilluzzo capiva quello sguardo, quegli occhi dilatati dall’angoscia, fissi a voler fermare nella memoria quelle ultime immagini della vita. Strinse quella mano grinzosa fra le sue e per qualche istante si guardarono negli occhi, compare Vitino sorrise, chiuse gli occhi e morì. Nel silenzio della stanza Cilluzzo sentiva il suo cuore battere forte e capì cosa vuol dire rimanere soli.
Passò un’ora e Cilluzzo lentamente lasciò quella mano senza vita e uscì fuori. Si fermò sull’uscio a guardare un gruppetto di piccioni che violentemente si divideva le briciole di una tovaglia sbattuta; in quella frenesia di pennuti che beccavano il marciapiedi rimase colpito da un piccione ammalato con una zampa mozza, il povero animale, lento e senza forze, guardava gli altri mangiare senza riuscire a nutrirsi: immobile, muoveva solo la testa per seguire i veloci movimenti e gli scontri dei piccioni sani. Per la prima volta, Cilluzzo pensò alla sua condizione mentre il petto gli si gonfiava di triste disperazione. Pensò che anche il padre e la madre avrebbero, un giorno o l’altro, fatto la fine di compare Vitino e che lui sarebbe rimasto solo. Sarebbe morto di fame come il piccione ammalato. Quando rientrò a casa sua si udivano gli ultimi rintocchi di mezzogiorno e mentre il resto della famiglia si precipitava a casa del morto e alla parrocchia, Cilluzzo ,con difficoltà, salì sul grande terrazzo. Il sole meridiano avvampava l’aria e sbiancava ogni cosa, le lenzuola stese ad asciugare riflettevano la luce come specchi ustori, sul bordo di un comignolo una gazza gracchiava imprecando contro i raggi violenti del sole allo zenit. Cilluzzo, esausto, si sedette sul muretto del terrazzo con le gambe a penzoloni nel vuoto. All’orizzonte, sotto le nuvole bianche, si stendeva una striscia blu, il mare. Non aveva mai visto il mare da vicino. Tante altre erano le cose che non aveva mai visto e non aveva mai fatto, a sedici anni Cilluzzo era ancora un bambino, un bambino con gli occhi tristi di chi non riesce a vedere il futuro e soffre del presente. Le gambe sospese nell’aria gli davano un senso di leggerezza, aveva la sensazione di essere libero da quella pesante armatura che gli impediva di muoversi normalmente, anche i pensieri gli sembravano più veloci e precisi. L’aria era il suo elemento vitale, si sentiva un uccello costretto a vivere in un corpo umano. In un istante si convinse che sarebbe stato capace di volare e senza incertezze si lasciò andar giù. Volò per tre piani andando a cadere su un enorme mucchio di bucce di mandorle, al centro dell’atrio su cui si affacciava il suo palazzo.
Riprese i sensi e pianse in silenzio, molto lentamente si rimise in piedi e si diresse verso la casa di compare Vitino, alla ricerca della sua famiglia. All’imbocco della corta strada il padre lo attendeva. Per la prima volta lo abbracciò e gli diede il braccio accompagnandolo dentro la casa-bottega. Il letto era stato spostato al centro della stanza per poter accogliere meglio coloro che giungevano per l’estremo saluto. Il padre fece sedere Cilluzzo in un angolo e guardandolo negli occhi disse: “il parroco mi ha detto che la buonanima già cinque anni fa gli consegnò la carta del testamento, ha lasciato tutto a te. La casa e l’orto. Anche un libretto di soldi. Ciccillo…è tutto tuo”. Ma lo sguardo di Cilluzzo era altrove, fissava la fila di cesti e di sporte rimaste appese al muro, la mente riprese a correre fra le chiome degli alberi e i nidi di gazze e ghiandaie. Vecchie e bizzoche sedute intorno alla salma pregavano ad alta voce, Cilluzzo si alzò e afferrò un cestino, quella sensazione tattile gli portò alla memoria le mani di compare Vitino che intrecciavano l’ulivo. No…si era sbagliato a pensare di essere un uccello. Egli risentì dentro di sé le parole del vecchio pronunciate qualche giorno prima:”non essere triste, siamo tutti disgraziati, faremo tutti la fine di queste sporte, sfondate e mangiate dai tarli. Tu no, tu guardi il cielo perché ci vedi qualcosa che noi non possiamo vedere”. Cilluzzo uscì fuori col cestino in mano, il sole tramontava rosseggiando inseguito dalle rondini, alzò la mano e salutò il grande disco arancione.

8 commenti:

mariasole ha detto...

vorrei dire qualcosa di intelligente :) ma forse è meglio che dica semplicemente che i tuoi racconti mi affascinano...e poi ognuno fa le proprie riflessioni o semplicemente si gode la descrizione di uno stralcio di vita..

Rimbalzina ha detto...

ah finalmente ho qualcosa da leggere

Saverio ha detto...

Grazie.A presto.

frammentidivita ha detto...

Auguri di buon compleanno!!!!!!!!!

frammentidivita ha detto...

Ma, prima di "essere sfondate e mangiate da tarli" le sporte fatte con i ramoscelli di ulivo, hanno avuto il loro utilizzo e per molto tempo perchè il legno è resistente nel tempo come resistente è il nostro ciclo di vita biologico.
La vita l'uomo la vive prima di diventare essenza libera nell'universo.

note disambigue ha detto...

E dire che di diseredati così ce ne sono stati e ce ne sono tanti.
Ciao Saverio.

Saverio ha detto...

Grazie e saluti a tutti.

note disambigue ha detto...

Laconico, come sempre. :)