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venerdì 26 giugno 2015

L'EREDITA' DI CARLO LEVI



Da quarant’anni (gennaio 1975) Carlo Levi non è più nel mondo. La grande eredità artistica, poetica, letteraria e politica  che ci ha lasciato continua tuttora a testimoniare una vitalità e un’attualità sorprendenti, poiché il solco che ha arato nella nostra cultura è ancora profondo, fertile e, sotto molti aspetti, ancora ricco di elementi su cui riflettere approfonditamente. La fortissima spinta propulsiva impartita alla cultura italiana del dopoguerra (a partire dal Cristo Si E’ Fermato A Eboli in poi) non solo non si è esaurita, ma trova in questi tempi segnati dalla disillusione, dall’incertezza, dall’esaurimento dei riferimenti simbolici e culturali del novecento, una nuova forza e un’inaspettata carica eversiva.
Come ha lucidamente scritto Franco Cassano nell’introduzione a Le Ragioni Dei Topi (Donzelli Editore, Roma, 2004, pp.XXII-XXIII):
 “ Si apre qui il punto più delicato e importante del ragionamento di Levi. Questa attenzione per il mondo naturale e per gli animali non è un desiderio di regressione, ma, al contrario, la capacità di aiutare l’uomo contemporaneo ad acquistare una cultura più ricca e più ampia, di andare al di là dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive del progresso tecnologico. L’espressione chiave, che ricorre in modo sempre più fitto in Levi, è la «compresenza dei tempi», la capacità di un’umanità così larga  da ospitare dentro di sé l’intera complessità del mondo, la molteplicità delle sue forme di vita, la ricchezza dei suoi ritmi. L’uomo moderno crede in una gerarchia e in un racconto che esaltano l’accrescimento della sua potenza, misura il progresso sulla base del grado di allontanamento della natura. Il suo etnocentrismo è potente, ma rimane angusto, come ogni forma di etnocentrismo. Ebbene, la compresenza dei tempi designa una prospettiva  totalmente diversa, di complicità e amicizia goethiana con il mondo e con tutte le sue espressioni. (…) I piccoli sacerdoti del progresso, che lo rimproverarono di nostalgie reazionarie, non erano in grado di cogliere la forza di questa proposta perché essa valicava i poveri schemi del loro catechismo. Levi fu un’anima larga, ospitale, aperta, attirata da tutto ciò che non conosceva.

Se noi siamo nelle cose con un rapporto di somiglianza, di vicinanza e comunanza, con un rapporto di amore, […] allora queste cose raggiungono in noi la loro autonomia. […] ogni volta che mi sono trovato o mi troverò di fronte a qualcosa che fino ad allora mi era sconosciuto mi viene naturale buttarmici dentro come in un rapporto reale e soprattutto […] mi viene di rapportarmi a questa cosa nuova spogliandomi di tutte le conoscenze precedenti.

(…) Il sentimento della compresenza dei tempi è quindi il sentimento di una fraternità primordiale, capace di collegare l’enorme massa delle differenze che abitano il pianeta evitando ogni fondamentalismo, l’avversione radicale per la convinzione che un solo tempo possa contenere dentro di sé la perfezione. “
Ed ecco che la nuova consapevolezza che ci sono dei luoghi dove «l’arcaico è vicinissimo e familiare, ogni cosa rimane senza perdersi […] i secoli si sovrappongono, […] e le contraddizioni divengono identità », altro non è che la rivelazione della compresenza dei tempi. Una nuova attenzione ed un’amorevole cura di questi luoghi, in cui natura e umanità convivono ancora senza soluzione di continuo, diviene una prassi necessaria (anche se non sufficiente) affinché non si perda definitivamente la dimensione di un’esistenza basata sulla relazione, sulla solidarietà, sulla coltivazione della memoria collettiva. I paesi diventano così luoghi d’elezione in cui si può contrastare attivamente la mutazione antropologica che ha prodotto l’homo consumens, caratterizzato dall’”autismo corale” che si celebra quotidianamente nei “non luoghi” consacrati al consumo parossistico. 
La compresenza dei tempi è il nocciolo duro attorno al quale si solidifica la paesologia di Franco Arminio, una scelta che parte dall’amore e dallo sguardo poetico verso questi luoghi ma che si alimenta di tensione socio-politica spingendo ad una nuova consapevolezza riguardo il destino della società e delle coscienze dei cittadini. I paesi, luoghi consegnati dalla cieca violenza dell’economia alla marginalità, diventano il centro geografico e culturale di incontro, di discussione, di creazione, di elaborazione di nuovi progetti, di cura e di raccolta degli innumerevoli giacimenti culturali e naturali che ancora in quei luoghi sopravvivono mantenendo intatto il loro senso più profondo. Ma anche, e forse soprattutto, luoghi di riflessione sulla falsa complessità della società contemporanea, luoghi di meravigliosa riscoperta dei propri sensi come recettori di poesia, luoghi in cui è possibile concepire un nuovo umanesimo e una nuova prassi. Luoghi in cui si realizza il ritorno, il nostos, il ricongiungimento con la nostra dimensione più profonda ed autentica.  

                                                                                                                Francesco Saverio Sasso

   
         




martedì 4 dicembre 2012

IL RASOIO DI OCCAM


La rasatura quotidiana non è una semplice prassi di igiene. Essa ci costringe a passare del tempo davanti ad uno specchio concentrando la nostra attenzione e i nostri gesti sul viso. Nonostante si facciano movimenti e posture stereotipate, lo sguardo fisso sulla nostra immagine riflessa induce inesorabilmente a “riflettere”, ovvero a produrre pensieri che hanno come oggetto noi stessi. All’inizio la riflessione è orientata verso la qualità della nostra immagine, la quale, molto spesso, è strettamente connessa alla qualità della cena consumata la sera prima e, in aggiunta, alla qualità dello spettacolo televisivo a cui abbiamo assistito. Per questo motivo non ci si deve allarmare eccessivamente se al mattino il nostro volto ha un colorito giallastro e due occhiaie spaventose, è normale se si è cenato con peperoni ripieni guardando alla tv “Grey’s Anathomy”….Dopo questa prima fase, iniziata malissimo e conclusa con una considerazione consolatoria tipo: “faccio schifo ma comunque sono vivo “, il pensiero comincia a carburare prendendo lentamente il volo. Affiorano alla mente gli impegni, le scadenze, i progetti della giornata e con essi la determinazione ad affrontare il nuovo giorno. Ma l’elenco, anche quello che riguarda un giorno festivo, contiene sempre qualche incombenza particolarmente fastidiosa se non decisamente odiosa. Cose tipo tagliarsi le unghie dei piedi, rinnovo dell’assicurazione dell’auto, quota condominiale, una coda sicura da fare in banca o alle poste, telefonare al proprio cognato (chissà perché i cognati sono sempre degli assoluti mentecatti), risultano talmente insopportabili da incupire anche la giornata più radiosa. E’ questo il momento in cui la nostra mente si lancia nelle più spericolate speculazioni filosofiche riproponendo i classici e intramontabili argomenti che riguardano il senso della vita, l’imprevedibilità del fato, la transitorietà dell’amore fino a giungere al dubbio sull’esistenza di Dio.   
In questo magma mentale dove considerazioni e interrogativi rimbalzano freneticamente fra il nostro viso insaponato, le piastrelle di ceramica e lo specchio semiappannato abbiamo una sola possibilità di ricongiungerci armoniosamente con noi stessi: il rasoio di Occam.
No, non si tratta di un nuovo modello di usa & getta a sei lame al titanio più tampone di preziosissimo unguento afrodisiaco. Il rasoio di Occam è un principio metodologico elaborato nel XIV secolo da un frate inglese, Guglielmo di Occam. Frate Guglielmo era un uomo molto colto, un filosofo dalla ferrea razionalità e, come tutti gli inglesi, molto pratico (non dimentichiamo che l’empirismo nasce proprio in Inghilterra). Egli era francamente stufo di dover leggere una gran quantità di teorie, le più astruse e complesse sulla natura, sull’universo e sulla creazione del mondo.
Occam pensava che così come la natura sceglie sempre la strada più breve e il sistema più semplice per costruire il proprio equilibrio così anche l’uomo deve limitarsi, nella propria speculazione, a cercare la spiegazione e la risposta più semplice. Nasce così uno dei principi fondamentali del pensiero scientifico moderno, una forma mentis che come un rasoio taglia di netto tutto ciò che è inutile, tutto ciò che complica senza una sostanziale necessità: “ Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem “ , “ Gli elementi non sono da moltiplicare se non necessario “, “ Pluralitas non est ponenda sine necessitate “, “ La pluralità non è da considerare se non necessario “ e infine “ Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora “ , “ E’ inutile fare con più ciò che si può fare con meno “. Il buon Guglielmo coglie il senso profondo delle leggi della natura e, inconsciamente, anche quelle che molti secoli dopo saranno le leggi della comunicazione anticipando l’elaborazione di concetti come ridondanza ed entropia.
L’età contemporanea così ridondante di informazione, così satura di falsi bisogni, così carica di nevrosi relazionale, così oberata da vacue mitologie, così portatrice di falsa complessità, avrebbe bisogno di qualche colpo di rasoio ben assestato. Tornare al paradigma della Natura e alle sue eterne e semplici leggi.  
Noi, nel nostro piccolo, possiamo sperimentare l’efficacia del rasoio di Occam ogni mattina davanti allo specchio, sperimentare tagliando via le schegge impazzite del pensiero bulimico ed egoista frutto della logica imperante della civiltà dei consumi. Non sarà l’economia a liberarci da questa nuova schiavitù, sarà il pensiero, la conoscenza, sarà la filosofia. Purtroppo nulla si potrà fare per liberarci dai cognati, a meno che non si ricorra ad uso improprio del rasoio…
                                                                                                     Francesco Saverio Sasso        

giovedì 26 novembre 2009

LA FELICITA'


Che cos’è la felicità? Eppure la risposta dovrebbe essere facile, l’uomo parla sempre della felicità e agisce sempre per poterla ottenere. Ma siamo sicuri di conoscerla? Descrivere la felicità non è una cosa semplice poiché essa è uno stato dell’animo, è una condizione della mente, è la sommatoria di diverse intense sensazioni. Partendo da queste ultime affermazioni potremmo dire che non è il ragionamento a condurci verso la felicità, infatti l’uomo felice non sa di esserlo quanto piuttosto sente di esserlo. Una sensazione, quindi, è quella che ci dà il segnale di averla colta o, meglio, di essere stati colti da essa. E, proprio per questo, non riusciamo a definire la felicità e siamo in grado solo di viverla. Essa, a differenza del suo opposto: il dolore, non investe alcuna problematica, non suscita alcun interrogativo, non coinvolge alcuna riflessione, non induce alcuna separazione tra il sé e il fuori dal sé, non crea alcun muro tra noi e la realtà che ci circonda. La felicità, così come il dolore, non è un sentimento etico, essa non è appannaggio del giusto come il dolore non è punizione per il colpevole. Queste due sensazioni sono assolutamente aleatorie ed entrambe sono dominate e consumate dal tempo. Quel tempo che ci fa sopravvivere al dolore e che dissolve la felicità.
Per il pensiero greco antico la felicità consisteva nella capacità, data dalla sorte e coltivata dall’uomo attraverso l’etica, di controllare il proprio destino. Per il pensiero giudaico-cristiano, invece, la felicità non è di questo mondo e viene promessa da Dio a tutti coloro che, in questo mondo, saranno capaci di guadagnarla attraverso l’esperienza del dolore.
Nella società contemporanea la felicità assume un senso individualistico legato al godimento privato, al raggiungimento di uno stato di benessere vincolato alla disponibilità di denaro, di merci e di rapporti umani affettivamente e fisicamente appaganti. Questo concetto si presta molto ad attribuire alle circostanze e al mondo esterno la responsabilità di un eventuale fallimento: fattori come l’amore, la salute, il denaro, l’età e l’aspetto fisico, non sono sotto il nostro totale controllo. E quindi il fallimento diventa causa esterna a noi, indipendente dalla nostra volontà. In sostanza abbiamo assunto modelli e stereotipi imposti dalla società di massa e li abbiamo introiettati a tal punto da ritenerli elementi fondamentali su cui costruire il nostro traguardo di felicità. Ma siccome si tratta di modelli difficili da raggiungere per la maggioranza degli uomini, ecco che subentra il dolore, la frustrazione, l’ansia, insomma uno stato permanente di sconfitta che arriva ad intaccare persino la salute psico-fisica.
Eppure se è vero che la felicità è una sensazione di comunione, di armonia, di non dualismo tra noi e ciò che ci circonda, appare piuttosto chiaro che questa dimensione passa attraverso il nostro stato di equilibrio e di accettazione di quello che siamo. Il primo passo verso la felicità dovrebbe proprio essere quello verso la conoscenza di noi stessi, dei nostri limiti e delle nostre qualità. Il passo successivo dovrà riguardare l’affermazione e la realizzazione di sé, quello che vuol dire Nietsche quando scrive:”Diventa ciò che sei”. Seguendo questa strada ci accorgeremo che raggiungere l’armonia fra noi stessi e ciò che ci circonda è possibile, così come è possibile vivere bene se adottiamo la misura dei nostri limiti e delle nostre capacità. Il giusto mezzo si trova fra il disprezzo del mondo del pensiero giudaico-cristiano e l’edonismo senza limiti del pensiero contemporaneo. Se, da una parte, saremo capaci di amare questo mondo (perché nell’eternità ci annulliamo) e dall’altra riusciremo a rifiutare i feticci della società dei consumi, forse risulterà più facile rivalutare noi stessi per quello che siamo e per quello che possiamo fare e immaginare. Raggiungeremo la felicità? Non lo so, ma certamente avremo costruito un percorso di vita con un senso, senza rimpianti né frustrazioni, aperto ad accogliere tutte le opportunità che il Caso ci vorrà offrire. E se capiterà di sentirci felici vivremo quegli istanti con tutta la pienezza che ci sarà consentito di avere, così un giorno, quel gran giorno, potremo dire: sono stato felice.

mercoledì 25 novembre 2009

UNA SECONDA VITA


A volte accade che la nostra esistenza subisca una serie di eventi che la spingeranno a cambiare radicalmente. Le cause possono essere varie: dal fallimento matrimoniale alla perdita del lavoro, dalla scomparsa improvvisa di una persona cara all’incontro imprevisto con un Testimone di Geova, dalla vincita miliardaria all’innamoramento con Sharon, al secolo Pedro da Rio de Janeiro.
Accade che la nostra vita cambia completamente il suo corso per imboccare una strada che mai avremmo pensato di dover percorrere. In sostanza ci troviamo a vivere una nuova, una seconda vita. Lo shock dovuto al cambiamento subentra solo dopo aver realizzato che le cose non stanno più come prima, solo dopo aver razionalizzato la presenza di una nuova situazione. Fino a quel momento si continua a vivere come prima andando inesorabilmente a sbattere la testa contro le nuove architetture, fisiche e mentali, che hanno immediatamente sostituito le vecchie. Così, dopo aver collezionato un bel numero di bernoccoli e di ginocchia sbucciate, entriamo nel nuovo ordine di idee che la nuova realtà ci impone. E qui diventa dura, dura perché lo shock del nuovo ci fa sentire irrimediabilmente impreparati, ansiosi di non riuscire a gestire questa seconda vita. Non poco incide il senso di fallimento che ci trasciniamo appresso dalla nostra prima esperienza e che fa da freno a ogni nostro tentativo di muoverci in questa nuova realtà. A volte capita che lo shock conduca ad una sorta di ubriacatura dovuta alla sensazione di essersi liberati dai vecchi pesi e contrappesi e che ci assalga una specie di delirio di onnipotenza che potrebbe portarci dappertutto: dalla frequentazione di massaggiatrici più o meno professionali al ritiro spirituale presso i frati scolopi, da serate in locali per scambisti a tristissime crociere per singles.
Invece quello di cui realmente avremmo bisogno è tutt’altro; dovremmo cercare di incanalare l’energia sprigionata dallo shock in un percorso di ricostruzione di noi stessi, alla ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova dimensione nella quale poterci riconoscere e poter riprendere questa nuova esperienza di vita. Il passato, se da una parte è incancellabile ed è patrimonio della memoria, dall’altra esso non è una prigione, esso è solo un capitolo chiuso di una storia che continua e che potrebbe riservare delle grandi e piacevoli sorprese. L’errore che assolutamente non si deve commettere è quello di cercare di replicare situazioni e comportamenti che invece fanno parte della precedente conclusa esperienza. Aprirsi al nuovo non deve essere una tattica ma una strategia, ci vuole il coraggio di rischiare, di mettersi in discussione, di cambiare opinione, di respirare la vita a pieni polmoni. Dobbiamo accettare il cambiamento come una nuova opportunità che ci viene offerta dal Caso e/o dalla Fortuna, il rifiuto non ha nessun senso poiché non ci riporterà indietro nel tempo e nello spazio né ci consentirà di continuare a vivere in modo equilibrato in una situazione che è oggettivamente mutata. Buttarla sulla iattura trascendentale è segno di ignoranza e d’impotenza psichica, il corso della Natura è ricco di cambiamenti e mutazioni in cui la vita e la morte si alternano in una sequenza casuale e imprevedibile così come ancora più imprevedibile è la nostra sorte. Dichiarare forfait prima che i giochi siano chiusi fa parte delle nostre opzioni ma bisogna fare questa scelta solo dopo aver seriamente tentato altre strade e senza aver dato troppo peso né all’orgoglio (ma chi ci crediamo di essere?) né a quei legami di sangue che possono essere una ricchezza ma anche una robusta catena che ci tiene legati ai ceppi dell’egoismo e al concetto tribale della famiglia. Una seconda vita può voler dire la scoperta di un altro mondo, di altre persone, di un altro modo di vivere, di un altro modo di vedere le cose. Ma soprattutto può voler dire scoprire una parte di noi stessi che prima era rimasta nascosta, scoprire delle nostre qualità che non sapevamo di possedere. Assecondare il cambiamento ci porta ad essere in sintonia con la vita e meno legati ai vincoli del pregiudizio, certo non è comodo cambiare abitudini e stile di vita soprattutto quando non si è più giovani, ma il disagio dei nuovi problemi è sempre preferibile allo spettacolo di noi stessi agonizzanti tra vecchie abitudini coperti dalle piaghe purulente del ricordo di ciò che è svanito.
“La vita appartiene ai viventi, e chi vive deve essere preparato ai cambiamenti”. James Joyce

sabato 14 novembre 2009

NOWHERE


Una delle prerogative della maturità (che non sopravviene a scadenza fissa ma si conforma e si consolida in un lasso di tempo variabile da persona a persona) è il desiderio di vivere momenti di pausa e di riflessione. Nasce, cioè, la necessità di disporre di un luogo e di un tempo da dedicare a sé stessi, in solitudine. Potrebbe sembrare normale che dopo un periodo di attività lavorativa svolta a ritmo sostenuto, se non addirittura frenetico, si cerchi una pausa rilassante o per lo meno distensiva. Ma non è questo il genere di cosa a cui ci si vuole riferire. Si tratta piuttosto di cercare e trovare un luogo particolare in cui potersi dedicare a riflettere, a osservare la natura, a leggere, o più semplicemente a far nulla.
La necessità è quella di poter operare una sorta di “svuotamento” della testa, degli occhi e delle orecchie da suoni, immagini e pensieri che normalmente albergano nei nostri sensi e per i quali si prova specie di nausea, di fastidiosa assuefazione. Si è giunti a uno stato di autorepulsione, di rifiuto di sé stessi, di negazione affettiva, di ribrezzo relazionale. Questo è il momento in cui si rompe il nostro equilibrio dinamico e bisogna fermarsi per ricostruirlo. Girare per le stradine di campagna, passeggiare lungo la spiaggia o camminare a zonzo sotto la pioggia, non importa, quel che conta è avere la percezione di essere in nessun luogo (rende meglio il vocabolo inglese nowhere), ovvero di fluttuare in una diversa dimensione spazio temporale in cui le cose più semplici e naturali ci appaiono nuove rivelazioni. Il volo di un gabbiano, il frenetico incedere di una formica, la ritmica oscillazione di uno stelo d’erba percosso dalla brezza, l’odore della pioggia, il profumo di un ragù assonnato sopra un’esile fiammella, la dignità di un cane randagio accucciato sul marciapiedi. Tutto ci sembra nuovo, diverso, degno di interesse. In questi momenti riaffiora la curiosità del bambino, assaporiamo lo stupore dell’uscir fuori da sé e sentirsi in comunione col resto del mondo. I pensieri si accumulano affastellati sul ciglio della bocca e vorremmo recitare una vecchia poesia imparata da piccoli, non riusciamo a fermare i ricordi e il formarsi di nuove fantasie. A volte, in questi istanti, si prova la repentina sensazione di sentir scorrere il flusso vitale, di aver toccato per un attimo il volto della Vita. Sono ore preziose che non devono essere corrotte da invasioni telefoniche o altri tipi di contatti con il teatro quotidiano che recitiamo ormai passivamente da troppo tempo. Per l’essere umano è estremamente riduttivo misurarsi esclusivamente con le squallide cose che riguardano la sopravvivenza e i rapporti sociali: l’uomo ha bisogno di confrontarsi con qualcosa di più grande e complesso, con qualcosa di metafisico. Il problema è che la società dei consumi tende a spacciare per metafisico qualsiasi bisogno indotto, per cui acquistare un jeans da centocinquanta euro non è più (come dovrebbe essere) un atto scellerato bensì diventa un passo avanti nella processione degli eletti, per non parlare del delirio di onnipotenza che crea il possesso di una borsa di Vuitton e che dire di chi ha giurato di aver visto la Madonna dopo aver inforcato un paio di mutande di Dolce & Gabbana? Per moltissimi, giovani soprattutto, il nowhere preferito è la televisione e in particolari programmi come Uomini e Donne: davanti al piccolo schermo vedono sfilare allegri e allegre scansafatiche dal vocabolario approssimativo, tutti convinti che la vita consista nello scambiarsi monologhi da cerebrolesi e dibattersi nel dubbio di chi trombare e/o da chi farsi trombare nelle prossime ventiquattr’ore. Questi ragazzi (tra l’altro anche un po’ stagionati) fino a non molti decenni fa avrebbero potuto solo intraprendere le onorate carriere di squillo, impiegate Standa, sciampiste, facchini, fattorino di pizzicagnolo, radiatorista e magliaro. Ora possono finalmente aspirare a divenire ospiti di discoteche e night club, modelli per reclamizzare la nuova pizzeria da Ciro e, solo per i più belli e dotati, fare televendite di pentolame e materassi. Un bel passo avanti non c’è che dire. E i giovani spettatori? A costoro cosa accadrà? Alcuni ingrosseranno le file dei casting televisivi, gli altri, la maggior parte, continuerà la vita di sempre tra tivù e manicaretti di mammà e quando verrà il momento di voler fare una passeggiata romantica sussurreranno: verresti con me a fare un’esterna?
Stando così le cose, a noi maturi pellegrini del nowhere non restano molte speranze. Così se accadesse di trovare un luogo veramente speciale, la tentazione di rimanervi potrebbe essere troppo forte. Lasceremmo una famiglia in preda alla disperazione? Ma no, dopo lo show della De Filippi passerebbero tutti a vedere Chi l'ha Visto?

giovedì 12 novembre 2009

SOGNI


I sogni, i desideri, le speranze, tutto quello che vogliamo e avremmo voluto avere, essere, provare e sentire. Una serie di cose irrealizzate, non accadute, mai esistite. Una buona parte di noi è fatta anche di queste cose. Ce le portiamo dentro come un vecchio bagaglio sdrucito, sempre più pesante, sempre più ingombrante. Non riusciamo a mollarlo all’angolo di una strada o sotto una vecchia panchina, non riusciamo a dimenticarlo dentro la cassapanca o in fondo al buio ripostiglio di casa. Spesso ci ripromettiamo di non pensarci, di concentrarci solo sulla realtà, sui problemi concreti, sulle cose da fare per tirare avanti, ma inevitabilmente ogni qualvolta ci fermiamo, anche per un attimo, a guardarci dentro lo troviamo lì accanto a noi e non possiamo fare a meno di aprirlo, pur sapendo ciò che contiene. È curioso, ma noi siamo anche quello che non siamo mai stati. La nostra vita è fatta di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che avremmo voluto vivere: un insieme indistinto di essere e di non essere, un vortice di ricordi e di rimpianti, un album fotografico pieno di vuoti alternati a immagini di ciò che siamo stati. Il flusso del tempo ci lascia il ricordo di gioie e sofferenze, di occasioni perse, di presenze dissolte, di frasi non dette, di errori inconfessati, di dolori inferti, di pentimenti nascosti nel buio delle notti insonni. Ci si accorge, più o meno lentamente, che la vita è sempre una partita persa, persa con noi stessi, persa con chi ci circonda, persa con la Storia, persa con il trascendente. A mano a mano che l’esperienza si accumula si percepisce la nostra unicità, quell’unicità che ci fa sentire soli, incompresi e, spesso, disperati. È un supremo egoismo, il nostro, che ci spinge a voler gridare più forte degli altri, a pretendere di essere capiti e commiserati, ad anteporre la nostra sofferenza a tutto il resto del mondo.
Quei sogni che, nella prima parte della nostra vita, sono stati fonte di speranza e di energia, improvvisamente, dopo aver compiuto il giro di boa, diventano una zavorra insopportabile, fantasmi orrendi che ci perseguitano, incubi incancellabili, segni indelebili di un fallimento. A volte tutto ciò sfocia in una sorta di delirio che porta a proiettare i propri fantasmi su figli, nipoti o figure assimilate producendo danni incalcolabili. Quello che non si è compreso è che ci troviamo di fronte a una vera e propria nemesi dell’essere umano. Non esiste, né è mai esistito, uomo che non abbia avuto il suo bel bagaglio di fallimenti e sogni irrealizzati. Alla nostra morte si aggiunge sempre un corollario di rimpianti e di rimorsi; sul ciglio di quel cratere che ci risucchierà nel nulla perdiamo ogni senso della realtà e, soprattutto, ogni senso dell’humour, che invece dovrebbe trionfare: non riusciamo a realizzare che di lì a poco saremo sottoposti alla legge di Lavoisier e i nostri atomi e le nostre molecole si combineranno in altro modo per finire in cibo per cani, lenticchie, ortica e, perché no, in un bel cheeseburger di McDonald’s. In fondo è proprio questo il senso della vita, un continuo rimescolamento molecolare, un riciclaggio totale, un fantastico destino in base al quale non si può escludere che una infinitesima componente del nostro corpo non sia la stessa di una cozza pescata e mangiata nel diciottesimo secolo. I sogni no, quelli sono esclusiva farina del nostro sacco, essi ci appartengono in modo esclusivo e unico. Dobbiamo quindi tenerceli stretti, anche quando cominciano a far male e a essere pesanti da trascinare. Essi sono la prova che abbiamo vissuto, abbiamo pianto, abbiamo amato, insomma i sogni sono il segno del nostro pensiero pulsante. Peccato che finiscano con noi senza lasciare traccia, qualcuno riesce a metterli per iscritto nella speranza che possano sopravviverci e possano interessare qualcun’altro a venire. A fronte di questi pochi fortunati c’è una folla sterminata di anonimi i cui sogni sono andati perduti insieme alle loro esistenze. Per costoro, umanità senza nome, rimangono i luoghi in cui sono vissuti, il selciato che hanno calpestato, i tramonti e le albe che hanno visto rimanendo per un attimo folgorati dalla bellezza e commossi dalla malinconia. Dalle grandi speranze alle più piccole ambizioni, fanno tutte la stessa fine, hanno tutte lo stesso epilogo. Misterioso e definitivo.
La vita non è un sogno, ma sono i sogni a dare un senso alla vita.

lunedì 31 agosto 2009

SCACCO AL RE




Il corso della vita è stato molto ben sintetizzato dalla più famosa partita a scacchi della storia del cinema (visibile anche come sfondo del titolo di questo Blog): la partita tra il Cavaliere e la Morte nel film di Ingmar Bergman “Il Settimo Sigillo”.
Si tratta di una partita che potrà essere più o meno lunga ma il cui esito è sempre lo stesso.
Ogni giocatore ha l’obbligo di andare sino in fondo col massimo impegno poiché, sebbene sappia sia una partita persa, la durata del gioco corrisponde alla durata del tempo che gli è dato da vivere. Capita che durante la partita il Giocatore abbia dei momenti in cui è in vantaggio sulla Morte, sia per numero di pezzi che per conquista di posizione. E ciò, metaforicamente parlando, rappresenta i momenti positivi della vita in cui il benessere materiale e spirituale è al suo apice. Altresì succede che, durante la partita, il Giocatore subisca il vantaggio della Morte, momenti in cui egli sia sotto scacco e debba pensare affannosamente a difendersi. Naturalmente in questo frangente si può parlare di situazione critica dove la minaccia si materializza in uno stato di debolezza psico-fisica. Questa è la fase in cui predomina lo sconforto, il pessimismo, il senso di fine imminente, il fallimento di azioni, idee e comportamenti. Ciò produce un profondo scoramento e alimenta quel senso di rinuncia alla lotta a causa della certezza dell’esito finale della partita; emerge potente la tentazione di abbandonare, di farla finita con quello stillicidio angosciante, ma anche per questa decisione ci vuole coraggio, quel coraggio che produce decisioni e azioni irreversibili, definitive. Ma, nonostante tutto, rimane una certezza: questa è l’unica partita che ci è stata concessa, non ve ne saranno delle altre e se è vero, come è vero, che è una partita persa, l’unica possibilità che ci resta è quella di fare di tutto affinchè sia una partita unica, memorabile, una partita di cui si parlerà e che potrà essere d’esempio per coloro che verranno: perdere sì, ma con stile, conservando l’onore fino in fondo. Non importa la tattica che si adotta, che sia un gioco di rimessa finalizzato a durare il più a lungo possibile o che sia un gioco d’attacco che punti a uno scontro breve ma estremamente intenso, lo scopo deve essere sempre e solo quello di vender cara la pelle.
La vita è avara di felicità e prodiga di sofferenze, non solo, essa si svolge, quasi sempre, fino al compimento di un paradosso estremo: quando arriva il momento in cui siamo più preparati a viverla, proprio allora essa finisce. Da ciò dobbiamo dedurre che la vita non ci insegna nulla, dato che quell’esperienza maturata nel tempo finirà con noi in pasto ai vermi e all’oblio. Non solo. Anche i rapporti affettivi subiscono questa sorte, poiché ci si mette del tempo a capire di aver scelto sia la persona sbagliata che quella giusta e tutto questo tempo è stato sottratto irreversibilmente sia alla ricerca di un’altra persona che all’approfondimento della conoscenza della persona giusta. Per non parlare dei figli. Nel giro di un battibaleno, quando ancora negli occhi abbiamo l’immagine di un esserino inerme bisognoso di cure, ci troviamo di fronte un essere umano adulto pronto a giudicarci senza pietà. E poi ancora, nel giro di una manciata d’anni assistiamo sbigottiti alla decadenza del nostro corpo, spesso preludio del più grave rimbecillimento.
Tutto ciò accade, inesorabilmente, mentre continuiamo a giocare la nostra partita e a perdere pezzi importanti della scacchiera. Un’antica leggenda narra che sia stata proprio la Morte a inventare il gioco degli scacchi, per poter rendere più divertente un lavoro tutto sommato piuttosto noioso. Tutti gli altri giochi li ha inventati l’uomo introducendo una componente che negli scacchi manca: l’alea.
Il Caso o la Fortuna rappresentano l’intervento positivo del Trascendente nelle cose umane, una sorta di benedizione che incorona il vincitore. L’illusione di poter vincere da parte di chi nasce perdente e muore, perduto.

martedì 7 luglio 2009

I CASI DELLA VITA


Siamo realmente consapevoli di quanto e di come la nostra vita dipenda dal caso? Non è facile dover ammettere che, nonostante si faccia di tutto per programmare e prevedere, la nostra esistenza è dominata dal caso, da eventi e circostanze che accadono al di là e al di fuori di ogni nostra più precisa e attenta previsione. Eppure se c’è un grande insegnamento della storia, esso consiste proprio nella decisiva parte che svolge l’imprevedibile nelle vicende umane. Le grandi svolte della storia sono quasi sempre dovute a circostanze e fatti casuali e, scendendo nel particolare, la stessa cosa accade nella nostra piccola vita. Vittorie, sconfitte, vincite, perdite, incontri, scontri, divisioni, unioni, rivelazioni, disillusioni, felicità, disperazione, serenità, insoddisfazione, fede, sfiducia, sono tutti stati dell’animo e condizioni oggettive che devono quasi tutto alla misteriosa imponderabilità degli eventi che accadono intorno a noi. Non mi riferisco solo alla natura, all’economia, alla politica e alle dinamiche sociali, che già da sole si danno un bel da fare per complicarci la vita, ma anche e, direi, soprattutto alle piccole grandi cose con le quali ci misuriamo quotidianamente: reazioni istintive che ci portano ad aprire un cassetto che non è il nostro, dimenticanze che rendono leggibile la nostra vita privata, lapsus che tradiscono l’esistenza di piccoli grandi segreti, la solita, e mai abbastanza vituperata, “buccia di banana” sulla quale si prende uno scivolone che potrebbe avere conseguenze micidiali. Naturalmente l’imponderabile non è sempre tinto di nero, ci sono aspetti del caso assolutamente positivi come fortune impreviste, amori piovuti dal cielo, rivelazioni metafisiche, la morte prematura della suocera o improvviso attacco di mutismo irreversibile della propria moglie, e, a proposito di questi ultimi due casi, c’è chi è andato scalzo a Lourdes per molto meno. Poi ci sono i piccoli casi fortunati come la cena Fidapa della moglie (che è poi in realtà il raduno annuale delle “Maialine ‘56” ovvero pizza e superalcolici alla discoteca “Romantica” con strip tease finale di Mister Monster, culturista dalle esagerate protuberanze pubiche) che determina, dopo l’entusiasmo iniziale, uno stato catalettico dovuto all’indecisione sul da farsi. In questi casi le chances a disposizione non sono poi tante: dal rimorchio della battona alle intemperanze alcoliche con vecchi amici, dalla caccia in qualche locale per singles alla ricerca di qualche vecchia fiamma ancora non rottamata. Ma l’esito è ancora più tragico: un panino di mortadella, birra, divano, pantofole e mutande, vecchio film con Cary Grant alle prime esperienze. E quando lei rientrerà a tarda notte, tutta bevuta e infoiata come una foca sulla deserta banchisa, si troverà davanti uno spettacolo deprimente: lui che russa emanando afrori da cantina sbracato e sudato come un vecchio, grasso tricheco. Le donne decise al divorzio chiamano tutto ciò crudeltà mentale, ma in realtà si tratta della crudeltà della vita, ovvero manifestazione della vera essenza della vita: sogni, desideri, aspettative che si scontrano violentemente contro il muro dell’oblio fatto di mortadella, di vecchi films e di occasioni mancate.
D’altro canto è più che legittimo chiedersi se valga la pena darsi tanto da fare quando poi accade qualcosa che manda all’aria ogni progetto. Vale la pena investire nella cultura del proprio figlio quando poi lui deciderà di fare l’assicuratore? Serve a qualcosa uno stile di vita oculato e dedito a risparmio quando un broker, dall’altra parte dell’oceano, userà i vostri soldi per fuggire ai Caraibi? Ha un senso parlare di rispetto delle istituzioni quando il capo del governo si porta in Parlamento il proprio avvocato, il proprio commercialista, il proprio segretario, la propria amante e il proprio callista? E’ giusto parlare ai giovani di impegno, di serietà, di applicazione, per costruire un futuro in cui avranno una pensione da fame?
Forse non è poi così sballato il desiderio di vivere alla giornata, in attesa che il caso determini il flusso della vita, sia in positivo che in negativo: aspettare che muoia qualche ricco parente, aspettare di fare una grossa vincita, aspettare di fare un matrimonio ricco, aspettare di incontrare l’anima gemella. Naturalmente nell’attesa può accadere di incontrare qualche vecchio creditore deciso a spaccarvi la faccia, di incontrare un’auto guidata da un ubriaco o, peggio, di incontrare un Testimone di Geova, allora sì che il vostro caso è proprio disperato.

sabato 17 gennaio 2009

IMPERATIVI CATEGORICI


Osservando la vetrina di un grande negozio di calzature mi è venuto in mente Immanuel Kant. Non si è trattata di una visione, poiché in fatto di visioni, estasi e allucinazioni varie ho una discreta esperienza; l’ultima, in ordine di tempo, è avvenuta poco prima di Natale: mentre fissavo con malcelata ingordigia la vetrina di un principesco pizzicagnolo in cui troneggiavano monoliti di formaggio, rosari di salsiccie, delikatessen di ogni genere e varie anatomie del porco transustanziate in sicure promesse d’estatica voluttà, ho visto un santo (probabilmente San Daniele) sbucare da dietro un enorme provolone facendomi gesti di entrare in negozio. C’è chi si è dato all’ascetismo per molto meno…Ma torniamo a Kant, chi avesse reminiscenze liceali ricorderà i due imperativi categorici espressi dal filosofo tedesco: quello relativo all’etica e quello relativo all’estetica. Secondo Kant dentro ognuno di noi è presente, innato, un sentimento che ci consente di riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, così come è presente un altro sentimento che è in grado di cogliere la bellezza, di discernere tra l’arte e la non arte, di riconoscere il valore estetico delle opere dell’ingegno e delle manifestazioni della natura. Guardavo la vetrina piena di scarpe dell’ultima collezione, tutte integralmente o parzialmente di vernice, sembravano le mitiche scarpe di coppale della prima comunione, una roba disgustosa. Riflettevo: se il mio imperativo categorico estetico sta avendo dei conati di vomito come mai vedo clienti soddisfatti e, guardando per la strada, vedo giovani ragazze e ragazzi che sorridono alla vita con i piedi verniciati tipo flatting da rimessaggio nautico? E’ evidente che il povero Immanuel non poteva prevedere il fenomeno della società dei consumi, della pubblicità, del condizionamento strisciante, del subdolo dominio delle menti. La società si è sviluppata in una direzione per la quale l’imperativo si è trasformato in rincoglionimento categorico. Il cucciolo dell’uomo sin dai primi mesi di vita viene sottoposto ad un accurato lavaggio del cervello fino a diventare, con gli anni, un autentico ebete ruspante pronto a consumare qualsiasi cosa e a desiderare tutto quello che gli viene pompato nel cervello. Assurge a bello qualsiasi cosa sia condivisa con gli altri, l’omologazione diventa eleganza. L’oggetto del piacere è sempre lo stesso, la differenza di classe sociale si manifesta attraverso i suoi cloni commerciali che hanno prezzi diversi: si parte dal top, l’originale e quindi il più costoso, per passare poi alle imitazioni fino a giungere al contraffatto, ovvero alla patacca più o meno verosimile. Il passo dall’omologazione del gusto all’omologazione del pensiero è breve. Poiché la merce non rappresenta solo se stessa ma anche un modo d’agire e di pensare (l’hamburger, ovvero il fast food, è un’ideologia) ne consegue che i grandi consumatori agiscono e pensano in modo molto simile, che hanno gli stessi valori di riferimento e che la loro etica sia ormai etica comune. E qui crolla il secondo imperativo categorico del povero Kant: quali sono i valori etici della società dei consumi? Ovviamente il denaro, l’unico mezzo che consente di consumare. E se il consumo è vita, il denaro è la linfa vitale, senza della quale c’è solo la morte civile. Si badi bene, qui non si parla di miseria (che pure affligge i tre quarti del pianeta), cioè di quella condizione che rende drammatica la sopravvivenza, bensì di quella capacità economica che consente di essere consumatori, di quella disponibilità di denaro che permette di soddisfare tutti i bisogni indotti: la moda, la comunicazione, i gadget elettronici, l’auto, la moto, le vacanze, la palestra, il solarium, i locali notturni, l’alcol e la droga. Chi deve fare a meno di tutto ciò è un morto civile, un paria. Il denaro è quindi la misura di tutte le cose, il bene supremo, la vera potenza. Un’etica basata sulla morale del denaro genera comportamenti e azioni che sono al di fuori del problema del bene e del male, poiché il male non è solo quello contemplato dalle leggi e l’onestà non è caratteristica dell’incensurato. Mi sono intristito davanti a quelle scarpe ignobili e ho diretto lo sguardo verso una boutique, i manichini vestivano dei giacconi sportivi con il cappuccio ornato da pellicce di cane e di gatto, una signora guardava i manichini con un certo interesse tenendo al guinzaglio un piccolo cane. Il cane ha guardato la vetrina poi ha girato la testa verso di me fissandomi con un’aria sollevata, sono sicuro che in quell’istante ha pensato: “Certo che ho avuto un bel culo!!”. “Un modo “canino” di esprimere un concetto filosofico sulla casualità”, avrebbe detto il prof. Kant.

venerdì 5 settembre 2008

LA STAGIONE DEGLI ZOMBIES


Apprendiamo dai giornali e dalla televisione un rinnovato interesse della chiesa cattolica sulla questione della morte cerebrale e le relative conseguenze dell’espianto di organi. Si tratta di quella penosissima situazione in cui il cervello cessa ogni attività mentre cuore e polmoni continuano a svolgere la loro funzione. In questi casi la diagnosi è: “clinicamente morto”, ovvero senza più alcuna speranza che il cervello possa riprendere a funzionare regolarmente. La chiesa cattolica, che di morti se ne intende parecchio, avendo per lungo tempo praticato con successo la tortura, ha deciso che è giunto il momento di mettere in discussione il concetto di “morte cerebrale” e la conseguente liceità di espiantare organi da donare a pazienti compatibili. Secondo questi campioni della fede fino quando c’è un cuore che pulsa c’è vita che scorre e la vita è sacra. Poco importa se il disgraziato “clinicamente morto” è molto più simile ad uno zombie che ad un essere umano, egli è “moralmente vivo” e noi “eticamente corretti” non abbiamo alcun diritto di far cessare il battito di quel povero e indomito cuore. Incomincia così una nuova mobilitazione di faccendieri dell’Opus Dei, di baciapile incalliti, di bizzoche d’assalto e di leccapiedi del clero che farà molto discutere e produrrà fiumi d’inchiostro e specials televisivi. Non c’è da meravigliarsi, siamo in un paese in cui il diritto è un’optional di fronte alla potenza della chiesa cattolica, un paese in cui dichiararsi laico convinto corrisponde all’emarginazione, un paese che non avrà mai il coraggio di praticare fino in fondo la separazione fra stato e chiesa. Prepariamoci dunque al tormentone morale del prossimo fine anno, a sfilate televisive di vecchi e nuovi prelati accanto a vecchi e nuovi politici baciaculo.
Se poi l’argomento si rivelerà particolarmente gradito al grande pubblico non mancheranno ardite operazione di marketing televisivo tipo: serial tv “Uno Zombie in Famiglia”, reality show “L’Isola dei Morti Viventi”, concorsi musicali “Z Factor, Zombies alla Ribalta” e programmi comici “Morti dal Ridere” ecc. Per i programmi più squisitamente giornalistici potremmo assistere ad un nuovo format di Guido Vespa “Tomba a Tomba” al quale Mentana replicherà con “Sepulcrum” e persino La 7 non rimarrà a guardare proponendo “A Qualcuno Piace Morto”. Scenderà in campo anche Maria De Filippi con “C’è una Bara per Te” e “Amici Putrefatti”. Maurizio Costanzo, invece, continuerà col suo show ma finalmente potrà dichiarare pubblicamente di essere morto dieci anni fa mentre si scofanava una porzione quadrupla di fettuccine alla romana. Anche Prodi potrà finalmente fare “outing” confessando di essere il figlio illegittimo di Francis il Mulo Parlante. E Berlusconi? Il suo si rivelerà essere un tragico caso umano, da ormai un ventennio il suo elettroencefalogramma è piatto a causa di uno shock: la visione di Mike Bongiorno nudo che insegue Luciana Turina in perizoma.
Aspettiamo fiduciosi questa nuova ventata di moralità rivalutando finalmente il primo zombie della storia: Lazzaro, il quale diverrà la nuova icona di questa stagione di progresso funerario.
Per i morti autentici del Terzo Mondo ci sarà ancora da aspettare e sperare in qualche incubo terrificante che giunga a notte fonda nelle segrete stanze del Vaticano.


martedì 15 luglio 2008

L'ARTE DELLA FUGA


Si tratta dell’ultima opera di Bach, rimasta incompiuta alla sua morte (1750), sicuramente il monumento più alto e perfetto della tecnica della composizione contrappuntistica. Non a caso nell’Arte della Fuga manca ogni indicazione sullo strumento da impiegare, si tratta di musica pura, assoluta, eseguibile da ogni possibile strumento. Molto si è scritto sulla complessa simbologia dei numeri contenuta in questo capolavoro e non c’è dubbio che Bach, pitagorico e neoplatonico, ma soprattutto intimamente cristiano, non abbia lasciato nulla al caso. La Fuga è una composizione musicale ad una o più voci di tipo polifonico in cui il tema viene trattato secondo la tecnica del contrappunto. Essa deriva dalla composizione barocca detta Ricercare, in cui ad una esposizione tematica segue una complessa elaborazione (in origine improvvisata) tendente ad esplorare tutte le possibilità armoniche e melodiche possibili. La Fuga è una forma musicale composta seguendo quelle che erano le tecniche della retorica classica (inventio, dispositio ,elocutio, quest’ultima in musica diventa executio) e in effetti la sua morfologia riflette, in qualche modo, il discorso parlato, l’orazione. Il fascino magico della Fuga consiste proprio in questo: un discorso musicale che racconta non storie o teorie ma solo ed esclusivamente emozione. Viene narrato un percorso affettivo che si dipana attraverso il suono organizzato evocando immagini e sensazioni sepolte dentro di noi. La Fuga è allontanamento, straniamento, ripiegamento su se stessi: una sorta di luccicante imbuto sonoro che attraversiamo per passare in un’altra dimensione. Da alcuni l’esperienza estetica dell’ascolto è stata accostata ad una esperienza trascendentale, da altri, invece, è stata paragonata ad un’esperienza ipnotica, in ogni caso, l’ascolto attento della Fuga è stata giudicata come un esempio concreto del forte potere evocativo della musica.
La dimensione temporale dell’esperienza musicale (nella quale si viene risucchiati durante l’ascolto) assume un aspetto fondamentale nella Fuga, è come percorrere un labirinto di specchi in cui realtà ed illusione si fondono per creare una nuova dimensione spazio-temporale. La Fuga assomiglia molto al nostro modo di pensare. Di solito le nostre riflessioni partono sempre da un primo pensiero dominante, da esso se ne dipartono altri, secondari, e mentre continuiamo a considerare quello dominante non possiamo fare a meno di sviluppare i secondari, il tutto contemporaneamente. In questo modo analizziamo compiutamente l’oggetto dei nostri pensieri, considerando allo stesso tempo i diversi aspetti della questione e le sue effettive ed ipotetiche conseguenze. Data una certa questione principale, ce ne allontaniamo per riflettere sulle altre collegate ad essa congetturando i diversi sviluppi, valutando vantaggi e svantaggi, ma senza mai perdere di vista la questione principale. Il nostro cervello è sempre in fuga, i nostri pensieri sono in uno stato di perenne dinamismo circolando fra l’analisi, il ricordo, la sintesi e la valutazione. Potremmo dire che neuroni e sinapsi siano sempre impegnati in un’attività contrappuntistica, dove cioè esiste indipendenza ritmica e dipendenza armonica fra le varie unità. E in questo, ancora una volta, troviamo un’interessante analogia col linguaggio, o meglio, col discorso. Un discorso teso a comunicare un concetto complesso e strutturato con diverse subordinate allo scopo di chiarire il concetto stesso in modo inequivocabile.
Il pensiero e il discorso vengono sintetizzati dal suono, così invece di idee ascoltiamo musica, ovvero pura emozione, e la comprensione diventa partecipazione emotiva , centrifuga affettiva, archetipi sonori, memoria acustica, estasi visionaria. Come per tutte le arti, la fruizione non presuppone alcuna conoscenza specifica ma solo un genuino desiderio di lasciarsi sorprendere e portare lontano, alle sorgenti della nostra affettività. Lo stupore e la gioia della scoperta ci lasceranno liberi di godere di una memorabile fuga verso i luoghi dell’interiorità in cui il tempo non esiste.

sabato 10 maggio 2008

INCONTRI COL SUICIDIO


“In quell’isoletta del Mediterraneo , assai prima dell’alba, sul sentiero che mi portava verso la parte più scoscesa della scogliera, facevo qualche riflessione da portinaio in vacanza: se quella villa fosse mia la dipingerei color ocra, farei mettere un altro steccato, ecc. Nonostante la mia idea, mi aggrappavo alle inezie: contemplavo le agavi, bighellonavo, eludevo con qualche digressione l’urgenza del mio proposito. Un cane si mise ad abbaiare, poi mi fece festa e mi seguì. Nessuno, che non l’abbia provato, può immaginare il conforto che vi dà un animale quando viene a tenervi compagnia, se gli dei vi hanno voltato le spalle.”
Queste parole di E.M.Cioran sono maledettamente vere. E chiunque abbia frequentato quella categoria di pensiero attinente all’inutilità della vita e alla necessità del suicidio, lo può capire.
Pensare di essere in grado di uccidersi, di poter liberamente disporre dell’atto autodistruttivo è, sotto molti aspetti, confortante. L’idea di poter agire in questa prospettiva in qualsiasi momento infonde un senso di pace, di serenità: è il sapere di avere la soluzione sotto mano, sempre a disposizione. Anzi, verrebbe da pensare che se non si avesse quest’idea ci si ammazzerebbe subito…L’esistenza sarebbe veramente insopportabile. Accade anche di essere coinvolti in particolari momenti in cui il desiderio del suicidio è fortissimo e istantaneo, come quando ci si è lasciati trascinare ad un concerto Heavy Metal o siamo stati invitati a mangiare da McDonalds. Ma non bisogna mai cedere a questi impulsi, l’autentico aspirante suicida deve riflettere e soppesare, deve crogiolarsi nell’idea, poter assaporare quei rari momenti in cui è possibile essere soli e in cui la vita ci sembra abbia un senso. Agire d’istinto è pericoloso, può significare farla finita indossando una maglietta Dolce & Gabbana e allora il nostro gesto apparirebbe ovvio, quasi obbligato. Oppure cosa penserebbe la gente se qualche ora prima avessimo acquistato una ricarica di 50 euro per il cellulare o una confezione famiglia di profilattici? Quello che è un gesto morale diverrebbe squallida testimonianza dell’alienazione telefonica o addirittura ultimo gesto di un impotente cronico.
Si potrebbe obiettare che ad un serio aspirante suicida importa ben poco quel che accadrà e che si dirà dopo. Sarebbe così se nessuno si occupasse della nostra prematura dipartita, invece saranno in molti a parlarne e a trasformare un atto privato in un pubblico evento. Naturalmente molto dipende dalla tecnica che si è deciso di adottare per uccidersi. Infilare le mani in un tostapane immersi nella vasca da bagno o fare harakiri mentre si precipita dal dodicesimo piano non passeranno certo inosservati. Bisogna evitare gesti plateali ed essere molto discreti, c’è chi ha scelto la visione nostop di tutte le puntate di Beautiful, chi si è nutrito per un mese esclusivamente di uovo Kinder, chi ha mangiato per una settimana solo ricette de La Gazzetta Del Mezzogiorno, chi ha preferito ascoltare nostop l’opera omnia di Riccardo Cocciante, chi si è rinchiuso in una scarpiera piena di Adidas usate. Originale il caso di colui che volle farla finita mangiando solo pollo Amadori, non è morto ma ha cambiato sesso.
Fare attenzione all’abbigliamento, predisporre un sobrio abito scuro è la cosa migliore, finire nella bara in bermuda arancioni e maglietta pubblicitaria “Pizzeria da Gianni” non è dignitoso.
Una raccomandazione importante, bisogna evitare di lasciare lettere e biglietti d’addio, rate insolute, conti non saldati dal pizzicagnolo, filmetti piccanti, appuntamenti dal callista.
La nostra dipartita, se deve essere perfetta, non deve lasciare strascichi né incombenze varie: tutto deve essere a posto e sistemato. Se dovesse avanzare del denaro convertitelo in travel check, l’ultimo viaggio potrebbe essere lungo e scoprire alla fine di essere finiti al cospetto di Allah con in tasca un panino di mortadella sarebbe molto imbarazzante.

giovedì 24 aprile 2008

ESSERE E NON ESSERE


L’inintellegibile è la regione in cui l’anima, finalmente, respira. Nicolas Gomez Davila


Comprendere, capire, giustificare, razionalizzare. Sempre di più, nella vita odierna, facciamo ricorso, o almeno tentiamo, a queste capacità di interpretazione della realtà. Nel passato, tutto ciò che era incomprensibile era tinto di magico, di metafisico. Il mistero era oggetto di profondo rispetto, se non di autentico timore. Oggi l’inspiegabile nasconde un trucco, è fenomeno fraudolento di cui è necessario diffidare. L’uomo contemporaneo ha una fede cieca nel proprio raziocinio fino al punto di credere alla scienza come a una religione. Naturalmente ci sono circostanze in cui capire è assolutamente indispensabile: analisi cliniche, estratti conto bancari, etichette degli alimenti, ricevute fiscali da gioielliere del ristorante sotto casa, cartelle esattoriali, lettere d’amore dalla Bielorussia, istruzioni del nuovo telefonino. Poi ci sono le cose che hanno a che fare con l’animo umano e qui, capire, può risultare molto utile, sia nel rapporto con il prossimo che con sè stessi. Ma quest’avventura conoscitiva può riservare delle sorprese poco piacevoli, penetrare l’animo umano comporta scoprire recessi in cui il dolore è profondo, in cui giacciono segreti inconfessabili, in cui la linea fra normalità e follia è molto sottile. Aprire il proprio animo profondo a colui nel quale si ripone fiducia e affetto può risultare positivo e liberatorio ma significa anche trasferire un carico di sofferenza che, a volte, può rivelarsi estremamente pesante da sopportare. L’essere umano è in grado di comprendere appieno le problematiche che derivano dai rapporti e dagli affetti, ma tutto ciò che è all’interno di quella stanza buia nel fondo di noi stessi è molto difficile da capire. Il dolore congenito, la sofferenza di conoscere se stessi, la scoperta della sostanziale solitudine della condizione umana, sono esperienze comuni a tutti, ma sempre molto dure da superare.
Nel fondo dell’animo di ognuno di noi è custodito una sorta di vaso di Pandora, esso contiene verità e fantasie estremamente intime e personali, debolezze e piccole perversioni che non vorremmo mai manifestare, esperienze segrete che non condivideremmo con nessuno. Pretendere che ci sia qualcuno in grado di capire le nostre profondità è assurdo, è invece possibile trovare qualcuno disposto ad ascoltare (senza garanzia di comprensione) con la calma e la pazienza direttamente proporzionali al costo della parcella. Gli psicoterapeuti servono a questo: si fanno carico del nostro dolore più profondo, accettano di guardare nel pozzo oscuro e maleodorante in fondo a noi; non è un bello spettacolo, a volte una seduta di psicoterapia della durata di mezz’ora può essere più devastante di un’intera puntata di “Francis. Il Mulo Parlante”.
In passato il sapere di essere portatori di qualcosa di misterioso ed inspiegabile era considerato un Segno, una sorta di irruzione dentro di noi del Metafisico. Era la prova di come gli dei guidassero le nostre azioni secondo un disegno a noi sconosciuto; l’essere portatori dell’Arcano era una forma di partecipazione diretta al mondo magico, era la compenetrazione dell’uomo nelle due dimensioni, quella fisica e quella metafisica. Naturalmente è una cosa positiva che la scienza ora ci consenta di capire che certi Arcani erano, in realtà, calcoli alla cistifellea o accumuli di gas intestinali, ma, in molti altri casi, rimangono quei Segni che la scienza ufficiale liquida come sindromi psico-somatiche o disordini da stress ma che, a volte, altro non sono che il male di vivere, inadeguatezza, non equilibrio fra il sé e il fuori dal sé, sentirsi in preda al fascino del Non Essere. Problemi esistenziali, questioni amletiche, senso di inutilità. Premesso che, a volte, il tutto si risolve cambiando pizzicagnolo, è importante tenere presente che il Non Essere è privo di significato senza la presenza dell’Essere. Decidere di scegliere il Non Essere è una prerogativa dell’Essere, in quanto azione dettata dalla volontà. Il dilemma amletico, affascinante e poetico, è falso poiché ammette la conoscenza delle due opzioni; in realtà non possiamo conoscere il Non Essere né possiamo limitarci a definirlo come semplice negazione dell’Essere. E’ come andare in gelateria ed ordinare un cono al gusto cioccolato e non cioccolato: corriamo il rischio di vederci serviti un gelato al gusto cioccolato e minestrone…La questione è indecidibile.

mercoledì 23 aprile 2008

EGUAGLIANZA

“In che cosa un cane può essere obbligato a un cane, e un cavallo a un cavallo? In niente. Nessun animale dipende dal suo simile. Ma l’uomo, avendo ricevuto quel raggio di luce divina che si chiama ragione, quale ne è il risultato? Che egli è schiavo in quasi tutta la terra.
Se questa terra fosse ciò che sembrerebbe dover essere, vale a dire se l’uomo vi trovasse ovunque sussistenza facile e sicura, e un clima adatto alla sua natura, è chiaro che sarebbe stato impossibile a un uomo asservire un suo simile. Fate che questo globo sia abbondantissimo di frutti salutari; che il clima che deve contribuire alla nostra vita non sia tale da darci malattie e morte; che l’uomo non abbia bisogno di altra casa e altro letto di quello che hanno i daini e i caprioli; e vedrete che i Gengis-Kan e i Tamerlano non avranno altri servitori che qualche loro figlio che sia così dabbene da aiutarli nella vecchiaia.
In uno stato come quello di natura, del quale godono tutti i quadrupedi, i rettili e gli uccelli, l’uomo sarebbe felice quanto loro, dominio e servitù sarebbero una chimera, un’assurdità che non verrebbe in mente a nessuno: perché cercare dei servitori, quando non si ha bisogno di alcun servizio?
Se poi venisse in mente a qualche individuo di naturale tirannico e di braccia robuste di farsi uno schiavo, così per capriccio, del suo vicino meno forte di lui, la cosa risulterebbe impossibile: l’oppresso sarebbe a cento leghe di distanza prima che l’oppressore potesse prender le sue misure.
Tutti gli uomini sarebbero dunque necessariamente uguali, se fossero senza bisogni. Son le miserie connaturate alla nostra specie, che obbligano un uomo ad obbedire a un altro. La vera disgrazia non è l’ineguaglianza, ma la dipendenza. Non conta niente, che un uomo si faccia chiamare Sua Altezza, e l’ altro Sua Santità: quel che è duro è servire l’uno o l’altro.” Voltaire, Dizionario Filosofico.
Secondo Voltaire lo stato di necessità, in cui versa perennemente l’uomo, è la causa della schiavitù e quindi è la causa della nascita e dell’affermazione di quel sistema di soppressione della libertà di un intero popolo quale la tirannia e la dittatura. Al di là del modo (quasi sempre violento) con cui i dittatori conquistano il potere e delle pratiche (sempre violente e sanguinarie) con cui sopprimono l’opposizione, c’è una fase in cui il tiranno deve conquistare il consenso della popolazione o di una parte di essa per conseguire una certa stabilizzazione del potere. Quel che ne consegue è mostruoso: grandi quantità di persone che diventano complici attivi di un disegno sanguinario senza fine. Ricordiamo, a mò d’esempio, le persecuzioni degli ebrei in Europa e in Ussr, il genocidio degli Armeni, la “rivoluzione culturale” in Cina, i massacri in Angola, in Sud Africa, Uganda, Senegal, Sudan, Libia, la persecuzione degli sciiti in Iraq, dei bosniaci nei Balcani, i massacri in Cambogia, Viet Nam e Corea, i desaparecidos in Argentina e in Cile.
Milioni di morti e un’eredità di odio razziale e cieca violenza che non accenna a diminuire. Negli ultimi decenni sono emerse nuove figure tiranniche: capi religiosi musulmani (imam e ayatollah) che predicano l’odio religioso e ordinano violenze terroristiche e suicide contro gli infedeli. Il loro potere religioso è talmente carismatico e penetrante da riuscire a farsi obbedire ciecamente da enormi quantità di persone sparse per il pianeta.
Novità a parte, i vecchi e i nuovi tiranni sostengono di parlare e di agire nel nome di un interesse superiore e in questo modo riescono a coinvolgere e a convincere grandi masse di adoratori e di complici. La tirannia è lo specchio della perversione umana. Essa dimostra quanto di più aberrante e odioso possa compiere l’uomo sull’uomo. E non è esagerato chi, credendo nel Male come entità metafisica, lo identifica con esso. Ma, al di là dei punti di vista, restano i fatti, i genocidi, le torture.
Ancora adesso la tirannia imperversa in Cina, a Cuba, in molti stati africani, in Sud America, nell’estremo oriente e in Asia. Ancora adesso c’è gente perseguitata e uccisa da altra gente nel nome di miseri interessi, di leggi liberticide, di motivazioni pseudo-religiose, di odio razziale.
Processare e condannare il tiranno è giustizia incompiuta, restano i complici, la massa di persone che lo hanno seguito e hanno applicato le sue direttive. Tutti coloro che hanno partecipato all’orgia folle e sanguinaria: costoro non solo non pagheranno mai, ma li vedremo in prima fila ad assistere al processo chiedendo la pena capitale.



venerdì 18 aprile 2008

IGNORANZA E CONOSCENZA


"Nel corso della vita umana, l’attenzione dovrebbe essere rivolta alle cose piccole e l’aspirazione alle cose grandi; la conoscenza dovrebbe essere circolare, mentre l’azione dovrebbe essere diritta; le capacità dovrebbero essere molte, mentre gli interessi dovrebbero essere pochi.
Essere attenti alle cose piccole significa prendere in considerazione i problemi prima che essi sorgano, prevenire le sventure preoccupandosi delle cose minute e sottili, e non cedere ai propri desideri.
Aspirare alle cose grandi significa unire le miriadi di nazioni ed i differenti stili di vita in una stessa via, facendo da perno alla grande varietà di giudizi sul giusto e sullo sbagliato.
Parlare di una conoscenza circolare significa che essa non ha inizio né fine, ma che fluisce in ogni direzione, scaturendo inesauribilmente da una fonte profonda.
Parlare di azione diritta significa essere retti in maniera incrollabile, rimanere puri e imperturbabili, mantenere l’autocontrollo quando si è in angustie e non cedere all’autocompiacimento quando si ha successo.
Avere molte capacità significa essere competenti sia nel campo della cultura sia in quello della difesa e fare esattamente ciò che è giusto sia durante l’azione che in riposo, sia nell’assumere che nel lasciare, sia nell’esentare che nel coinvolgere.
Avere pochi interessi significa afferrare ciò che è essenziale allo scopo di comprendere il molteplice, attenersi al minimo per governare il massimo e vivere quietamente per svolgere le attività.
Coloro che stanno attenti alle piccole cose controllano le cose sottili, coloro che aspirano alle grandi cose prendono tutto a cuore, coloro che hanno una conoscenza circolare comprendono ogni cosa, coloro che svolgono un’azione retta compiono ogni cosa, coloro che hanno molte capacità dominano ogni cosa e coloro che hanno pochi interessi minimizzano ciò che possiedono.
Per quanto riguarda l’atteggiamento dei saggi verso il bene è che non ci sia niente di troppo piccolo da non poter essere aiutato; e per quanto riguarda il loro atteggiamento verso l’errore è che non ci sia niente di troppo piccolo da non poter essere corretto.
La conoscenza degli uomini ignoranti è ovviamente piccola, eppure le cose che essi fanno sono molte. Pertanto le loro iniziative alla fine falliscono. E’ facile migliorare il corso degli eventi con una corretta educazione, che porta inevitabilmente al successo; mentre è difficile migliorare il corso degli eventi con un’erronea educazione, che porta inevitabilmente al fallimento. Abbandonare ciò che è facile e porta sicuramente al successo, e scegliere ciò che è difficile e porta sicuramente al fallimento, è il prodotto dell’ignoranza e della confusione."

LAO-TSU

domenica 13 aprile 2008

LA FLESSIBILITA'


"Coloro che seguono la Via sono deboli di ambizione, ma forti in azione; le loro menti sono aperte e le loro risposte sono calibrate. Chi è debole di ambizione è flessibile e cedevole, pacifico e quieto; si cela nel non-possesso e afferma di essere inesperto. Tranquillo e spontaneo, quando agisce è sempre tempestivo.
Pertanto la nobiltà deve fondarsi sull’umiltà, l’elevatezza sulla bassezza. Usa il piccolo per contenere il grande, rimani al centro per controllare l’esterno. Sii flessibile, ma sii fermo, e non ci sarà potere che non potrai sconfiggere, nessun nemico che non potrai soverchiare. Rispondi ai cambiamenti, valuta i tempi, e nessuno potrà colpirti.
Coloro che vogliono essere fermi devono diventarlo con la flessibilità; coloro che vogliono essere forti devono diventarlo con la debolezza. Accumula flessibilità e sarai fermo; accumula debolezza e sarai forte. Osserva che cosa gli uomini accumulano e saprai chi sopravviverà e chi perirà. Coloro che vincono il più debole con la forza si troveranno in difficoltà quando incontreranno i loro pari.
Coloro che vincono il più forte con la flessibilità hanno un potere incommensurabile. Dunque, quando un esercito è rigido perisce, quando un albero è forte si spezza, quando la pelle è dura si strappa; i denti sono più duri della lingua, ma sono i primi a cadere.
Perciò la flessibilità e la cedevolezza sono le amministratrici della vita, la durezza e la forza sono i soldati della morte.Voler essere primi è la via della sconfitta; non voler essere primi è la fonte del successo.
Attenersi alla Via per favorire l’evoluzione degli esseri vuol dire guidare per regolare chi segue e seguire per regolare chi guida. Che cosa significa? Significa che in tal modo non si perdono i mezzi per regolare il popolo, quei mezzi che il popolo stesso non può controllare.
Seguire significa combinare gli eventi in modo da armonizzarli con i tempi. I continui cambiamenti non permettono di fermarsi: se agisci in anticipo, vai troppo avanti; se agisci troppo tardi, perdi l’occasione.
I giorni e i mesi passano, e il tempo non si trastulla con gli uomini. Ecco perché i saggi apprezzano di più un po’ di tempo che una grande gemma. Il tempo è difficile da trovare e facile da perdere.
Pertanto i saggi svolgono i loro affari in accordo con i tempi e compiono le loro opere in accordo con le risorse. Si attengono alla via della purezza e sono fedeli alla regola del femminile. Quando agiscono e rispondono ai cambiamenti, essi seguono sempre e non precedono. Flessibili e cedevoli, sono calmi. Pacifici e rilassati, sono sicuri. Coloro che attaccano il grande e abbattono il forte non possono contendere con loro. "
LAO-TSU

mercoledì 19 marzo 2008

LA COERENZA


La coerenza è una qualità del fare, è intimamente collegata all’etica ed è elemento di riconoscimento di un rapporto ottimale fra etica e morale. In sostanza, la coerenza è la misura del rapporto fra il pensare (e il dire) e il fare. Una persona coerente è colei che applica al proprio comportamento le proprie convinzioni, indipendentemente dal giudizio che si possa dare su di esse. Coerente è il sacerdote che vive rispettando attivamente le sacre scritture e tenendo fede al proprio giuramento senza cedere alle tentazioni; coerente è il mafioso che vive e agisce secondo il proprio codice sanguinario e omertoso senza cedere di fronte alla possibilità di migliorare la propria condizione carceraria o addirittura di evitare completamente la pena inflitta. Eppure questi due casi sono completamente diversi: nel primo la coerenza identifica il bene, nel secondo il male. Ne consegue che la coerenza, in sé, non è rivelatrice di doti morali bensì di un comportamento etico lineare e non contraddittorio. Ma siccome nel linguaggio comune il termine “coerenza” ha assunto un’accezione positiva, nel primo esempio usiamo questo termine, nel secondo preferiamo parlare di ostinazione, di cieca perseveranza, di disumanità, di rifiuto del pentimento. Naturalmente fra questi due estremi si pone tutto il resto dell’umanità: persone normali, né santi né delinquenti. In questo spazio piuttosto ampio possiamo trovare gli elementi della lotta perenne tra la linearità e la contraddizione. Ed eccoci all’antitesi della coerenza: la contraddizione. A ben guardare, la contraddizione è una delle caratteristiche peculiari dell’essere umano, sia che lo si consideri da solo, sia in gruppo. Anzi, sotto un certo aspetto, potremmo dire che l’uomo è per definizione l’unico essere vivente contraddittorio. Questa condizione schizoide lo ha spinto nell’evoluzione della civiltà a darsi delle regole, delle leggi, dei tabù, dei codici di comportamento sociale che neutralizzassero almeno le contraddizioni più evidenti. L’animale uomo, capace di ardite elaborazioni del pensiero astratto e complesse speculazioni trascendentali, è l’unico essere vivente che uccide e tortura, che pratica l’odio e la vendetta. Questa è la somma contraddizione umana. Ed ecco perché noi umani ammiriamo la coerenza. La amiamo talmente da ritenere negativamente comportamenti come il cambiare opinione, modificare il proprio punto di vista, rivedere il proprio pensiero. Molto spesso coloro che cambiano idea vengono considerati voltagabbana, ipocriti, doppiogiochisti. In realtà non sopportiamo quel piccolo tarlo che ronza nel nostro cervello creando una fastidiosissima insicurezza, una incapacità ad aderire completamente alle nostre stesse convinzioni. Le nostre certezze, i nostri valori, la fede in qualcosa o in qualcuno, non sono mai assolute (anche quando crediamo sinceramente che sia così) e una parte di noi è sempre impegnata a verificarle, a riconsiderarle e rimisurarle. Il problema nasce quando dobbiamo agire, quando cioè dobbiamo testimoniare pubblicamente delle nostre convinzioni; in questo caso entrano in gioco diversi elementi molto spesso in attrito fra loro: seguire l’istinto, temere il giudizio, paura di danneggiare persone vicine e lontane, terrore di apparire contraddittori, rischiare di danneggiare se stessi. L’estrema e tragica complessità che ci distingue fra i viventi invoca ad alta voce un comportamento semplice e lineare, una presa di posizione inequivocabile, una scelta di campo precisa. E quando ciò si verifica ecco che ci troviamo al cospetto di una persona coerente, tanto di cappello. Attenzione però, poiché la coerenza ha due facce: quella libera e coraggiosa di chi non vuole nascondersi e quella mummificata e immobile di chi sfida, presuntuoso, gli eventi della vita. Sul primo caso è stato scritto da Paul Bourget:”Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare come si è vissuto.” Per il secondo, Boris Pasternak scriverà:”Bisogna essere di un’ irrimediabile nullità per sostenere un solo ruolo nella vita, per occupare un solo e medesimo posto nella società, per significare sempre la stessa cosa.” La coerenza può essere orientata, indifferentemente, verso il cambiamento o verso la conservazione; essa, in sé, non è una qualità ma solo un segnale del comportamento. Anche nelle arti, la coerenza non è una qualità, essa definisce meglio uno stile, chiarisce il rapporto fra forma e comunicazione, ma non è il luogo magico in cui si verifica il “corto circuito” dei sensi. Ciò che colpisce, che affascina, è una coerente contraddizione. Un naturale accostamento di contrari, uno stupefacente ossimoro dei sensi, un segno di ineffabile umanità.


domenica 9 marzo 2008

L'UOMO ELEGANTE


Ancora una volta sono rimasto affascinato da un vecchio film con Fred Astaire e Ginger Rogers (Cappello a Cilindro, 1935), eppure l’avrò visto almeno una mezza dozzina di volte. Quale sarà stata la dote di Fred Astaire (al secolo Frederick Austerlitz, 1899-1987) che immancabilmente riesce a colpire lo spettatore? L’eleganza, senza dubbio. Astaire non è elegante solo quando danza, egli fa dell’eleganza uno stile che non si limita al personaggio sulla scena ma investe tutta la sua persona. Fred Astaire è il prototipo del moderno uomo elegante: sensibile, autoironico, di grande forza interiore, leale, pacato ma ricco di guizzi fisici e di intuizioni sottili. Egli, più che un ballerino sempre pronto a “fisicizzare” le tensioni emotive, è un danzatore, sempre in intima sintonia col ritmo della vita che lo circonda, egli passa dalla vita alla danza e dalla danza alla vita con una naturalezza strabiliante, egli non “invade” lo spazio con le sue figurazioni, piuttosto lo attraversa, lo abbraccia, lo avvolge, lo curva, sempre con quell’ironica leggerezza e sobria follia che solo lui riesce a manifestare così bene con il corpo. La danza di Fred Astaire è una metafora della vita, per vivere pienamente è necessario “entrare” nel ritmo vitale e seguirlo fino in fondo senza remore né perplessità, solo così si diventa parte della pulsazione dell’esistenza e si è in grado svolgere un ruolo nella rappresentazione umana. Oserei dire che il suo approccio alla danza è zen, ovvero entrare in intima sintonia col flusso vitale per cogliere l’essenza più profonda dell’esistenza. Questa tesi è confortata dall’analisi della coppia Astaire/Rogers: sebbene il ballo di coppia, storicamente e antropologicamente, abbia un’indiscussa valenza sessuale, i nostri due protagonisti in azione sono quasi asessuati. La loro danza di coppia perde la sensualità potenziale per approdare a un confronto “energetico”. Fred e Ginger non trasmettono tensione erotica bensì tensione energetica. Loro incarnano i due poli energetici vitali, il mascolino e il femminino, lo Yin e lo Yang, il positivo e il negativo. Anche in questo caso, la coppia è una metafora dello scontro/incontro fra le due diverse energie che sono alla base della vita. Astaire e Rogers riescono a rappresentare con irripetibile eleganza il movimento e la pulsazione della vita, sia biologica che sociale.
Ma tutto ciò ha ancora un senso? Qual è il valore dell’eleganza, dell’ironia, dell’autocontrollo e della discrezione in una società come la nostra, basata sull’eccesso e sull’arroganza ignorante ad ogni costo? Vogliono farci credere che l’eleganza sia qualcosa che riguardi solo la moda, invece l’eleganza è la manifestazione (e qui entra l’estetica) di uno stato interiore, di una dimensione profonda dell’essere. L’eleganza è emanazione di interiorità, è lo specchio percepibile di un atteggiamento culturale dove il fare e l’apparire corrisponde all’essere. A questo proposito forse la definizione più riuscita di eleganza ci viene da Jean-Paul Sartre:”L’eleganza è quella qualità del comportamento che trasforma la massima quantità di essere in apparire”. E nonostante si tratti di una qualità riconosciuta e definita sin dall’antichità (si pensi a Petronio, definito da Tacito:”arbiter elegantiae”), essa raramente è stata oggetto di significative riflessioni filosofiche, almeno fino a giungere ai pensatori romantici. La società contemporanea impone, per ragioni di mercato, l’ideologia dell’omologazione in cui l’immagine non è, e non deve essere, il riflesso del sé bensì la supina accettazione di schemi imposti dall’estetica dominante (le griffes, ad esempio); l’immagine è una maschera, un topos mimetico, firmata dai padroni del pensiero dietro la quale nascondere la propria autentica identità. In questa situazione è sempre più difficile essere eleganti e, sempre più spesso, si diventa molto simili ai fantocci esposti nelle vetrine, ieraticamente fasulli, quando non penosamente ridicoli. Con ciò non si vuole rispolverare l’epopea del dandy, così perfettamente rappresentata da Oscar Wilde, ma solo proporre una riflessione sulla reale consistenza degli odierni luoghi comuni: vi sembra elegante l’immagine di un bel tomo in mutande griffate steso in una barca? Guardando con attenzione, l’immagine rievoca quella di un aspirante suicida in attesa della tempesta marina. Forse si tratta di una proiezione inconscia di una tragedia contemporanea: se sono qualcuno solo perché indosso queste mutande allora è meglio farla finita, mutatis mutandis, meglio morire ora che aspettare l’epoca dei cloni umani griffati. Addio Fred, ultimo baluardo dell’autentico gusto di vivere, eroe epico della guerra perduta contro l’omologazione.

sabato 8 marzo 2008

ODORI


L’olfatto è un senso estremamente delicato e complesso. Esso ci consente di assumere informazioni sulla realtà estremamente preziose e insostituibili da parte degli altri sensi. Il cervello non solo elabora le informazioni ma le classifica e le archivia formando, nel tempo, una vera e propria memoria degli odori, la quale si rivela indispensabile nella vita quotidiana. Ma c’è qualcosa di più, la memoria degli odori ha una funzione evocativa molto sviluppata e attiva un canale di comunicazione estremamente efficiente con la nostra sfera affettiva. Capita a tutti di imbattersi, magari dopo tanto tempo, in odori che ricordano esperienze del passato, ebbene, quest’incontro non attiva solo l’emersione di vecchi ricordi strettamente legati all’odore, accade che il rinnovo dell’esperienza olfattiva inneschi un meccanismo di evocazione dell’affettività vissuta in quelle circostanze. Ad esempio il profumo dei biscotti appena sfornati dalla nonna non solo rinnova quella passata esperienza ma ci fa rivivere il sentimento di gioia che provavamo da bambini e, magari, quel senso di profonda letizia e complicità che lega per sempre nonni e nipoti. La stessa cosa si può dire di un profumo usato da una persona che abbiamo molto amato, la rievocazione olfattiva dà un senso di materializzazione non solo della persona amata quanto, soprattutto, del sentimento stesso che ci legava a lei. Naturalmente tutto ciò vale anche nel senso contrario, ovvero quando certi odori sono collegati ad esperienze negative e dolorose; indipendentemente dalla qualità dell’odore, la sofferenza ad esso collegata ci fa rivivere quei brutti momenti che vorremmo dimenticare per sempre. Se, da una parte, il progresso scientifico e tecnologico è riuscito a sintetizzare artificialmente qualsiasi tipo di odore, dall’altra, è ancora molto lontano dall’impiegarlo nei sistemi di riproduzione della realtà. Proviamo ad immaginare che effetto avrebbe su di noi la visione di un film in cui si potesse fruire in egual misura di immagine, suono e odori. Sicuramente sarebbe un’esperienza travolgente. La classificazione degli odori è subordinata alla soggettività (dove per soggettività intendiamo il gusto personale e le passate esperienze olfattive), per taluni l’odore di vernice fresca è molto piacevole, per altri l’odore del sigaro toscano è abominevole. Poi c’è il sacro mistero di alcuni deliziosi formaggi: entrando in una cantina dove sono conservate forme di gorgonzola o di taleggio avrete la stessa sensazione olfattiva di uno spogliatoio di militari dopo una marcia forzata di dieci chilometri. Degustare, invece, una fetta dei suddetti formaggi è un’esperienza trascendentale. Per quanto riguarda la pelle umana, la questione è piuttosto complessa; ogni persona ha un suo odore particolare che, solitamente, è determinato dalla risultante di diverse componenti: profumo del sapone, eventuale deodorante e/o eau de toilette, odore personale causato da ereditarietà, stato ormonale e umorale, pratiche igieniche e tipo di alimentazione (molte sostanze assunte col cibo vengono eliminate insieme alla traspirazione della pelle). Poi ci sono gli odori-simbolo che appartengono a intere comunità, odori che rappresentano attività umane primarie per l’identificazione della comunità stessa: per le strade ci è ancora concesso di poter riconoscere l’odore dei panifici, quello dei frantoi oleari, delle cantine, dei forni che cuociono conto terzi, dei mercati, ecc. Nel privato è inconfondibile l’odore di borotalco che ci ricorda i neonati, il caldo profumo della minestra domestica, la provocazione domenicale del ragù, le lenzuola pulite del proprio letto, l’odore di inchiostro del quotidiano appena sfogliato, la lettiera del gatto da ripulire, il tabacco, il caffè domestico, l’odore di agrumi che ricorda il periodo natalizio e quello di mandorle tostate così largamente impiegate nei dolci del sud.
Fortunatamente ancora oggi, passeggiando per i centri storici dalle vie strette e tortuose, è possibile cogliere odori inconfondibili che testimoniano della continuità nel tempo di atti, preparazioni e consuetudini che ci fanno sentire profondamente legati ad un’antica civiltà materiale da riscoprire e valorizzare: dal profumo del bucato appena steso a quello della frittatina per imbottire il panino; dalla zuppa di pesce serale alla carbonella del braciere condita da bucce d’arancio per “deodorare” l’ambiente; dai taralli e focaccia appena sfornati all’intenso odore di legno della bottega del falegname. Tutto ciò non durerà a lungo, queste preziose tracce olfattive sono destinate a scomparire per sempre lasciando spazio alla puzza del traffico e dell’immondizia sempre più abbondante.

sabato 23 febbraio 2008

MOTO DISCENDENTE


L’altra notte dei gatti in calore mi hanno svegliato. Ascoltando i richiami d’amore ho pensato che è possibile considerare una sorta di fisica vettoriale dell’affettività dove la direzione del moto affettivo indica e qualifica l’oggetto d’amore. Nella mia esperienza di vita è mancato quel moto discendente che è tipico dell’amore per i figli. Per una serie di motivi, che non ha senso spiegare ora, ho rinunciato all’esperienza della paternità, ho rinunciato a quel carico di responsabilità e di amore che ci si assume mettendo al mondo dei figli. Potrei dire, e sono in molti a pensarlo, che così ho evitato una quantità enorme di grattacapi, di delusioni, di responsabilità gravi; invece dico che così mi sono negato una parte molto importante della vita e dell’esperienza umana. E siccome non l’ho fatto nel nome di un bene superiore o di una categoria morale, non ho alcuna giustificazione che possa avere un senso compiuto. Le cose sono andate così, il solito eterno miscuglio fra libere scelte ed eventi casuali: un’ibrida risultante tra il volere e l’accadere. Molto più prosaicamente, è accaduto come quando si perde l’ultimo treno della giornata: un pò per pigrizia, un pò per sfortuna, un pò per stupidità.
Ascoltando i gatti ho pensato che sicuramente fra due mesi il circondario sarà allietato dalla presenza di quattro o cinque gattini in più. Una cosa naturale, semplice, che si ripete da milioni di anni. Per noi umani non è così, la procreazione deve essere programmata e controllata a garanzia di una qualità della vita migliore, sia per i genitori che per i figli. Questa è civiltà. La stessa civiltà che deriva direttamente dall’antica pratica romana di gettare i neonati malati e deformi giù dalla Rupe Tarpea. La stessa civiltà che mi ha consentito di non avere figli.
Attualmente assistiamo ad un dibattito piuttosto agguerrito sulla procreazione, sulla bioetica, sull’aborto. Ma ho l’impressione che tutto ciò rifletta più delle posizioni politiche ed ideologiche che non un’autentica tensione morale verso queste problematiche. Ritengo sia molto più scandaloso lasciare morire di fame e di stenti milioni di bambini del terzo mondo che preoccuparsi della fine di embrioni sovrannumerari. Rivendicare l’umanità e i diritti di cellule ancora indifferenziate piuttosto che lottare affinché bambini in carne e ossa possano nutrirsi, essere curati e allevati dignitosamente, è osceno. Vuol dire limitare la questione alla sola dimensione prenatale, una volta nati che vadano pure alla malora. Tutto ciò è mostruoso ed evidenzia la cattiva coscienza di coloro che sostengono di battersi per la vita. Con i soldi impiegati per creare e mantenere quel circo Barnum del Comitato di Bioetica si sarebbe potuto salvare da morte certa una discreta quantità di bambini del terzo mondo. Col denaro che si intende stanziare per pagare assistenti sociali e psicologi allo scopo di far cambiare idea alle donne che ricorrono alla legge 194 si potrebbero salvare delle vite umane reali, già esistenti e sofferenti per la mancanza del minimo indispensabile. Io penso che la lotta per la vita non sia una squallida disquisizione filosofico-teologica. La lotta per la vita è sottrarre materialmente alla morte persone in carne e ossa, esseri umani disperati e torturati dalla fame. La Bioetica è la nuova frontiera dell’inquisizione, è l’ennesimo tentativo di secolarizzare la spiritualità, è un progetto di pesante ingerenza nella ricerca scientifica e nel diritto di autodeterminazione dell’uomo. Ogni bambino ha diritto a vivere e crescere , ogni donna ha diritto di disporre di se stessa, ogni essere umano ha diritto di morire con dignità. Non ci possono essere deroghe al diritto naturale. Pare che la stessa Chiesa dimentichi un fatto fondamentale: Cristo ha scelto di morire. Questa volontaria scelta sacrificale è un fatto storico inconfutabile che, al di là della fede, conferma la libertà dell’uomo di scegliere il proprio destino sulla propria incontestabile responsabilità. Quando Piergiorgio Welby ha rivendicato il proprio diritto a non essere più curato e assistito ha deciso di percorrere la stessa strada di Cristo, il quale rinunciò a difendersi affinchè si compisse il suo destino.