Visualizzazione post con etichetta Storia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Storia. Mostra tutti i post

sabato 29 dicembre 2007

IL PENSIERO SCOMODO DI GAETANO SALVEMINI


Cinquant’anni fa, il 6 Settembre 1957, si spegneva a Sorrento Gaetano Salvemini, storico, meridionalista e antifascista pugliese. La sua influenza sugli studi storici, sul pensiero politico laico e socialista democratico è stata fondamentale; il suo esempio di intellettuale e politico trasparente e coerente ha rappresentato un punto di riferimento basilare per il pensiero democratico e meridionalista. La sua intransigenza sulla salvaguardia dei principi e il suo pragmatismo sulla necessità di rispondere ai bisogni reali della società sono gli aspetti più importanti del suo concetto di analisi e azione politica, è stato ispiratore e fondatore con i fratelli Rosselli, suoi allievi, del movimento Giustizia e Libertà. La lucida rilettura del pensiero di Carlo Cattaneo lo ha portato, per primo in assoluto, a sostenere la validità in Italia di un sistema federalista che, decentrando il potere, avrebbe consentito al Sud di evolvere socialmente ed economicamente. Gaetano Salvemini è un fulgido esempio di intellettuale profondamente libero da ogni condizionamento dogmatico, convinto nell’assoluta necessità di uno stato laico e democratico il cui scopo principale deve essere la giustizia sociale e il progresso dei cittadini attraverso un’istruzione valida garantita per tutti.
Il pensiero di Gaetano Salvemini, per coerenza e libertà, è sempre stato molto scomodo sia per gli avversari politici che per i suoi compagni di schieramento; la sua onestà intellettuale non è mai arrivata a patti con qualsiasi convenienza politica o disciplina di partito. E forse per questo motivo la sua figura non gode della riconoscenza che meriterebbe.
Seguono alcune lucidissime frasi ,selezionate da opere e discorsi, per dare l’idea dell’originalità del suo pensiero e per stimolare il lettore ad approfondire la conoscenza di uno storico e un politico che ha lasciato un segno indelebile nella cultura e nella coscienza democratica del nostro paese.

“Signori, io non parlo con preoccupazioni politiche né elettorali… Parlo per l’affetto che è nato nel mio cuore dai lunghi dolori della mia terra e dallo studio che vi ho dedicato fin da quando ho cominciato a ragionare.”

“Io non prometto favori personali perché non ne farò. Non ho denari. Non ho altro patrimonio fuori di quello delle mie idee. Se scorrettezze si commettessero mi ritirerei immediatamente dal ballottaggio, e ove fossi eletto, darei immediatamente le dimissioni.. Dunque gli avversari possono essere perfettamente tranquilli. Ma li avverto che al primo tentativo di “pastetta” da parte loro, io capitanerò quegli elettori e cittadini risoluti che vorranno seguirmi per impedirla, a costo di qualunque cosa, anche della vita. E tanto peggio se la forza pubblica si renderà complice o protettrice dei pastettari.”

“ Si può essere liberali convinti eppure non sentirsi obbligati a considerare sacrosanta ogni istituzione libera e democratica. Quando furono create, le istituzioni democratiche si basavano sull’assunto che gli elettori avrebbero scelto come rappresentanti i migliori fra di loro, e che coloro che fossero stati eletti avrebbero fatto leggi e controllato l’operato dell’esecutivo nell’interesse della comunità. L’esperienza ha dimostrato che gli elettori raramente scelgono i migliori. Di fatto, essi scelgono normalmente i mediocri, a volte scelgono perfino i peggiori individui della comunità. Questo è il primo punto debole delle istituzioni libere e democratiche.”

“ La libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale.”

“Caro Fortunato, mi sento diventare ogni giorno più regionalista e più antiunitario. Peccato che non abbia nessuna stima delle classi dirigenti meridionali! Ma se un giorno queste classi dirigenti diventassero meno ignobili e meno somare di quel che sono oggi, non so se sarebbe un male una lotta bene risoluta per rivendicare ai nostri paesi il diritto di vivere da sé, come meglio ci conviene.”

“ Finchè vi sarà un potere centrale incaricato di distribuire strade, ponti, acquedotti, istituti d’istruzione, tribunali, reggimenti ecc. vi saranno sempre sperequazioni artificiali e ingiuste fra le parti dello Stato.”

“I principi di Diritto e di Giustizia esistono nella coscienza morale, e vi agiscono e reagiscono come forze effettive; ed è un grave errore ignorarli e deriderli.”

“Ho letto il progetto della nuova costituzione. E’ una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile di emendare prima o poi quel mostro di bestialità.”

“I comunisti hanno per molti anni insegnato che libertà, verità, giustizia sono pregiudizi borghesi. Come possono allora sottrarsi alla necessità di non essere creduti, e come possiamo noi sottrarci alla necessità di non crederli? Allora io continuo e continuerò a ripetere: terza via, terza via, terza via, anche se mi vedo solo in mezzo alla via, in attesa che i totalitari di sinistra mi facciano fuori, o i totalitari di destra mi mettano dentro.”

“Io appartengo a quella religione stoica che non ha nessun dogma e nessuna speranza di vita futura, ma ha in comune col Cristianesimo il rispetto della libertà, il bisogno della giustizia, l’istinto della carità umana”

“I giovani debbono aver fede in se stessi, e cioè non debbono cercare di mettersi al seguito di uomini vecchi o nuovi; essi debbono lasciarsi guidare dalla loro ragione, non debbono prender nulla alla leggera, e debbono studiare, studiare, studiare.”

"Si è discusso di socialismo, marxismo e generi simili. Io ho detto francamente che ormai credo solo nel Critone di Platone e nel discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo, e lo tengo inespresso nel mio pensiero, perché a esprimerlo mi pare di profanarlo. Cerco di esprimerlo meglio che posso nelle opere. Affrontare problemi concreti immediati, seguendo le direttive di marcia dettate dalla morale cristiana, e non perdere tempo in disquisizioni teoriche su che cosa è, cosa dovrebbe essere, che cosa sarà la democrazia, il marxismo, il socialismo, l’anarchia, il liberalismo...che se ne vadano tutti a casa del diavolo. Perdere tempo a pestare l’acqua nel mortaio delle astrazioni è vigliaccheria; è evadere ai doveri dell’azione immediata; è rendersi complici della conservazione dello statu-quo.”


venerdì 23 novembre 2007

BICENTENARIO DI UN BABBEO


Fu Maxime Du Camp, scrittore francese e camicia rossa, a definire così il suo generale, Giuseppe Garibaldi. Giuseppe Mazzini scrisse di lui:”è una canna al vento”; lo storico inglese Denis Mack Smith:”rozzo e incolto”; Indro Montanelli:”un onesto pasticcione”. Chiunque volesse seriamente approfondire, attraverso letture storiche non agiografiche, la figura del nostro più grande eroe nazionale rimarrebbe profondamente deluso. Giuseppe Garibaldi fu un avventuriero, dalle idee molto traballanti e privo di qualsiasi capacità di analisi politica, per lui la lotta per la libertà consisteva essenzialmente nel menar le mani contro un avversario che cambiava continuamente, in base alle sue convinzioni del momento. Le sue eroiche imprese in America Latina consistettero in azioni di guerriglia e di pirateria al soldo di signorotti locali che si combattevano per la divisione delle immense terre di quel continente. La sua fama fu decretata da un tipografo italiano, Giovan Battista Cuneo, il quale stampò un giornale “Il Legionario Italiano” in cui si millantavano imprese eroiche e rocambolesche di quei rivoluzionari italiani comandati da Garibaldi e vestiti in rossa uniforme. La leggenda attraversò l’oceano e dall’Italia in fermento giunsero inviti a rientrare: ci sarebbe stato da menar le mani. Immediatamente Garibaldi mollò la guerra americana per tornare in Italia, con lui sessanta uomini e la sua nuova compagna, Anita, il cui marito era misteriosamente scomparso il giorno dopo in cui il generale se n’era invaghito. A Cavour e compagni era chiaro che solo un tipo come lui avrebbe potuto accettare di guidare un manipolo di disperati senza esperienza e armati di vecchi rottami. La missione era segreta e, se fosse andata male, nessuno avrebbe mai ammesso di esserne coinvolto. Il finanziamento proveniva soprattutto dall’Inghilterra attraverso i canali internazionali della massoneria. La spedizione, male armata e per niente equipaggiata, era invece dotata di casse di denaro allo scopo di poter corrompere tutti coloro che si fossero opposti e poter comprare l’aiuto ed il sostegno della mafia che controllava il territorio siciliano. Guarda caso lo sbarco avvenne a Marsala, la più importante colonia inglese in Sicilia (a causa della produzione del vino), si pensi che in quella città gli abitanti inglesi erano più dei siciliani. Guarda caso le operazioni di sbarco furono protette da due navi da guerra inglesi, le quali fecero in modo che la flotta borbonica non potesse ostacolarlo. Da quel momento inizia la più grande menzogna mai raccontata al popolo italiano: Garibaldi e i suoi eroici uomini conquistano il Regno delle Due Sicilie. In realtà non accadde nulla di eroico e men che meno di patriottico. La millantata eroica battaglia di Calatafimi non è mai avvenuta: l’esercito borbonico (cinque volte più numeroso dei garibaldini) fu costretto a ritirarsi senza combattere, i comandanti e gli ufficiali erano stati pagati per ordinare la ritirata. E così avanti fino a Napoli: uno degli eserciti meglio equipaggiati d’Europa, con una marina che era la prima del Mediterraneo, non furono sbaragliati dall’eroico esercito garibaldino, semplicemente non hanno mai avuto la possibilità di combattere. I “picciotti” che durante l’avanzata trionfale hanno incrementato le file dei “liberatori” erano molto spesso mafiosi senza scrupoli con la certezza che il nuovo ordine li avrebbe molto avvantaggiati. Uno dei garibaldini più impegnati era il buon Ippolito Nievo, messo a fare il cassiere perché l’unico in grado di non rubare. Dalle sue mani passò tutto il denaro impiegato a corrompere, a comprare, a rimborsare spese mai avvenute: non faceva domande ma annotava tutto sui suoi quaderni, fino all’ultimo centesimo. Quando,nel 1861, qualcuno in Piemonte cominciò a far circolare la voce di sue irregolarità e colpevoli omissioni si precipitò in Sicilia per recuperare i diversi bauli che contenevano tutta la contabilità della missione. Purtroppo la nave che lo portava da Palermo a Napoli sparì misteriosamente fra i flutti e con lei il Nievo e tutta la documentazione contabile. Quel naufragio “impossibile”, poiché non fu rinvenuto alcun genere di relitto, è forse la prima strage mafiosa della storia d’Italia. La Spedizione dei Mille è stato un gran colpo di teatro per impadronirsi di uno stato sovrano da parte di una monarchia in bancarotta, quale quella Piemontese, con la complicità determinante di un’Inghilterra impegnata a controllare l’economia del Mediterraneo.
Grazie Giuseppe Garibaldi, dobbiamo alla tua dabbenaggine e ignoranza se esiste una questione meridionale, se la mafia è diventata un’industria, se una dinastia di ladri e opportunisti ha potuto regnare per troppo tempo sul nostro paese. Ma verrà un giorno in cui tutti gli italiani sapranno come sono andate veramente le cose e il tuo nome, insieme a quello del sanguinario generale Cialdini e del ruffiano di stato Cavour, saranno ricordati come i tristi protagonisti di quel grande imbroglio chiamato Risorgimento d’Italia.
Negli USA hanno avuto il coraggio di ammettere che la conquista del West, della nuova frontiera, è avvenuta attraverso il genocidio dei Nativi Americani e che personaggi mitizzati come il generale Custer erano, in realtà, dei folli sanguinari. Sarebbe ora che anche in Italia sia fatta giustizia dei cosiddetti “briganti” e delle migliaia di donne, uomini e bambini del sud trucidati, torturati e deportati nel nome di re Vittorio Emanuele II, un essere senza scrupoli.
Restare nell’ignoranza di ciò che accadde prima che fossimo nati significa rimanere per sempre bambini. “ Marco Tullio Cicerone

domenica 22 luglio 2007

GENIUS LOCI




Secondo la cultura romana in ogni luogo albergava una divinità a tutelarne l’integrità, a sancirne la sacralità e a rivelarne, ove necessario, il senso profondo. Il Genius Loci era lì a ricordare che l’ordine cosmico e le leggi della natura obbedivano ad una forza creatrice superiore che rendeva ogni cosa ed ogni luogo depositari di una parte del sacro mistero della vita ed era lì a custodire la ragione intima e superiore che giustificava l’esistenza e l’essenza di quel luogo. “Deus, in cuius tutela hic locus est” questa era l’invocazione che apriva il rituale dedicato al Genius Loci, un rituale indispensabile per ingraziarsi il nume tutelare e poter intraprendere qualsiasi tipo di attività in un determinato luogo. Non era una forma scaramantica e apotropaica di inaugurare l’attività umana bensì il riconoscimento di una dimensione trascendente a cui dover sottostare e una promessa solenne di non tradire la funzione e il significato autentico di quel luogo.
Dopo più di duemila anni, al di là del primitivo significato magico-religioso, questa figura simbolica continua a rappresentare qualcosa di filosoficamente rilevante per la nostra civiltà; innanzitutto ci ricorda che i luoghi e la natura che in essi si manifesta non sussistono solo a causa di una serie di leggi e di circostanze dettate dal caso, dalla geologia e dall’evoluzione delle specie, quanto soprattutto dalla percezione che noi abbiamo della realtà e dal significato che culturalmente ed emozionalmente vogliamo attribuirle. I luoghi, così come li percepiamo e li definiamo, sono tali in quanto noi li abbiamo classificati in un determinato modo e l’uso che ne facciamo e il godimento che possiamo trarne dipende unicamente dal nostro modo di agire e di fruire. In altre parole non facciamo altro che mettere in pratica un’idea, un’opinione condivisa che esprime una cultura, un modo di essere e di agire basato su bisogni materiali e spirituali. Mai come al giorno d’oggi, i luoghi e gli scenari naturali vengono descritti con termini come: magico, santuario naturale, affascinante, incantevole, straordinario, fatato; una serie di parole che esprimono e trasudano sacralità, stupore trascendente. E’ come se, dopo secoli di cieca barbarie, avessimo riscoperto l’esistenza e l’estrema importanza del Genius Loci, l’indispensabile anello di congiunzione tra l’uomo e la natura, il simbolo e il garante di un patto tra cultura e leggi universali che non può essere infranto, l’unico, vero baluardo contro il delirio d’onnipotenza dell’uomo. Quello che ancora non è maturato è il senso diffuso che deve avere questa consapevolezza, non riusciamo a vedere tutto inserito in un’unica logica: crediamo che vi siano luoghi da rispettare (almeno teoricamente) e luoghi da deturpare impunemente. E’ molto radicata la convinzione che un luogo poco o per niente antropizzato sia il posto ideale per schiamazzare impunemente, praticare giochi di vario genere, gozzovigliare, ed altre amene attività vacanziere: la versione contemporanea dell’antica tradizione della “gita fuoriporta”, che nel passato era collegata a particolari festeggiamenti e pellegrinaggi di tipo religioso. E’ praticamente inesistente la coscienza ecologica in relazione all’inquinamento acustico, per la maggior parte dei vacanzieri è inconcepibile paragonare l’immondizia con lo schiamazzo continuato o col radiolone a tutto volume. Certo è indispensabile sperare che nel futuro le cose cambino e che l’autocoscienza si sviluppi in tutti noi, nel frattempo cerchiamo di sopravvivere e soprattutto teniamo presente che un casinista caciarone adulto è un nemico pubblico, un essere spregevole e pericoloso; evitiamo che ne crescano altri: al bambino caciarone non lesinar lo sganassone. Vi sembra barbarico e poco pedagogico? Può darsi, in realtà sarebbero i genitori a meritare un po’ di calci nel sedere, ma non servirebbe, troppo tardi. Pensiamo alle giovani generazioni: a volte un ceffone può cambiare il destino, perché non provare?

lunedì 16 aprile 2007

IL CAFONE ALL' INFERNO


Una volta morì un cafone, e mentre l’anima viaggiava in cielo, pensò fra sé: “Io credo che, non appena arrivo in paradiso, un posticino per me ci sarà, per riposarmi, perché, secondo mi è stato sempre detto dai preti, chi soffre sulla terra gode in cielo. Non c’è da metterlo in dubbio, ho lavorato per cinquant’anni nelle masserie.” Come arrivò, bussò alla porta del paradiso. San Pietro, da valente guardiano, aprì il finestrino, cacciò il capo fuori e disse: - Chi siete? – Sono un cafone, avvertite l’Eterno Padre -. San Pietro chiuse il finestrino e andò ad avvisare il padrone. Il Padre Eterno disse: - Lo so chi è arrivato, ma avvertitelo che non può entrare -. San Pietro salutò rispettosamente e col suo solito mazzo di chiavi andò a riferire la risposta. Aprì il finestrino e disse: - L’Eterno Padre non vi vuole accettare – e chiuse il finestrino. Il poveretto, avuta la risposta negativa, se ne andò borbottando verso il purgatorio. Per via diceva fra sé: “Quando io non ho meritato il paradiso con tutta la mia miseria e pazienza e lavorare giorno e notte come una bestia, chi lo deve meritare?” Arrivato al purgatorio, picchiò più volte, spinse la porta, ma nessuno rispose, finchè stanco di aspettare, se ne andò via. Ma mentre moveva i primi passi, disse fra sé: “Scommetto che qui c’è una canaglia peggiore della prima! Quelli almeno mi hanno risposto di no!” E se ne andò verso l’inferno. Come arrivò laggiù, bussò alla porta che in un batter d’occhio si spalancò e Belzebù, che funzionava da guardiano, gridò più volte: - Avanti! Avanti, fratello -. Egli entrò tutto risoluto e diceva fra sé: “I preti sulla terra dicono sempre bugie, m’hanno sempre detto che l’inferno è tanto terribile che non si è mai potuto descriverlo. Io ritengo che sono più gentili all’inferno che nel paradiso e nel purgatorio. Quelle parole “Avanti! Avanti fratello” mi hanno commosso”. Entrato nell’inferno, Belzebù lo invitò a sedersi, egli si sedette e diede un’occhiata all’ambiente e disse: “ Ah! Finalmente sono arrivato a un luogo dive si gode”. I diavoli che stavano intorno si guardarono in faccia meravigliati, diedero un’occhiata a Belzebù e si allontanarono dicendo fra loro:”E’ possibile che ci sia un luogo peggiore di questo? Un inferno che ci fa concorrenza? Andiamo a farlo sapere a Lucifero”. Andarono e gli raccontarono il fatto. Anche Satana a sentirlo si meravigliò e disse: “Andatemi a chiamare il portinaio, Belzebù”. In un batter d’occhio si presentarono alla porta e gli dissero: “Vi vuole il capo”. Poi si rivolsero al cafone: “Signore, permettete due minuti…” Il cafone osservò: “ Signori, dimenticate di chiudere la porta! “ Ma essi risposero: “ Non fa niente”. Allora il cafone, rimasto solo, pensava fra se stesso: “Accidenti che differenza passa fra il paradiso, il purgatorio e l’inferno! Al paradiso tengono le porte serrate con un quintale di chiavi di ferro, come un reclusorio, che per aprire un finestrino ci è voluto del tempo. Al purgatorio scommetto che aprono una volta l’anno, tanto è vero che non hanno portinaio….Immagino quella volta che aprono quanto tempo ci vuole! Mentre qui non si curano affatto della porta. Che brava gente!”. In questo momento ritorna Belzebù e lo invita ad andare con lui dal capo. In un minuto secondo si trovarono in presenza di Satana. Satana lo guardò da capo a piedi e poi disse: “ Vi piace questo luogo?” “Moltissimo, signore. Se sapevo che era così comodo sarei venuto più presto”. “Di dove sei?”, “Della Puglia, signore. Di nascita sono di un paese a confine con la Basilicata,ma come vita l’ho passata a lavorare nelle masserie del Tavoliere”. “E dove si trova il paese che hai tanto disprezzato?” “Nel Tavoliere delle Puglie, signore. Io sono analfabeta, non capisco né geografia né punti cardinali”. “Tu, Belzebù, va con costui a vedere questo Tavoliere”. “Signore, comandatemi dove volete; ma lì non ci voglio più ritornare”. Rivolto a Belzebù disse: “ portatelo a dormire. Buona notte e buon riposo a tutti”. Quando il cafone restò solo, pensava fra se stesso: “Chi mai poteva credere che all’inferno avrei avuto tanti trattamenti come un lord, solo col misero guadagno di lasciare andare l’anima mia per pochi minuti a consumarsi nella fornace ardente? In terra invece i signori agricoltori per cinquant’anni se ne sono serviti, del mio corpo, senza esser mai contenti del lavoro che ho fatto e senza dire nemmeno una volta grazie, del lavoro straordinario che facevo e che non mi spettava”. Così si addormentò. Satana disse ad un diavolo: “Vestiti da contadino e va nel Tavoliere a cercar lavoro in una masseria, per vedere se è vero tutto ciò che ha detto il cafone”. Detto fatto, vestito da contadino va a cercar lavoro. Dopo due giorni appena di lavoro, senza nemmeno chiedere il suo conto, torna all’inferno tutto abbattuto, con la testa rotta insanguinata, le ali mezzo sconquassate e spennate, il viso, le mani e i piedi scottati, faceva pietà. Come Satana lo vide in quelle condizioni, domandò il perché. Il diavolo gli narrò tutto: “Come mi avete ordinato ho fatto, sono andato a una masseria, ho chiesto lavoro e non mi è stato negato. La mattina, insieme con gli altri, ci siamo alzati due ore dopo mezzanotte. In pochi minuti abbiamo mangiato pane nero senza sale, cotto nell’acqua con un po’ di olio e sale. Mentre stavo mangiando, due lavoratori si sono messi a litigare a chi per primo doveva occupare il buco della fornace dove cucinare. Dalle chiacchiere passarono ai fatti, uno di essi per sbaglio, invece di colpire l’avversario, con una lunga mazza di ferro arroventato colpisce me alla testa. Alle tre e mezzo siamo andati a lavorare, con la pioggia e col freddo, abbiamo lavorato tutta la giornata. Solo mezz’ora di riposo a mezzogiorno, quando abbiamo cambiato i buoi e mangiato un pezzo di pane. Finalmente la sera, due ore dopo il tramonto, si è sospeso il lavoro. Tornati alla masseria, anzitutto abbiamo messo a posto gli animali e dopo ognuno, chi ne aveva bisogno, si è recato a prendere il pane dal distributore, ma anche lì per averlo si sostengono vere battaglie, col risultato di molti feriti. La prima sera non ci capivo niente, mi trovai non so come nella zuffa, mi sconquassarono le ali e il pane non lo potetti avere. La seconda sera per fortuna ebbi il pane, mi recai in cucina per vedere il sistema di cucinare ma non ho fatto a tempo. Mentre stavo per entrare si accese una zuffa; senza capire da dove venne, mi vedo addosso una caldaia di acqua bollente e mi scottarono mani, piedi e viso. Stavo per pararmi la testa ferita, quando ebbi un altro colpo proprio in testa. Questa è la millesima parte dei miei patimenti. Il cafone ha ragione di tutto quello che ha detto”.
Allora Lucifero, sentendo queste cose, chiamò a sé tutti i diavoli e disse loro:” Fratelli, come ha potuto constatare coi suoi occhi questo nostro fratello che viene di lassù, noi stiamo per essere sopraffatti da un altro inferno che ci fa concorrenza. Dunque, per conservare la nostra sovranità, prendete tutti gli attrezzi e andiamo a stabilirci nel Tavoliere delle Puglie”.
(Liberamente tratto da Tommaso Fiore)