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lunedì 17 dicembre 2012

IO STO CON MARCO




Mentre la cosiddetta politica non cessa di mostrarsi cinica, bramosa di potere, vuota e rivoltante; mentre il mafioso, evasore fiscale, corruttore, debosciato, pagliaccio Berlusconi continua a offendere l'intelligenza e la vita degli italiani; mentre Monti gioca a rimpiattino con i leccapiedi di turno; mentre Bersani si affanna a preparare la sua vittoria sempre più meno certa; mentre Beppe Grillo e il suo popolo inseguono sgangheratamente l'occasione di entrare in Parlamento; mentre centinaia di imbecilli incompetenti tentano disperatamente di rimanere in parlamento; mentre il nostro Presidente della Repubblica è sempre più impegnato nelle beghe di governo dimenticando di assolvere al suo primo dovere: essere garante della Costituzione e della Legalità.....Un Uomo di 82 anni sta rischiando la vita nel nome di un principio.
Marco Pannella urla, attraverso il suo sciopero della fame e della sete, la totale mancanza di Legalità ne
l nostro paese. Quella mancanza di Legalità che si manifesta nelle condizioni mostruose in cui versano le carceri italiane, nella impossibilità di raccogliere le firme necessarie per presentare le liste elettorali, nelle ripetute infrazioni in cui cade un Italia che non rispetta e non applica leggi e regolamenti europei.
La storia di Marco Pannella e dei Radicali è costellata di battaglie per la Legalità e per il riconoscimento dei Diritti Civili e Umani. Una storia che è passata indenne da ogni tipo di marciume e da ogni tipo di accordo sottobanco. Ancora una volta, in questo clima politico mefitico e nauseabondo, Marco Pannella e i Radicali hanno il coraggio di intraprendere una battaglia giusta e pulita, una battaglia per il diritto di tutti e la libertà di ciascuno. E se qualcuno pensa che questa sia solo vuota retorica in una situazione densa di problemi ben più importanti, ebbene si sbaglia. Perchè niente può funzionare se non è garantito il diritto alla legalità. Uno Stato che continua ad essere in piena flagranza criminale perchè non rispetta le sue stesse leggi non potrà mai pretendere che i suoi cittadini vivano e operino nella legalità.
Grazie Marco, io sto con te.

sabato 15 dicembre 2012

UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA




Ancora una volta la strage di Newtown ci mette di fronte al problema di interpretare un gesto sanguinario eclatante, particolarmente agghiacciante, assolutamente gratuito. Su La Repubblica di oggi, Vittorio Zucconi , in un gran bell'articolo, sostiene la decisiva responsabilità di una soci
età la cui giurisdizione garantisce la libera detenzione di armi da parte dei suoi cittadini. E questa è una verità assolutamente non discutibile. Ma è sufficiente a spiegare completamente ciò che è accaduto? La diffusione capillare di armi di ogni genere (comprese quelle da guerra) spiega facilmente casi di morti accidentali dovute ad un loro uso incauto o improprio (bambini e/o ragazzini che ne vengono fortuitamente in possesso o pratiche irresponsabili di coloro che le maneggiano o le puliscono alla presenza di tutta la famiglia) ma difficilmente può spiegare completamente i motivi di stragi come quella di ieri. Sicuramente la libera disponibilità di armi ha reso più facile e più micidiale l'impresa del giovane suicida, ma non ne spiega le cause. Eventi come questo non possono non farci riflettere sul concetto di violenza che si è andato affermando nell'odierna "società liquida". L'assenza di valori di riferimento certi ed immutabili, la spinta irrefrenabile a soddisfare i propri bisogni soggetti ad una crescita esponenziale, la caduta di una prospettiva storica e temporale in favore di un solo vero presente, l'esistenza di rapporti umani basati sull'egotismo del consumo, il primato dell'economia su ogni altro aspetto della nostra vita, la negazione all'accesso al consorzio umano di coloro che non possono consumare e/o non vogliono accettare le nuove regole; tutti questi elementi potenziati a dismisura dai mezzi di comunicazione di massa hanno prodotto una mutazione antropologica globale. Abbiamo imparato a vedere e a considerare la violenza e la sopraffazione come pratiche risolutorie di problemi, l'omicidio non è più la rottura di un patto (con Dio o con la Società) le cui conseguenze lacerano la coscienza fino a minarne l'essenza. Oggi le narrazioni di Macbeth o quelle di Delitto e Castigo o, andando ancora più alle origini, quelle di Edipo e di Medea, acquistano un altro sapore, un altro significato, molto più vicino a un videogioco o a un serial televisivo. E' stata espunta definitivamente la Hybris, la tracotanza dell'essere umano che si è voluto sostituire ad una legge al di sopra di lui. Il senso di onnipotenza dell'uomo era considerato il suo peccato più grave (a tutte le latitudini e in qualsiasi consesso civile e religioso), oggi l'onnipotenza è il carburante indispensabile per poter correre con successo sulla strada dell'autoaffermazione, l'unica strada che conferisce senso alla vita. Oggi tutto il mondo occidentale si interroga sui quei poveri bambini massacrati senza un perchè....Come se il perchè facesse la differenza. Come se quei bambini del Connecticut fossero più vittime innocenti di molti più bambini del Sudan, della Somalia, della Palestina, di Israele, della Siria, di tutti quei paesi in cui vengono massacrati per un orrendo, schifoso motivo. La società globalizzata, il nuovo Leviatano, pretende ed ottiene i suoi sacrifici, pensare che siano riservati solo ai paria della terra è un ennesimo atto di presunzione. Ovviamente l'epilogo di questa strage mostruosa sarà l'ennesimo racconto di un gesto di un pazzo. Io non credo che quel giovane fosse un pazzo, era sicuramente un alienato, una vittima del Leviatano. Ricorda un pò il protagonista del bel film di J. Schumacher: Un Giorno Di Ordinaria Follia (1993), con un Michael Douglas nella sua forma migliore.


mercoledì 14 marzo 2012

NESSUNO LI PUO' GIUDICARE




La società dei consumi ha ormai invaso tutto il pianeta. Certo esistono grandi parti del mondo in cui si muore ancora di fame e/o si sopravvive a malapena, ma tutto ciò è funzionale al sistema globale: le aree depresse servono come serbatoio di manodopera a costi bassissimi per produrre merci che saranno altri a consumare. Il consumo è l’unico indicatore dell’efficienza di un sistema ed è l’unica garanzia dell’affidabilità economica e sociale di una comunità. Il diritto di cittadinanza viene riconosciuto solo al consumatore, chi non consuma non è nessuno e non può godere di alcun tipo di diritto politico, sociale e umano. Il consumatore non è colui che sceglie sulla base dei propri orientamenti e necessità impiegando il denaro che guadagna col proprio lavoro. Il consumatore è colui che riesce a soddisfare il proprio bisogno di possedere assecondando gli stimoli che gli vengono imposti dalla società e dai mezzi di comunicazione di massa. Il consumatore diventa tale, a pieno titolo, nel momento in cui reclama il proprio diritto a soddisfare il bisogno di possedere e lo trasforma in realtà. Attualmente, agli inizi del terzo millennio, un essere umano è consumatore riconosciuto già all’età di cinque anni. A quell’età è in grado di esprimere compiutamente e risolutamente il proprio diritto a soddisfare i vari bisogni che urgono nella sua testolina. I genitori di questo fanciullino, già per conto loro impegnati in altri consumi, sono coloro che garantiranno la piena soddisfazione dei suoi bisogni. D’altro canto la cosa non li disturba particolarmente, ancora quando il figlioletto era un poppante lo vestivano con capi firmati e dopo, quando cominciava a fare i primi passi, lo acconciavano col gel sui capelli e giubbotti jeans per soddisfare la loro gioia senza minimamente pensare che il piccolino, ridotto in quell’arnese, pareva un povero mentecatto in erba.
La famiglia, i genitori, i nonni (che sono genitori al quadrato) sono una gallina dalle uova d’oro per la società dei consumi. Alla base di tutto c’è una profonda, quanto micidiale, mistificazione secondo la quale l’affetto si misura col possesso e il rifiuto è negazione dell’amore. Le ricorrenze e le festività hanno senso solo se mercificate, solo se oggettivate in qualcosa di concreto. Il ruolo dei genitori in tutto ciò è duplice, incarna sia il carnefice che la vittima. Il genitore carnefice è colui che sfoga sui suoi figli le frustrazioni ed i rifiuti subiti nel lontano passato illudendosi che erano dovuti a ristrettezze economiche. Cosa in parte vera, ma solo in parte. Nel ventesimo secolo il rifiuto era non solo un mezzo per affermare la propria autorità, ma anche una scelta educativa che tendeva ad insegnare il senso più vero delle cose e la loro relativa importanza. Il genitore vittima è colui che si rende conto di essere entrato in una spirale consumistica spietata e che cerca inutilmente di porre un freno. Non solo non ci riuscirà, ma sarà prima sbeffeggiato e poi disprezzato dai suoi figli.
I genitori del terzo millennio sono ormai degli esseri catatonici rassegnati alla inevitabile mutazione antropologica dei propri figli. Hanno dovuto abdicare, rinunciare ad ogni autorità e trasformarsi in finanziatori, autisti, cuochi e lavapiatti. In questo sfascio generale mantengono ad ogni costo l’orgoglio paterno e materno nelle doti fisiche, morali e intellettuali della propria progenie. Non si rendono conto che i loro ragazzi si friggono il cervello con dosi massicce di tv spazzatura, che vivono in uno stato di ignoranza direttamente proporzionale alla loro presunzione, che a diciotto anni fanno quello che facevano i loro avi da vecchi, contadini e operai, chiusi nelle cantine ad alleviare il dolore del mancato riscatto col vino scadente. Fanno veramente pena quei genitori che irrompono agguerriti nella scuola a perorare la causa di un ciuccione che non conosce il congiuntivo, fanno pena perché non ammettono che un “estraneo” possa giudicare mentre loro non possono farlo più. Possono sopportare che i figli li mandino a quel paese solo perché pensano che, in fondo, sono migliori di loro; scoprire dalla pagella di essere diventati lo zimbello di un cretino ignorante è devastante. Poi ci sono gli insegnanti, i quali, essendo per la maggior parte genitori anche loro, si trovano in una situazione estremamente imbarazzante. Purtroppo si trovano a vivere una condizione schizofrenica poiché in quanto genitori sarebbero portati alla immedesimazione ma poi, in quanto professionisti dell’educazione, sono costretti a giudicare il lavoro di alunni che al posto del cervello hanno un totano.
Ormai è chiaro, la famiglia si è trasformata in un allevamento di totani e i genitori dovrebbero prenderne atto una volta per tutte. Dovrebbero smetterla di sfogare le proprie frustrazioni con gli insegnanti invocando una competenza che loro per primi non hanno.  La completa emancipazione e la totale autonomia che i figli brandiscono minacciosamente davanti agli occhi increduli dei loro genitori è uno squallido feticcio che la società dei consumi ha diffuso attraverso i mezzi di comunicazione di massa allo scopo di omologare e sfruttare al massimo i giovani consumatori. In realtà, mai come ai nostri giorni, i giovani dipendono strettamente dalla famiglia. La loro è dipendenza economica, dipendenza affettiva e dipendenza da ritmi di vita e usanze famigliari che li rendono liberi da ogni tipo di responsabilità, esenti da collaborazione nelle faccende domestiche e serviti e riveriti in ogni viziaccio che hanno deciso di praticare.
Nel nostro paese dove la retorica de “i figli so figli” e “i figli so piezz’e core” è molto diffusa e praticata risulta più difficile analizzare i comportamenti e i valori delle nuove generazioni svezzate dal consumismo più spietato. Nessun genitore si è mai fermato a riflettere sulla perfida cancrena ideologica che veicola la frase “usa & getta” o sulla mistificazione dell’assoluta necessità di soddisfare ogni tipo di bisogno. Questi ragazzi si aggirano nella realtà come fossero in uno sterminato luna park, fra loro condividono ma non socializzano, fanno sesso ma non si amano, la loro cifra non è l’egoismo ma l’egotismo. Abbiamo di fronte le prime giovani generazioni perfettamente funzionali alla società in cui viviamo, dove niente è più importante del presente.I genitori ringraziano Dio quotidianamente per aver ricevuto tale progenie e difendono con ogni mezzo chiunque osi mettere in discussione le doti e le grandi qualità che i figli possiedono. Nessuno li può giudicare. Forse, un domani, sarà la storia a dire l’ultima parola, a patto che sia rimasto ancora qualcuno in grado di scriverla.  
        



martedì 4 ottobre 2011

AMANDA & RAFFAELE: UNA PULP FICTION




Ieri sera la Corte d’Appello di Perugia ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di omicidio di Meredith Kircher; in primo grado i due giovani erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, la sentenza assolutoria è giunta dopo quattro anni di detenzione in galera.
All’indomani della scoperta dell’efferato delitto e dell’arresto dei due giovani, ebbi modo di scrivere su questo blog alcune considerazioni poiché ho conosciuto molto bene Raffaele Sollecito e l’ho frequentato per lungo tempo. Al di là dei fatti e dei fumosi indizi prevaleva in me la certezza della conoscenza della persona, della sua storia personale e familiare e della sua interiorità.
Oggi però, la riflessione più urgente e necessaria riguarda la giustizia italiana, l’ordinamento detentivo e l’organizzazione e la gestione delle indagini. Senza cadere nella facile retorica influenzata dai copiosi telefilms statunitensi che raccontano dell’ineffabile precisione delle attuali tecniche scientifiche di indagine criminale, emerge naturalmente la domanda sull’efficienza e sulla serietà di coloro che sono addetti alla raccolta di prove e di indizi presenti sulla scena del delitto. Così come sorge spontanea la domanda sulla effettiva competenza e necessaria imparzialità di chi dirige le indagini e gestisce la macchina investigativa. L’impressione è che la tanto decantata professionalità di chi ha il dovere di scovare assassini e criminali sia un grande bluff…La sensazione è che il nostro ordinamento non sia preparato a gestire e a investigare su fatti criminosi che impongono precisi protocolli di raccolta degli indizi nonché una forma mentis capace di mettere da parte le impressioni e le opinioni personali nel nome di una indispensabile imparzialità.
Nel nostro paese la logica imperante è quella che vede il magistrato inquirente (sulle cui capacità ed esperienze investigative non c’è alcuna garanzia) formulare un teorema accusatorio, non un’ipotesi, e agire in modo da usare gli indizi come prove del suddetto teorema senza alcun timore di fare delle forzature, senza preoccuparsi di “piegare” la realtà alle proprie convinzioni. Questo atteggiamento parte da lontano e affonda le radici in una concezione metafisica della magistratura dove la figura del giudice sacerdos (unico vero tramite fra gli uomini e la Legge, divinità laica) ha contaminato in modo irreversibile anche chi giudice non è, come i magistrati inquirenti e sorveglianti. Questo delirio d’onnipotenza deve molto alla politica; la politica ha lasciato molto spazio d’azione attraverso grandi vuoti legislativi e/o attraverso leggi molto spesso rivelatesi incostituzionali, per non parlare della politica alleata alla criminalità organizzata e della politica colta troppo spesso in flagranza di reato. Una società che per molti aspetti nega i diritti fondamentali dell’uomo (vedi la condizione delle carceri, vedi la condizione dei disabili e degli immigrati, vedi il diritto allo studio calpestato dal numero chiuso, vedi la negazione a disporre del proprio corpo, vedi le imposte vessatorie e le inspiegabili esenzioni, vedi i privilegi odiosi di chi sta al potere) trasforma il concetto di servizio alla società in quello di unico e infallibile ordinatore della vita degli uomini.
Chi restituirà quattro anni di vita d’inferno a Raffaele ed Amanda? Chi ha massacrato Meredith e perchè? L’unica persona certamente coinvolta in questa orribile storia non parla e fra pochi anni sarà libero. Il fatto più triste è che ci sono troppe storie che avranno lo stesso epilogo. Delitti impuniti per i quali nessuno pagherà. Incompetenze, vessazioni, errori madornali, violazioni dei diritti umani per i quali nessuno pagherà.
La sentenza di assoluzione per Raffaele ed Amanda non è un segno di giustizia giusta; arriva troppo tardi e dopo aver devastato due giovani vite. Essa rappresenta non solo il fallimento della giustizia italiana ma soprattutto sancisce il fatto che lo stato non tutela il cittadino, lo stato è una macchina tritacarne.
Caro Raffaele, tuo malgrado sei stato uno dei protagonisti di una delle peggiori fiction mai prodotte in Italia. È ora che tu riprenda la tua vita ma non lasciare che tutto cada nel silenzio: urla la tua rabbia, non smettere mai di raccontare la tua storia: tu non sei stato vittima di un errore giudiziario, tu sei stato vittima di un sistema infame.

lunedì 16 novembre 2009

LA PRASSI E IL SIMBOLO


La tragica, e ancora non chiarita, vicenda che ha portato alle sevizie e alla morte di Stefano Cucchi, oltre che indignare dovrebbe invitare a riflettere seriamente sul problema del consumo delle droghe. Cucchi non solo è stato vittima della bestialità umana e dell’omertà di stato, egli è uno dei tanti che ogni giorno subiscono sulla propria pelle la politica proibizionista che vige in questo paese.
Senza andare troppo indietro nel tempo già dal 2005 un gruppo di cinquecento insigni economisti americani (fra cui il premio Nobel Milton Freedman) pubblicarono una lettera aperta al presidente, al Congresso e ai governatori sulla legalizzazione della marijuana. La cosa più interessante era che l’argomentazione più forte, accanto alle solite questioni che riguardavano il traffico delle mafie e della malavita, l’uso della violenza e della rapina da parte di persone fondamentalmente pacifiche, era di carattere squisitamente economico: sostituendo alla legislazione proibizionista un sistema di controllo e tassazione dei consumi (come già avviene per altre droghe come l’alcool e il tabacco), non solo ci sarebbe un risparmio di oltre sette miliardi di dollari ma si realizzerebbe anche un introito di oltre sei miliardi. La recente legislazione in vigore in California riguardante l’uso terapeutico della mariujuana (sostenuta persino dal governatore repubblicano Shwarzenegger) sta modificando i pregiudizi di molti americani su un uso controllato di sostanze di questo genere e indirettamente sta operando un’inversione di tendenza su come far fronte al problema del consumo e del traffico illegale di stupefacenti. È recente un articolo apparso sul prestigioso Washington Post intitolato “It’s Time to Legalize Drugs”, in cui una buona parte dell’opinione progressista esce finalmente allo scoperto su un tema molto scottante e molto sentito da tutta la popolazione.
Nonostante tutto ciò la questione continua a essere osteggiata sia del mondo politico che dalla società civile. Robert Nozick, filosofo e docente all’università di Harvard, sostiene che il problema consiste nella forte valenza simbolica che è alla base delle politiche e le leggi proibizioniste: in altri termini, i divieti dello stato soddisfano e fanno salvo il simbolo di ordine e sicurezza indipendentemente dalla loro effettiva e reale efficacia. È un problema culturale, questo. E infatti se solo pensiamo alla piaga dell’alcolismo, non si riesce a comprendere come e perché il consumo dell’alcool sia ancora legale visto e considerato che un alcolista è paragonabile ad un eroinomane o a un cocainomane e che le vittime indirette di questa dipendenza siano molto superiori a quelle riferibili ad altre tossicodipendenze (basti pensare alle vittime innocenti di incidenti stradali causati dall’abuso di alcool). Evidentemente nella nostra società le droghe sono ancora un grosso tabù carico di pregiudizi e paure. Eppure mai come oggi l’opinione pubblica è stata costretta a misurarsi con problemi come quelli di una popolazione giovanile dedita al consumo abituale di droghe ed alcolici, mai come oggi le carceri pullulano di gente coinvolta nella spirale del traffico e del consumo di droga, mai come oggi i fatturati delle mafie hanno raggiunto cifre così enormi grazie al traffico di stupefacenti. Questi fatti concreti, questa tragica realtà, dovrebbero suggerire l’adozione di un comportamento estremamente pragmatico finalizzato alla risoluzione del fenomeno o, quanto meno, alla sua riduzione in termini molto più contenuti. Invece trionfa il simbolo, la questione di principio, il dogma laico, il feticcio intoccabile. Non importa se la malavita si ingrassa a dismisura, se poveri ragazzi confusi cadono in una spirale delinquenziale implacabile. Naturalmente nessuno si sogna di risolvere il problema del consumo e delle dipendenze dalla droga, ma una politica antiproibizionista sicuramente priverebbe le mafie di una buona parte di guadagni, aiuterebbe non poco a evitare l’escalation da droghe leggere a droghe molto più pericolose e letali, eviterebbe che molta gente pacifica finisse in carcere per essere trasformata in criminali, servirebbe a tenere sotto stretto controllo una situazione che al momento è solo stimata. Non è la panacea ma è certo un modo pragmatico di affrontare una questione che ora è estremamente critica.
Riuscirà la prassi a sconfiggere il simbolo? Dipenderà solo da noi se saremo capaci di spogliarci di una cultura ipocritamente rigida, fatta di simboli vuoti e di paure ingiustificate.

venerdì 31 ottobre 2008

I PADRONI DEL PENSIERO


In questi giorni stampa, telegiornali e programmi televisivi di approfondimento sono impegnati a dibattere sulle varie manifestazioni di protesta contro il decreto sulla scuola primaria del ministro della Pubblica Istruzione Gelmini. Questo decreto viene definito dall’opposizione e dai manifestanti come una vera e propria riforma. Sia chiaro, il suddetto decreto non è una riforma bensì un provvedimento legislativo che modifica alcuni aspetti dell’attuale assetto della scuola primaria. Non vengono modificati i programmi d’insegnamento né tantomeno il curriculum studiorum. Viene reintrodotto il sistema di valutazione numerico (i voti), l’uso del grembiulino, una maggiore considerazione della valutazione della condotta e la figura del maestro unico che sarà comunque affiancata dal docente di inglese e da quello di religione, sono previsti anche accorpamenti di plessi scolastici di piccole dimensioni allo scopo di razionalizzare e risparmiare sulle spese. Solo un fesso o un demagogo d’accatto potrebbe sostenere che questa è una riforma scolastica. Gli effetti più rilevanti di questi provvedimenti saranno un blocco delle nuove assunzioni poiché non sono previsti licenziamenti. Alcuni sostengono che questo nuovo assetto porterà alla scomparsa in molte scuole del tempo prolungato, ma la cosa non è ancora molto chiara. Chi patirà per questa nuova situazione? Sicuramente tutti coloro che contavano (docenti e personale ATA) di entrare a far parte in pianta stabile del carrozzone scuola e tutti quei genitori che contavano sul servizio di baby sitting gratuito fornito dal tempo prolungato. Per questi motivi è legittimo che precari e futuri precari siano preoccupati così come è comprensibile che molti genitori siano arrabbiati. I genitori italiani in tanti anni di partecipazione alla gestione scolastica (dall’introduzione dei decreti delegati) hanno saputo dimostrare solo un sempre più crescente astio nei confronti del personale docente accusato di incompetenza e vessazioni nei confronti dei propri pargoli affetti da citrullesca infingardaggine, coccolati, viziati e maleducati. Molti di questi ex bambini prodigio ora frequentano le scuole superiori e l’università e, nel tempo, hanno maturato insieme ad una perniciosa ignoranza una granitica supponenza e, soprattutto, un piacere profondo per l’omologazione. Questi giovani beoti hanno toccato il cielo con un dito quando genitori, professori, sindacalisti, e masanielli vari li hanno voluti coinvolgere nella loro battaglia corporativa. E sì, perché siccome nella prossima finanziaria (non nel decreto Gelmini) sono previsti tagli e risparmi di spesa anche nel comparto istruzione , è accaduto che baroni, baronetti, capibastone, presidi, sindacalisti e impiegati specialisti in cruciverba, si siano preoccupati del loro destino e del loro potere. Vogliono far credere agli studenti che nell’università attuale ci sia spazio per i giovani meritevoli, che i concorsi per ricercatori e docenti siano trasparenti, che il nepotismo più becero non esista, che non vi sono corsi di laurea inutili e grotteschi, che la ricerca seria sia la pratica più diffusa. Così ci tocca assistere al penoso spettacolo di una sinistra alleata con la conservazione e col corporativismo al solo scopo di muovere greggi di studenti, precari, genitori e fannulloni contro il governo Berlusconi. Forse alcuni hanno dimenticato che, anni fa, il Partito Radicale (componente attiva del Partito Democratico) promosse un referendum a favore del ripristino del maestro unico, forse alcuni dimenticano che la politica dei sindacati nella scuola è storicamente basata sull’aumento delle assunzioni in cambio di miti pretese salariali. La scuola italiana è fatta di docenti mal pagati e squalificati, di amministrativi che leggono il giornale, di bidelli che non fanno più neanche le pulizie, di assistenti di laboratorio alle prese col piccolo chimico, di presidi occupati a distribuire prebende senza rendere conto a nessuno. In tutto questo contesto nauseante ci tocca sentire le interviste a studenti che pare abbiano imparato un copione a memoria e che, di fatto, difendono ad oltranza una scuola che fa schifo. Qualche mentecatto ha il coraggio di parlare di un nuovo ’68, invece è il triste trionfo del pensiero unico, è la sconfitta del coraggio della critica e dell’autodeterminazione, assistiamo alla mistificazione eretta a sistema. Eppure di argomenti seri contro questo governo ce ne sarebbero a bizzeffe: conflitto di interessi mai risolto (grazie Prodi), il pericolosissimo risveglio del mostro nucleare (non ci fu un referendum che vietò la costruzione di centrali nucleari?), il rispetto della Costituzione (i tre poteri dello Stato vi sembrano autonomi?), il controllo della finanza e il potere delle banche. E via andare. È disarmante vedere studenti che invece di lottare contro i privilegi, contro il nepotismo e contro l’omologazione, sfilano accanto a furbi demagoghi e vecchi marpioni decisi a non cedere nulla del loro potere, a genitori rincoglioniti preoccupati di dover pagare una baby sitter. È una gran bella soddisfazione manifestare con la benedizione di mamma e papà accanto al preside e ai professori. Trent’anni fa si gridava “Immaginazione al potere”, ora si pratica il potere dell’omologazione.
E dopo il corteo tutti a festeggiare Halloween: dolcetto o scherzetto?

martedì 29 aprile 2008

PERSECUZIONI QUOTIDIANE


La nostra vita dovrebbe essere scandita da azioni ed eventi connessi ai nostri progetti, alla nostra attività, ai nostri desideri e alle nostre abitudini. Ciò è vero solo in parte perché ogni giorno della nostra vita vede l’incursione di presenze e di eventi non desiderati e spesso ripetuti fino al punto di diventare vere e proprie piccole persecuzioni. Al mattino, dopo la consueta ginnastica obbligata consistente in passi doppi e tripli, finte di corpo e brevi salti in lungo per evitare di calpestare totem di merda canina fumante, si incomincia subito bene con il pizzo ai lavatori di vetri fissi ai semafori. Non si tratta più della mancia di una volta per una sciacquatina veloce, ora è una vera e propria tangente per evitare che insozzino il vetro con acqua fangosa in putrefazione. Dal solito giornalaio, almeno una volta al mese il quotidiano preferito è già esaurito: è la solita maledetta iniziativa editoriale in cui regalano il primo volume di una collana di cinquecento sulla storia dei peli ascellari. Pare che le biblioteche domestiche nazionali ormai contino mediamente più di duemila primi volumi e centomila primi fascicoli. Quando finalmente si è trovato un parcheggio, dopo una ricerca estenuante, ecco che spunta dal nulla un omino odioso, un pensionato famelico che si è autonominato parcheggiatore e che pretende un pizzo non inferiore a un euro. Nel breve tragitto a piedi fino alla meta quotidiana si è dovuto combattere contro grassissime donne rom che chiedevano il pizzo per non leggerti la mano e ci si è imbattuti in una cicca di gomma filante, appena sputata, una cicca di marca, di quelle che aderiscono alla suola perfettamente profumando il piede di mentolo. Ci vorranno mesi per cancellarne ogni traccia.
L’apertura della casella di posta elettronica è sempre un momento topico: ogni giorno arrivano decine di email in cui offrono Viagra e affini, nonché creme miracolose per ingigantire il pene. Seguono comunicazioni bancarie ed estratti conto taroccati da tutto il mondo. Per non parlare di sedicenti moldave, russe, rumene e ungheresi che invocano una disinteressata amicizia…o delle foto di Paris Hilton nuda che nascondono un vasto assortimento di virus pronto ad appestare il computer del primo gonzo assatanato. Rientrati a casa si procede al solito pietoso rito di svuotamento della cassetta postale: circa due chili di volantini pubblicitari, dal callista all’angolo al centro commerciale distante appena centocinquanta chilometri. Offrono di tutto, compressori industriali per gonfiare il canotto e batterie di pentole per sfamare un battaglione di bersaglieri. Poi ci sono le pubblicità delle società finanziarie: prestiti immediati anche agli ergastolani; hard discount che vendono salumi dai colori molto approssimativi a prezzi da villaggio africano; negozi di elettronica che svendono cellulari e computers a pochissimo (peccato che siano solo venti esemplari). Enti ed associazioni sconosciuti, istituti religiosi, orfanotrofi, missionari, abbonamenti a riviste e quotidiani. Tutta cartaccia inutile e inquinante. Ci si è appena rinchiusi fra le mura domestiche che inizia lo stillicidio telefonico. Il telefono squilla a raffica, senza pietà né riguardo per l’ora, sono i sicari delle varie compagnie telefoniche in cerca di vittime inermi. Chiamano ogni giorno, alla stessa ora, ogni volta un sicario diverso. Hanno attivato la loro micidiale tecnica persecutoria, non hanno pietà né educazione, vogliono il sangue. Ho visto cose inenarrabili: poveri pensionati ridotti alla dipendenza da valium, persone buone e gentili trasformarsi in bestemmiatori da Santa Inquisizione, poveri gonzi cambiare cinque gestori telefonici in sei mesi pagando bollette da suicidio. Donne ridotte alla prostituzione da Infostrada. Casi di automutilazione della lingua e delle dita delle mani.
La giornata volge al termine e un po’ di sano intrattenimento gioverebbe non poco allo spirito traviato. E’ l’ora dell’ultima persecuzione: telefilm, situation comedy, soap opera, reality show, quiz, talk show. Una valanga di cacca virtuale si abbatte sui nostri cervelli. La domanda sorge spontanea: chi sono i programmatori televisivi? A guardare i palinsesti si direbbe che si tratta di venditori porta a porta (il riferimento è intenzionale) lobotomizzati. Sono talmente rincoglioniti da non accorgersi che hanno programmato un film già trasmesso due giorni prima dalla rete concorrente. Sono talmente idioti da non capire che mai nessuno desidererebbe essere paziente del dott. House, ricoverarsi per delle emorroidi e vedersi diagnosticare una rara forma di peste bubbonica è talmente allucinante da indurre a pensare che il dott. House è il re degli iettatori. Basta, rivogliamo l’intervallo con le pecore e le cartoline: quello sì che era relax.

venerdì 29 febbraio 2008

GIOCHI MORTALI


Non credo che i due fratelli di Gravina abbiano fatto quella fine orrenda a causa del padre. Credo piuttosto che si sia avverato un tragico destino nascosto in alcune premesse determinate da concrete responsabilità umane. La prima premessa è lo stato in cui versa la città di Gravina in Puglia: antichi fabbricati, a ridosso della profonda gravina, abbandonati, pericolanti e pericolosi facilmente accessibili da parte di chiunque. Queste costruzioni sono diventate, nel tempo, luoghi di ritrovo di spacciatori e tossicodipendenti nonché formidabili spazi di gioco per bambini e ragazzi alla continua ricerca di nuove emozioni. Il governo della città è il primo responsabile di questo pericolosissimo degrado, sarebbe bastata un’ordinanza per murare tutti gli accessi a questi luoghi.
La seconda premessa è più articolata, poiché si colloca all’interno di un nucleo familiare che si è rotto provocando nei due fratelli disagi e sofferenze estremamente laceranti. Come accade sempre in questi casi, le problematiche affettive e comportamentali dei figli di genitori separati sono molto complesse e non sempre sfociano nell’elaborazione di un nuovo equilibrio, si possono verificare scompensi irreversibili che incideranno per sempre nel destino dei figli. Non ci è dato di sapere il motivo dell’affidamento al padre (con la nuova compagna) di Francesco e Salvatore, ma certo è che il comportamento paterno autoritario e manesco non sortiva positivi effetti educativi. Dalle interviste alla madre e alle insegnanti emerge un particolare quanto inusuale pensiero ricorrente nei due fratelli: la morte. Un senso della morte non inteso come minaccia (come hanno voluto credere alcuni colpevolisti sul ruolo del padre) bensì come destino, come probabile epilogo. Esattamente come quei bambini che praticano consapevolmente giochi molto pericolosi per mostrare agli altri il proprio coraggio e per comunicare inconsciamente un lutto talmente profondo da generare una sorta di dimestichezza con la morte, rischiare la morte per manifestare nessun attaccamento alla vita. La sensazione è che assistenti sociali incompetenti (come tutta la categoria, senza eccezioni), giudici superficiali e il padre arrogante e gretto abbiano “violentato” la psiche e l’affettività di quei poveri bambini. La terza premessa riguarda l’inettitudine degli inquirenti. Accade sempre più spesso che il magistrato inquirente, invece di percorrere tutte le ipotesi possibili, si lanci ad inseguire solo una ipotetica pista, mettendo le altre in secondo piano. Ci hanno fatto credere di aver controllato a tappeto tutta la città, gravina compresa, nel modo più accurato…i fatti hanno dimostrato l’esatto opposto, qualcuno dovrebbe avere il buon gusto di dimettersi.
Certo è angosciante pensare alle lunghe sofferenze che hanno preceduto la morte dei due fratelli, e l’angoscia aumenta pensando alle circostanze futili che hanno portato alla fine delle due giovani vite. Non resta molto da dire, rimane il raccapriccio per quel che è accaduto ai ragazzi e un senso di profondo disgusto per quanto gli adulti hanno fatto affinché si creassero determinate circostanze.

sabato 26 gennaio 2008

NOMEN OMEN


Il mio nome è Bond, James Bond”, questa frase è ormai entrata nell’immaginario collettivo come un paradigma da seguire quando ci si presenta per la prima volta ad un interlocutore. Il successo di questo modello non è dovuto solo al personaggio di Ian Fleming, esso rappresenta un modo semplice ed elegante di presentarsi, un modo inequivocabile (visto che il cognome viene ripetuto due volte) e, se vogliamo, anche garbatamente mascolino. La questione è che tutto è perfetto grazie ad un nome che è di per sé perfetto (chissà quanto tempo ci ha messo Fleming nell’inventarlo). Se infatti accantoniamo il nome Bond per sostituirlo con un altro meno fortunato avremo questo risultato: “ Il mio nome è Cantacessi, Ignazio Cantacessi “, è tutta un’altra storia…E’ evidente che, al di là del modello, è proprio il nome a fare la differenza, a determinare il successo della presentazione. Ebbene sì, nella vita anche il nome può svolgere un ruolo determinante, come si può nascere con gli occhi storti, le orecchie a sventola o con un naso esagerato così può accadere che il caso (con un eventuale perversa complicità dei genitori) decida di appiopparci un brutto nome, un nome ridicolo o un nome cacofonico. E siccome l’antica saggezza popolare (nomen omen) così come la più recente linguistica (significante/significato) danno grande importanza alla parola (con le sue implicazioni metafisiche: Logos e Verbo) ne consegue che il nome delle persone (da intendersi come nome proprio e cognome) può rappresentare un bel problema e un notevole handicap.
Chi potrebbe sostenere che se Napoleone Bonaparte si fosse chiamato Gavino Cozzolicchio avrebbe avuto lo stesso identico destino? E se la seducente Josephine Buharnais fosse stata Annette Le Canard (Annina L’Anatra) avrebbe sposato Napoleone? Forse Annette e Gavino si sarebbero ugualmente innamorati, ma sicuramente nel loro destino ci sarebbe stato dell’altro, non so, una cosa tipo commercio all’ingrosso di ostriche o di fois gras.
L’Italia è un paese con una grandissima varietà di cognomi in proporzione al numero di abitanti. Naturalmente in questa gran varietà ve ne sono di veramente particolari che vanno dall’osceno al ridicolo. Troviamo i Cazzone, Cacchione, Ricchioni, Ficarotta, La Vacca, Porcelli, Linsalata, Cipolla, Latrota, Lavopa, Latrippa, Lamorte, Cacatelli, Cocozza, Piscione e tanti altri. Questi piccoli capolavori dell’onomastica familiare che la dicono lunga sulle nobili origini dell’umanità basterebbero da soli a schiantare le più entusiastiche speranze di successo, invece non basta. A questo punto entrano in ballo i genitori, i quali, facendo finta di non ricordare le ingiurie e gli sfottò che li hanno perseguitati fino all’età adulta, si apprestano a crocifiggere i figli con dei nomi propri per nulla adeguati all’orrenda tragedia del cognome. Per questo saranno maledetti per sempre. Infatti non è difficile imbattersi in Eva La Vacca o in Gustavo Latrippa, per non parlare di Serena Lamorte, Libero Latrota, Gaia Cocozza, Omar Loturco, Modesto Ragno. Poveri sventurati vittime dell’imbecillità dei genitori. Per quanto riguarda i nomi propri, la consuetudine del passato che prevedeva che si tramandassero di generazione in generazione è ormai desueta. In passato gli unici nomi che non seguivano questa regola erano quelli attribuiti ai trovatelli, ma di solito la creatività si sbizzarriva nei cognomi (Esposito, Proietti, Diotallevi, Dioguardi, ecc.) ed erano pochi i casi in cui ci si rifaceva ad altre fonti come i miti letterari (particolarmente usato era Edmondo Dantes, il protagonista del Conte di Montecristo, così come Alessandro Manzoni).Da cinquant’anni a questa parte i mezzi di comunicazione di massa (cinema, fotoromanzi e televisione) hanno determinato, fra le altre cose, anche una nuova moda onomastica, infatti sono sempre più frequenti nomi come: Raffaella, Barbara, Romina, Ylenia, Michela, Sara, Simona, Patrick, Jonathan, Samuel, Kevin. Nelle classi sociali più colte, invece, la tendenza è verso nomi italiani ritenuti particolarmente belli: Marco, Roberto, Alessandro, Livio, Fabrizio. Il nome proprio perde la sua funzione storica (il perpetuarsi attraverso le generazioni) per assumerne una di tipo edonistico (il nome “suona” bene ed è alla moda). Nel giro di non molte generazioni spariranno completamente molti nomi propri (Gaetano, Nicola, Domenico, Saverio, Felice, Pasquale, Filippo, Salvatore, Ignazio, Vito, ecc.) e con essi la storia familiare e sociale di cui sono stati testimoni. Niente di grave, la cultura e la società si evolvono in altre direzioni, è già successo in passato. Una sola modesta raccomandazione ai genitori: nella scelta del nome abbiate buon senso, chiamarsi Kevin Perchiazzi o Ylenia Lavermicocca è una tragedia senza rimedio.

mercoledì 23 gennaio 2008

BANANA REPUBLIC n.1


“Ne ho fin sopra i capelli!!”, recita così il tormentone che ricorre nella piece teatrale di Bertold Brecht “Radio Ottobre”. E’, questa, un’imprecazione che sorge spontanea in tutti coloro che assistono agli ultimi avvenimenti nel nostro paese. Una classe politica allo sbando paralizzata da una lobby potente e compatta che pretende di governare attraverso l’uso del codice penale. Quelli che avrebbero dovuto essere i servi più fedeli dello Stato, coloro che dovrebbero garantire l’assoluta uguaglianza dei cittadini di fronte alla Legge, coloro che dovrebbero rappresentare la parte più nobile del contratto sociale, stanno mostrando un volto orrendo e pericoloso. La Magistratura italiana è in preda ad un delirio di onnipotenza senza precedenti. Quando Clemente Mastella ha dichiarato in Parlamento “ho paura” ha ammesso quello che è l’autentico stato d’animo della classe politica italiana e se un Ministro Guardasigilli arriva a dire questo vuol dire che la situazione è davvero preoccupante. La sensazione è che la democrazia sia quotidianamente messa in discussione da una corporazione di intoccabili i quali possono disporre di mezzi e risorse illimitate per esercitare la propria volontà su tutta la società. E’ necessario documentarsi, è indispensabile dubitare sempre, è opportuno ascoltare le poche voci fuori dal coro.

Quella fabbrica di pentiti che ha annientato Contrada di Lino Jannuzzi - venerdì 28 dicembre 2007

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del ‘92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro. Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso.Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi».Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola… VELENI DI PALERMO È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino… ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra… ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa.Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino… ». PENTITI VERI E PENTITI FALSI Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato. E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia». CAMPAGNA DENIGRATORIA E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico». ACCUSE SENZA PROVE Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo? Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto. Lino Jannuzzi