La vendetta è una reazione premeditata e attuata, dopo un lasso di tempo più o meno lungo, in risposta ad un torto, ad un affronto, ad una violenza, ad un tradimento subiti. La vendetta è una pratica unicamente umana poiché può realizzarla solo un essere con la coscienza di sé, che abbia la facoltà della memoria, che sia capace di dissimulare e di progettare nel tempo. La vendetta è una sorta di giustizia personale, dipende dal “verdetto” che ognuno di noi, giudice arrogante e spietato, emette sulle azioni e i comportamenti degli altri nei nostri stessi confronti. Vittime prima, giudici e aguzzini poi, attraverso la vendetta noi perpetriamo l’antichissima legge del taglione dilatandola a dismisura: poiché esiste la legge degli uomini e dello stato, la nostra legge personale riguarderà tutto quello che non è scritto, tutto quello che “per noi” è un vulnus insopportabile e che merita di essere punito. Sotto questo aspetto la nostra vendetta è assimilabile alla ultio deorum, alla collera vendicatrice della divinità oltraggiata; essa è un segno inequivocabile del nostro delirio di onnipotenza, nel quale ci sentiamo simili al dio precristiano: persecutore spietato dell’umano sacrilego. Ma a differenza del dio che castiga l’offesa nel nome di una fredda e imperturbabile legge cosmica, l’uomo partecipa emozionalmente alla vendetta, che è “indispensabile” ma è soprattutto fonte di immenso piacere, è voluptas ultionis, il piacere della vendetta. La letteratura è piena di storie sulla vendetta: dall’Iliade al Conte Di Montecristo, da Shakespeare ad Edgar Allan Poe, passando per Le Relazioni Pericolose di Laclos. La realtà non è da meno: dalle vendette trasversali della mafia alle faide familiari e di clan. La nostra stessa vita personale è costellata da piccoli grandi episodi di vendette: sul lavoro, nella vita quotidiana, con gli amici e persino, anzi soprattutto, con chi si ama. I bambini, anche loro non sono esenti da questa pratica e da questo piacere. La voluttà nel veder soffrire, nell’infliggere un’umiliazione cocente, nel portare alla disperazione, è una metafora del piacere di uccidere, di annientare l’avversario proclamando la propria potenza. Infatti la vendetta non è mai equivalente all’offesa ricevuta: è assai più grande e spietata, essa deve dimostrare in modo inequivocabile che il castigo per avere osato contro di noi è tremendo, è certo, è senza appello. La frase “me la pagherai..” è un decreto di morte culturale, una vendetta annunciata che un giorno o l’altro sarà riscossa e quel momento sarà “la resa dei conti”, il nostro privato giudizio universale, il momento in cui potremo godere nel punire il malvagio e nel manifestare la nostra potenza. A questo punto qualcuno dirà: ma esiste anche il perdono, un atto unilaterale e volontario di rinuncia alla vendetta. Infatti il perdono è caratteristica del dio cristiano, un dio misericordioso, che ha provato a farsi uomo per dimostrare il proprio amore e pietà. Ma siamo sicuri che il perdono, in sostanza, non sia altro che un modo incruento di fare vendetta? Se proviamo a vedere la cosa da un altro punto di vista ci accorgiamo che: il perdono viene concesso da chi è stato offeso, indipendentemente se sia stato invocato o meno; il perdono viene concesso nel nome di una ragione superiore (morale e/o trascendentale) di cui l’offeso è tramite diretto. Nel momento in cui il perdono viene concesso (etimologicamente da cum cedere, ritirarsi) si pratica la rinuncia alla vendetta, ovvero la rinuncia ad un diritto, quindi si afferma, praticamente, una sostanziale superiorità dell’offeso, il quale, dall’alto del suo diritto, esercita il suo potere affermando la propria clemenza. Chi è stato perdonato non ha pagato per l’offesa inflitta e sarà per sempre debitore morale, senza alcuna possibilità che i conti saranno mai messi in pari. E siccome il perdono non lo si accetta ma lo si subisce, di fatto, il trionfo dell’offeso sarà inevitabile, così come inevitabile sarà l’abisso nel quale precipiterà colui che ha offeso. Alla voluptas ultionis si sostituisce la voluptas indulgentiae, il piacere del perdono, che per molti aspetti è molto più seduttivo poiché implica la manifestazione di una grande forza materiale e spirituale e, per di più, è indissolubilmente correlato ad una morale trascendente che confina con la santità: ogni volta che perdoniamo ci sentiamo un piccolo re, un piccolo imperatore, un piccolo dio. Così il perdono “inflitto” può facilmente trasformarsi in ergastolo della coscienza: “ La forma sublime del disprezzo è il perdono.” Nicolas Gomez Davila
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2 commenti:
Non immagini quanto io stia pensando alla vendetta, da un po' di mesi a questa parte. Ed è la prima volta nella mia vita.
Baci.
Ho preso l'abitudine di stampare i tuoi post e di portarmeli al mare, dove li rileggo con estrema calma. Lo farò finchè durerà questo viavai pazzesco.
Ciao, Saverio.
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