L’Estate è la stagione dell’anno in cui meglio si possono osservare i livelli di coglioneria nazionale.
Il vero grande protagonista di questa stagione è solo uno: il mare e i suoi annessi e connessi. Nella mente ormai definitivamente sconvolta di ogni italiano, quei pochi neuroni ancora funzionanti galleggiano sull’acqua di mare, se potessimo scoperchiare il cranio italico medio lo spettacolo sarebbe lo stesso di una scatoletta di tonno al naturale. Non si venga a dire che si tratta di amore per la natura perché allora sarebbe un amore davvero bizzarro: sono gesti d’amore i rifiuti di ogni genere abbandonati sulle spiagge? Né si venga a raccontare che è un bisogno irrefrenabile di relax dopo tanti mesi di vita stressante: è rilassante affrontare file interminabili di auto che si muovono a passo d’uomo? E’ rilassante farsi arrostire cervello e frattaglie schiacciati da una folla vociante, maleducata e spesso orripilante? E’ rilassante bagnarsi in acque pullulanti di colibatteri, mucillagine e meduse schifose? A meno che non si sia malati di mente o appena usciti dopo vent’anni di galera, la risposta è sicuramente negativa. Allora ci dev’essere qualcos’altro, un sottile e perfido meccanismo che spinge milioni di persone a convincersi che questo comportamento è naturale, che queste pratiche siano assolutamente indispensabili e assolutamente divertenti.
Cominciamo col dire che la vacanza (sia essa weekend o soggiorno più lungo) è uno status symbol, è un obbligo sociale, è una forma di integrazione ai modelli dominanti di comportamento. La vacanza è un modo per alimentare la propria autostima, il proprio bisogno di sentirsi pieni di risorse e di avere una sufficiente certezza per il futuro più prossimo. La vacanza rappresenta l’illusione più convincente di aver trascorso un anno applicati al duro lavoro: solo chi ha lavorato duramente sente il vero e irrinunciabile bisogno di un meritato riposo. La vacanza materializza le fantasie più diverse e i desideri più profondi: una vita gaudente e trasgressiva, disponibilità economica, la libera gestione del proprio tempo, un momento della vita in cui si può essere liberamente “se stessi”.
Storicamente la vacanza risale alla cultura romana, quando d’estate era opportuno sottrarsi ai miasmi della città trasformata dal caldo in una fogna a cielo aperto. Inoltre vi era una necessità di carattere economico: trasferirsi nelle “villae”, poste al centro del latifondo, per controllare le operazioni del raccolto di cereali e frutta che rappresentavano le riserve alimentari della famiglia. In questo contesto si inseriva il concetto di “otium”, del tempo cioè dedicato alla lettura, alla scrittura,alla conversazione e alla riflessione. Insomma un concetto “alto” del tempo di sospensione degli affari e della politica, in cui ci si dedicava all’agricoltura (che insieme alla guerra era l’unica attività veramente degna di un uomo) alle lettere e alla filosofia. L’aspetto conviviale e godereccio era assolutamente in secondo piano, era solo un modo per passare alcune serate con gli amici.
L’attuale “otium” italico è invece all’insegna dell’edonismo più sfrenato: le uniche attività consentite sono abbuffarsi, ubriacarsi, lasciare che i propri figli si dedichino liberamente a rompere le balle al resto dell’umanità, ballare, cazzeggiare, ostentare con arroganza la propria imbecillità. Tutto ciò nello scenario di spiagge, lidi, villaggi turistici, lungomare e promenade serale. Ci si sposta da una località all’altra perché lì fanno un gelato eccezionale oppure per andare ad abbuffarsi alla sagra del polpo, alla festa del panino tipico, al festival della birra bavarese da bere a litri su mezzo chilo di grasso a forma di wurstel. L’estate è il campionato del rutto più fragoroso, delle flatulenze più micidiali, della corsa del dissenterico. I rari momenti di soddisfazione più autentica sono quelli in cui si può raccontare con toni superbi di essersi ingozzati all’inverosimile e di aver pagato pochissimo. L’importante è sorvolare sul fatto che il giorno dopo è trascorso seduti sulla tazza del gabinetto, sudati, puzzolenti, tremanti, pensando con nostalgia alla minestrina della mamma. Quelle acque e quei lidi una volta teatro di tanta storia e bellezza sono ora un immenso gabinetto pubblico nel quale sfilano con grottesca sicumera uomini e donne felici di essere lì, di interpretare quella parte in una commedia di grande successo. L’estate prossima si replica.
Il vero grande protagonista di questa stagione è solo uno: il mare e i suoi annessi e connessi. Nella mente ormai definitivamente sconvolta di ogni italiano, quei pochi neuroni ancora funzionanti galleggiano sull’acqua di mare, se potessimo scoperchiare il cranio italico medio lo spettacolo sarebbe lo stesso di una scatoletta di tonno al naturale. Non si venga a dire che si tratta di amore per la natura perché allora sarebbe un amore davvero bizzarro: sono gesti d’amore i rifiuti di ogni genere abbandonati sulle spiagge? Né si venga a raccontare che è un bisogno irrefrenabile di relax dopo tanti mesi di vita stressante: è rilassante affrontare file interminabili di auto che si muovono a passo d’uomo? E’ rilassante farsi arrostire cervello e frattaglie schiacciati da una folla vociante, maleducata e spesso orripilante? E’ rilassante bagnarsi in acque pullulanti di colibatteri, mucillagine e meduse schifose? A meno che non si sia malati di mente o appena usciti dopo vent’anni di galera, la risposta è sicuramente negativa. Allora ci dev’essere qualcos’altro, un sottile e perfido meccanismo che spinge milioni di persone a convincersi che questo comportamento è naturale, che queste pratiche siano assolutamente indispensabili e assolutamente divertenti.
Cominciamo col dire che la vacanza (sia essa weekend o soggiorno più lungo) è uno status symbol, è un obbligo sociale, è una forma di integrazione ai modelli dominanti di comportamento. La vacanza è un modo per alimentare la propria autostima, il proprio bisogno di sentirsi pieni di risorse e di avere una sufficiente certezza per il futuro più prossimo. La vacanza rappresenta l’illusione più convincente di aver trascorso un anno applicati al duro lavoro: solo chi ha lavorato duramente sente il vero e irrinunciabile bisogno di un meritato riposo. La vacanza materializza le fantasie più diverse e i desideri più profondi: una vita gaudente e trasgressiva, disponibilità economica, la libera gestione del proprio tempo, un momento della vita in cui si può essere liberamente “se stessi”.
Storicamente la vacanza risale alla cultura romana, quando d’estate era opportuno sottrarsi ai miasmi della città trasformata dal caldo in una fogna a cielo aperto. Inoltre vi era una necessità di carattere economico: trasferirsi nelle “villae”, poste al centro del latifondo, per controllare le operazioni del raccolto di cereali e frutta che rappresentavano le riserve alimentari della famiglia. In questo contesto si inseriva il concetto di “otium”, del tempo cioè dedicato alla lettura, alla scrittura,alla conversazione e alla riflessione. Insomma un concetto “alto” del tempo di sospensione degli affari e della politica, in cui ci si dedicava all’agricoltura (che insieme alla guerra era l’unica attività veramente degna di un uomo) alle lettere e alla filosofia. L’aspetto conviviale e godereccio era assolutamente in secondo piano, era solo un modo per passare alcune serate con gli amici.
L’attuale “otium” italico è invece all’insegna dell’edonismo più sfrenato: le uniche attività consentite sono abbuffarsi, ubriacarsi, lasciare che i propri figli si dedichino liberamente a rompere le balle al resto dell’umanità, ballare, cazzeggiare, ostentare con arroganza la propria imbecillità. Tutto ciò nello scenario di spiagge, lidi, villaggi turistici, lungomare e promenade serale. Ci si sposta da una località all’altra perché lì fanno un gelato eccezionale oppure per andare ad abbuffarsi alla sagra del polpo, alla festa del panino tipico, al festival della birra bavarese da bere a litri su mezzo chilo di grasso a forma di wurstel. L’estate è il campionato del rutto più fragoroso, delle flatulenze più micidiali, della corsa del dissenterico. I rari momenti di soddisfazione più autentica sono quelli in cui si può raccontare con toni superbi di essersi ingozzati all’inverosimile e di aver pagato pochissimo. L’importante è sorvolare sul fatto che il giorno dopo è trascorso seduti sulla tazza del gabinetto, sudati, puzzolenti, tremanti, pensando con nostalgia alla minestrina della mamma. Quelle acque e quei lidi una volta teatro di tanta storia e bellezza sono ora un immenso gabinetto pubblico nel quale sfilano con grottesca sicumera uomini e donne felici di essere lì, di interpretare quella parte in una commedia di grande successo. L’estate prossima si replica.
1 commento:
Va da sè: ho condiviso dalla prima all'ultima parola, sorridendo. Sono per l'otium dei latini, e aborro la calca, le file, il terrorismo antiecologico e cafone. L'estate, oramai, consiste in 60 giorni di sofferenza, ma non mi ci posso sottrarre del tutto, perchè non sono sola. Mi cautelo come posso, però. ;-)
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