domenica 1 aprile 2007

AI CONFINI DELLA REALTA'



Era uno di quei pomeriggi afosi, immobili, muti, in cui neanche le mosche sono in grado di volare, in cui il tempo sembra fermo, bloccato in uno spazio irreale dai colori sbiaditi come in una vecchia stampa consumata dagli anni e dagli sguardi. Sdraiato sul letto, come in un sudario, fissavo il soffitto alla ricerca di un punto su cui fermare la vista e i pensieri che vagavano persi in quel bianco oceano di intonaco. Mi veniva in mente l’assordante frinìo delle cicale che copriva i suoni dei miei giochi solitari nella campagna rovente dei nostri meriggi di luglio. Mentre tutti cercavano di sottrarsi a quelle ore rifugiandosi nel sonno, io le sfidavo apertamente in coraggiosa solitudine. Unica compagnia alla mia ombra la facevano le lucertole verdi e marroni e le invisibili cicale. Lentamente cominciai ad apprezzare quelle ore, avevo la netta sensazione di uscir fuori dalla realtà, di trovarmi in un’altra dimensione in cui il gioco diventava più verosimile; potevo quasi toccare quei personaggi con i quali interagivo: pellerossa, banditi, pirati, cavalieri e soldati. La piccola sedia, promossa sul campo a fido destriero, si animava, nitriva, sollevava nuvole di polvere. Il sapere di non essere oggetto dello sguardo divertito degli adulti, mi dava un senso di libertà totale, potevo agire e parlare come volevo. Camminavo, felice, su quella sottilissima linea ai confini della realtà. Ma ora? Ora che sono adulto, mio malgrado, a cosa servono queste ore? Mi dicevo che forse servivano alla memoria, a rammentare il passato per organizzare meglio il futuro, a fare dei bilanci, a riflettere su se stessi. E mentre cercavo di convincermi di tutto questo, immagini confuse e veloci affioravano alla mente, avevo persino delle allucinazioni olfattive. Voci, conosciute e sconosciute, mi dicevano “tu sei noi, sei il prodotto delle generazioni passate, noi viviamo in te, noi confidiamo in te..”, “confidate in me? Mi dispiace, ma siete messi male, mi conoscete e sapete la mia vita, non posso far molto per voi e neanche per me stesso”. Cosa volevano? Le generazioni finiscono, si interrompono, prendono strade collaterali; io sono una strada senza uscita, “per favore girate subito a destra sulla complanare, è uno schifo di strada, ma almeno porta da qualche parte”. Allontanai di colpo questi pensieri dalla mia mente, andai in bagno per rinfrescarmi. Asciugandomi il viso mi guardavo nello specchio, seguivo i nuovi piccoli solchi che l’aratro del tempo andava lasciando sulla mia faccia e mi chiedevo se la mia clessidra fosse stata già girata per l’ultima volta. Le voci avevano ragione: il mio corpo ospita pezzi di altri corpi, il mio cervello contiene saperi e idee prodotti da altri, il mio spazio vitale è riempito di oggetti che sono appartenuti ad altri, il mio cuore prova amori e sofferenze che altri prima di me hanno patito. C’è qualcosa di nuovo e originale in me? A parte un’ insana, inspiegabile passione per le patatine fritte in busta, non credo proprio, mi sento un frankenstein genetico-culturale, come uno che si trova ad ereditare un mare di debiti..
Il pomeriggio volgeva al termine, il tempo aveva ripreso a camminare, le mosche a ronzare, l’aria a muoversi. La mia incursione ai confini della realtà si era conclusa, solo che non mi era rimasto in bocca quel buon sapore di vittoria che assaporavo da bambino. La mia bocca era impastata, e non solo per i troppi peperoni fritti, ero a disagio e volevo sfogarlo, trovare un modo per riconciliarmi con la vita: decisi che avrei scritto tutto questo. Come al solito mi sbagliavo, scriverlo non mi è servito a nulla.

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