sabato 26 gennaio 2008

FEDERICO SALVATORE - Il Peto Nel Regno Di Napoli

SCORREGGE REALI.

GIOVANNI ALLEVI - Aria

LA SCORREGGIA CREATIVA.

PUBBLICITA' VIGORSOL - Scoiattolo

LA SCORREGGIA BENEFICA

TEMPESTE INTERIORI


Quali sono le cause delle devastanti tempeste interiori , di quegli tsunami endogeni così dirompenti da minacciare seriamente la nostra esistenza? Perché in certi momenti della nostra vita ci sembra di morire quando siamo attraversati da una misteriosa energia così potente da tagliarci in due? Cos’è quell’impulso irrefrenabile che ci spinge a uno svuotamento immediato della nostra personalità?
Le risposte possono essere diverse e articolate ma una cosa è certa: siamo entrati in contatto con qualcosa di estremamente pericoloso. Che si tratti di un’enorme zuppa di legumi misti o una ricca porzione di lampascioni (meglio lampagioli) fritti, il risultato non cambia: abbiamo un problema.
La nostra esistenza, che Blaise Pascal ha paragonato a quella di una canna pensante si trasforma mostruosamente in un tubo di gas metano o, meglio, in un otre invaso da tremende turbolenze gassose alla costante ricerca di una via d’uscita. In questi momenti tutto il nostro “esprit de finesse” (rimanendo in ambiente pascaliano) che abbiamo così abilmente esercitato nella scelta e nella degustazione di un vassoio di carciofi alla giudia, va a farsi benedire. Ci sentiamo trasformati in una sagoma da incubo, come nel Dottor Jekill e Mister Hyde, il nostro corpo muta il suo aspetto: il ventre diventa teso come la pelle di un tamburo emettendo orrendi e imbarazzanti borborigmi, la sudorazione è diffusa e abbondante, il volto si irrigidisce, le gambe diventano pesanti e sono in grado solo di fare piccoli, ridicoli, passetti. Il respiro è corto, compare una spaventosa sensazione che delle mani invisibili si divertano ad annodare il nostro intestino secondo le vecchie usanze della marineria. E’ statisticamente provato che accidenti di questo genere accadono quasi sempre quando non si è soli, non si è a casa propria, non esiste un giardino o un luogo appartato nel raggio di tre chilometri. E’ inoltre statisticamente confermato che l’unica toilette disponibile sia molto frequentata e non acusticamente isolata. L’angoscia, la disperazione e il dolore cominciano a procurare strane allucinazioni e idee molto pericolose, come quella di allontanarsi con la scusa di sgranchirsi le gambe e cercare l’angolo più remoto dove poter alleggerire la pressione interna in modo discreto e silenzioso. Questa è una pessima idea. Prima di tutto perché non conosciamo la vera natura del mostro che è in noi, non ci è dato di sapere se si tratta di (mutuando la terminologia geologica) un soffione, di un geyser o addirittura di un vulcano. Corriamo il serio rischio di trovarci in un batter d’occhio nella tragica situazione di non poterci più sedere e di avere incollato sul nostro di dietro il naso del cane del padrone di casa. Meglio fingere un infarto e farsi portar via dall’ambulanza. L’unica cosa da fare, invece, è guadagnare subito la toilette fingendo di essere in preda ad un attacco di tosse convulsa. Attenzione però, i colpi di tosse procurano una contrazione diaframmatica che può, a sua volta, far perdere il controllo della situazione, meglio non esagerare.
Una volta chiusi nella toilette potremo tossire all’impazzata in modo da coprire altre sonorità particolarmente imbarazzanti. Ma non dobbiamo illuderci, non finisce qui purtroppo. Abbiamo solo momentaneamente neutralizzato il primo attacco, fra non molto ne seguiranno degli altri e noi non possiamo passare la serata nella toilette a tossire continuamente. E’ necessario organizzare una dignitosa ritirata prima che possa venire il peggio. Andando via, è importante non lasciarsi convincere a bere il bicchiere della staffa, potrebbe essere fatale. Anche un semplice caffè può innescare una reazione a catena incontrollabile, a questo punto potrebbe accadere che la toilette venga occupata da un collega di sventura e non rimanga altro che uscire sul balcone con la scusa dell’ultima sigaretta. Se fuori non c’è nessuno potremo cimentarci in qualche scorreggia di alleggerimento, in caso contrario bisogna stare molto attenti: trovare un posto a favore di vento, valutare bene la temperatura esterna (se l’alito fuma, fumerebbe anche qualcos’altro), non appoggiare le terga a superfici che potrebbero rivelarsi degli ottimi conduttori acustici (legno, metallo). In questi momenti particolari siamo in grado di cogliere il senso più autentico dell’esistenza, solo ora abbiamo la piena consapevolezza delle miserie umane e di come il nostro raziocinio sia limitato di fronte alla potenza della natura. Poche molecole di gas sono sufficienti a trasformarci in animali in pena. Sul balcone, immobili, con gli occhi liquidi e lo sguardo nel nulla siamo concentrati sui nostri moti intestinali, lei, bella e raggiante, ci ha raggiunti confidando in un intimo scambio di dolci promesse. E’ la triste metafora della nostra esistenza: progettiamo e organizziamo per veder tutto per aria al minimo soffio di vento.

ROBERTO BENIGNI

NOMINARE IL SESSO.

ENRICO BRIGNANO - Io per voi un libro aperto

NOMINARE LA PROLE.

NOMEN OMEN


Il mio nome è Bond, James Bond”, questa frase è ormai entrata nell’immaginario collettivo come un paradigma da seguire quando ci si presenta per la prima volta ad un interlocutore. Il successo di questo modello non è dovuto solo al personaggio di Ian Fleming, esso rappresenta un modo semplice ed elegante di presentarsi, un modo inequivocabile (visto che il cognome viene ripetuto due volte) e, se vogliamo, anche garbatamente mascolino. La questione è che tutto è perfetto grazie ad un nome che è di per sé perfetto (chissà quanto tempo ci ha messo Fleming nell’inventarlo). Se infatti accantoniamo il nome Bond per sostituirlo con un altro meno fortunato avremo questo risultato: “ Il mio nome è Cantacessi, Ignazio Cantacessi “, è tutta un’altra storia…E’ evidente che, al di là del modello, è proprio il nome a fare la differenza, a determinare il successo della presentazione. Ebbene sì, nella vita anche il nome può svolgere un ruolo determinante, come si può nascere con gli occhi storti, le orecchie a sventola o con un naso esagerato così può accadere che il caso (con un eventuale perversa complicità dei genitori) decida di appiopparci un brutto nome, un nome ridicolo o un nome cacofonico. E siccome l’antica saggezza popolare (nomen omen) così come la più recente linguistica (significante/significato) danno grande importanza alla parola (con le sue implicazioni metafisiche: Logos e Verbo) ne consegue che il nome delle persone (da intendersi come nome proprio e cognome) può rappresentare un bel problema e un notevole handicap.
Chi potrebbe sostenere che se Napoleone Bonaparte si fosse chiamato Gavino Cozzolicchio avrebbe avuto lo stesso identico destino? E se la seducente Josephine Buharnais fosse stata Annette Le Canard (Annina L’Anatra) avrebbe sposato Napoleone? Forse Annette e Gavino si sarebbero ugualmente innamorati, ma sicuramente nel loro destino ci sarebbe stato dell’altro, non so, una cosa tipo commercio all’ingrosso di ostriche o di fois gras.
L’Italia è un paese con una grandissima varietà di cognomi in proporzione al numero di abitanti. Naturalmente in questa gran varietà ve ne sono di veramente particolari che vanno dall’osceno al ridicolo. Troviamo i Cazzone, Cacchione, Ricchioni, Ficarotta, La Vacca, Porcelli, Linsalata, Cipolla, Latrota, Lavopa, Latrippa, Lamorte, Cacatelli, Cocozza, Piscione e tanti altri. Questi piccoli capolavori dell’onomastica familiare che la dicono lunga sulle nobili origini dell’umanità basterebbero da soli a schiantare le più entusiastiche speranze di successo, invece non basta. A questo punto entrano in ballo i genitori, i quali, facendo finta di non ricordare le ingiurie e gli sfottò che li hanno perseguitati fino all’età adulta, si apprestano a crocifiggere i figli con dei nomi propri per nulla adeguati all’orrenda tragedia del cognome. Per questo saranno maledetti per sempre. Infatti non è difficile imbattersi in Eva La Vacca o in Gustavo Latrippa, per non parlare di Serena Lamorte, Libero Latrota, Gaia Cocozza, Omar Loturco, Modesto Ragno. Poveri sventurati vittime dell’imbecillità dei genitori. Per quanto riguarda i nomi propri, la consuetudine del passato che prevedeva che si tramandassero di generazione in generazione è ormai desueta. In passato gli unici nomi che non seguivano questa regola erano quelli attribuiti ai trovatelli, ma di solito la creatività si sbizzarriva nei cognomi (Esposito, Proietti, Diotallevi, Dioguardi, ecc.) ed erano pochi i casi in cui ci si rifaceva ad altre fonti come i miti letterari (particolarmente usato era Edmondo Dantes, il protagonista del Conte di Montecristo, così come Alessandro Manzoni).Da cinquant’anni a questa parte i mezzi di comunicazione di massa (cinema, fotoromanzi e televisione) hanno determinato, fra le altre cose, anche una nuova moda onomastica, infatti sono sempre più frequenti nomi come: Raffaella, Barbara, Romina, Ylenia, Michela, Sara, Simona, Patrick, Jonathan, Samuel, Kevin. Nelle classi sociali più colte, invece, la tendenza è verso nomi italiani ritenuti particolarmente belli: Marco, Roberto, Alessandro, Livio, Fabrizio. Il nome proprio perde la sua funzione storica (il perpetuarsi attraverso le generazioni) per assumerne una di tipo edonistico (il nome “suona” bene ed è alla moda). Nel giro di non molte generazioni spariranno completamente molti nomi propri (Gaetano, Nicola, Domenico, Saverio, Felice, Pasquale, Filippo, Salvatore, Ignazio, Vito, ecc.) e con essi la storia familiare e sociale di cui sono stati testimoni. Niente di grave, la cultura e la società si evolvono in altre direzioni, è già successo in passato. Una sola modesta raccomandazione ai genitori: nella scelta del nome abbiate buon senso, chiamarsi Kevin Perchiazzi o Ylenia Lavermicocca è una tragedia senza rimedio.

BLOGGO, ERGO SUM


Il Blog è una forma di comunicazione multimediale diffusa attraverso il Web. La sua caratteristica principale consiste nella facile accessibilità da parte di chiunque possieda un personal computer e disponga di un accesso a Internet, il costo è praticamente zero se non si calcola il tempo necessario all’allestimento e alla gestione e il costo di collegamento alla rete telefonica. Vi sono tantissime tipologie diverse di Blog, ma tutti tendono ad assolvere alla stessa funzione principale: comunicare. Ci sono Blog specializzati in particolari argomenti (politica, scienza, letteratura, musica, cinema, arti figurative, giardinaggio, gastronomia, esoterismo, ecc.) ed altri strettamente connessi alla personalità dell’autore, ai suoi interessi, alle sue opinioni e alla sua affettività. Questi ultimi assolvono un po’ alla funzione che in passato (ma anche tuttora) svolgevano i diari personali: uno spazio da riempire con le proprie riflessioni su problematiche ed accadimenti vari, in cui emergono le intime connessioni fra la vita sociale e quella interiore, il tutto narrato con sincerità e senza scopi precisi. Ovviamente c’è una grande differenza fra un diario e un Blog: la riservatezza. Così come il diario viene raramente concesso alla lettura di altre persone (se non particolarmente intime e fidate), di contro il Blog nasce con lo scopo opposto: mettersi a nudo, mostrare se stessi a chiunque sia interessato, senza alcun tipo di limite. Probabilmente il perché di tutto questo sta nel fatto di essere convinti di avere qualcosa da dire che interessa alla gente e/o di voler conoscere come la gente risponde a quelle domande e a quei dubbi che ci tormentano spesso. La figura del blogger è paragonabile a quella della vox clamantis in web, di colui che erra nello spazio virtuale della rete invocando aiuto e conforto sui propri dubbi e soprattutto sulle proprie paure. Il Blog non è un pulpito (anche se vi sono dei siti con queste caratteristiche) dal quale pontificare, esso è piuttosto una sorta di confessionale pubblico attraverso il quale ci si può spogliare del costume di scena col quale si affronta la vita quotidiana per essere finalmente se stessi. E’ un atto liberatorio che ha molto in comune con una seduta psicoanalitica in cui, però, non c’è un esperto a cui affidarsi ma un gruppo variabile di persone comuni disposte a confrontare le proprie esperienze e condividere idee, delusioni e dolori. Una conseguenza inevitabile di tutto ciò è la nascita di piccole comunità virtuali di bloggers che, a loro volta, diventano utenti abituali di altri Blog a loro particolarmente vicini per contenuti e/o per affinità di altro genere. Si crea, così, un complesso sistema di comunicazione fra persone che condividono esperienze e confrontano opinioni. Il Blog diventa un mezzo potente di socializzazione e di discussione orientato prevalentemente sulle problematiche esistenziali, affettive e familiari. Non esiste un identikit del blogger, l’età spazia dai 15 agli over 70, la percentuale del genere è equamente divisa fra uomini e donne, lo stato sociale varia dal pensionato al professionista, il livello culturale è anch’esso piuttosto variabile. Tanta gente diversa con un’unica grande aspirazione: farsi conoscere e comunicare con il prossimo. Il grande successo di questo mezzo di comunicazione consiste, prima di tutto, nel fatto che è disponibile a tutti , in secondo luogo esso rappresenta una reale possibilità di fare e fruire di informazione libera, non controllata da nessuno, in terzo luogo il Blog costituisce una formidabile occasione di autoaffermazione e di libero esercizio della propria individualità. Quest’ultima caratteristica è estremamente significativa se consideriamo che la società in cui viviamo è sempre più massificata e l’individualità viene cinicamente sacrificata sull’altare delle categorie di consumo. I sistemi di comunicazione di massa ci istruiscono sulla validità del pensiero unico, veniamo quotidianamente indottrinati dalle categorie critiche della televisione che vuole convincerci che la realtà sia quella che ci viene rappresentata, che pretende di insegnarci come vivere e come pensare. Il Blog è una zona franca in cui poter esercitare il libero pensiero, in cui far circolare idee e informazioni contro tendenza o, più semplicemente, un luogo dove è possibile dimostrare che io esisto, che la mia persona non accetta di essere considerata come un piccolo segmento di un grafico statistico. Il mondo dei Blog, considerata la sua totale libertà, è un vero e proprio universo; per questo motivo diventa piuttosto difficile selezionare le cose più interessanti fra tante piuttosto banali: bisogna armarsi di pazienza e cercare, sicuramente saremo premiati da una piacevole sorpresa. Non siate egoisti, una scoperta va subito comunicata agli amici bloggers. Condividere è fondamentale.

mercoledì 23 gennaio 2008

BANANA REPUBLIC n.1


“Ne ho fin sopra i capelli!!”, recita così il tormentone che ricorre nella piece teatrale di Bertold Brecht “Radio Ottobre”. E’, questa, un’imprecazione che sorge spontanea in tutti coloro che assistono agli ultimi avvenimenti nel nostro paese. Una classe politica allo sbando paralizzata da una lobby potente e compatta che pretende di governare attraverso l’uso del codice penale. Quelli che avrebbero dovuto essere i servi più fedeli dello Stato, coloro che dovrebbero garantire l’assoluta uguaglianza dei cittadini di fronte alla Legge, coloro che dovrebbero rappresentare la parte più nobile del contratto sociale, stanno mostrando un volto orrendo e pericoloso. La Magistratura italiana è in preda ad un delirio di onnipotenza senza precedenti. Quando Clemente Mastella ha dichiarato in Parlamento “ho paura” ha ammesso quello che è l’autentico stato d’animo della classe politica italiana e se un Ministro Guardasigilli arriva a dire questo vuol dire che la situazione è davvero preoccupante. La sensazione è che la democrazia sia quotidianamente messa in discussione da una corporazione di intoccabili i quali possono disporre di mezzi e risorse illimitate per esercitare la propria volontà su tutta la società. E’ necessario documentarsi, è indispensabile dubitare sempre, è opportuno ascoltare le poche voci fuori dal coro.

Quella fabbrica di pentiti che ha annientato Contrada di Lino Jannuzzi - venerdì 28 dicembre 2007

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del ‘92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro. Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso.Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi».Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola… VELENI DI PALERMO È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino… ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra… ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa.Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino… ». PENTITI VERI E PENTITI FALSI Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato. E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia». CAMPAGNA DENIGRATORIA E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico». ACCUSE SENZA PROVE Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo? Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto. Lino Jannuzzi

domenica 20 gennaio 2008

sabato 19 gennaio 2008

WORLD SAXOPHONE QUARTET

GREAT BLACK MUSIC n.2

giovedì 17 gennaio 2008

CANNONBALL ADDERLEY - Jive Samba

GREAT BLACK MUSIC n.1

IL POTERE


Dice un antico proverbio siciliano: “cummannari è megghiu ca futtere”. Questo adagio popolare rivela in modo colorito, ma estremamente efficace, quella che è la maggiore aspirazione dell’essere umano: comandare, ovvero esercitare sul prossimo il proprio potere e il proprio volere. In effetti, a ben guardare, la nostra vita è caratterizzata dallo scontro continuo e incessante fra il desiderio di soddisfare i propri bisogni e gli ostacoli che ci impediscono di farlo liberamente. Appena nati cominciamo a pretendere soddisfazione e piangiamo per fame, per desiderio di affetto e anche per nulla, giusto per saggiare l’intelligenza dei nostri genitori e il nostro potere nei loro confronti. Crescendo, con l’uso della parola e l’autonomia del movimento, si aprono nuove strade di conflitto basate sul cibo (che soddisfazione vedere il papà attonito e la mamma disperata quando sputiamo nel piatto una pietanza sgradita o ci rifiutiamo di assaggiarla), sul comportamento (tutto ciò che è vietato va sperimentato), sulla scuola, sulla soddisfazione immediata di bisogni (giocattoli, gelati, patatine) e soprattutto sul dominio della televisione. Adler, allievo di Freud e fondatore di una sua scuola psicoanalitica, sosteneva che (smentendo il maestro) l’impulso primario in ogni uomo non è di tipo sessuale bensì un impulso per l’affermazione di se stessi e l’esercizio della propria volontà. E quindi quello che noi siamo è il prodotto di un atavico istinto di affermazione sugli altri e a spese degli altri naturalmente mediato dalle componenti caratteriali e dalle circostanze contingenti.
Quando parliamo di potere dobbiamo essere precisi evitando le generalizzazioni e i falsi miti. Per esempio, è vero che chi possiede denaro ha potere ma non è vero il contrario. Si può disporre di molto potere senza possedere denaro. Così come si può impiegare il potere a proprio esclusivo vantaggio materiale, inoltre si può usare il potere a vantaggio della comunità ma soprattutto si può esercitare il potere per il solo piacere di farlo. In quest’ultimo caso l’unica vera contropartita è il desiderio di onnipotenza ovvero la prova materiale dell’assoluta superiorità antropologica dell’individuo sui suoi simili. Potremmo definirlo delirio divino o desiderio assoluto di essere simile a Dio. Non a caso nella storia, il potere totale, quello della monarchia assoluta, era diretta emanazione di Dio e, ancora, non a caso nelle tirannie di altro genere (nazismo, fascismo, stalinismo) si è abbattuta l’investitura divina per far posto alla Metafisica della Storia. La Necessità Storica di una nuova umanità sostituisce efficacemente il disegno divino.
In realtà quando parliamo del potere ci occupiamo di qualcosa di molto concreto e per nulla distante da noi. Il potere non è solo politico, economico e culturale, esso rappresenta anche la qualità e la quantità del nostro rapporto con il prossimo. Noi, nel nostro piccolo, esercitiamo quotidianamente la nostra quota di potere cercando, quando è possibile, di aumentarlo e stando molto attenti a non perderlo. Nella dimensione lavorativa, la carriera e il successo sono obiettivi che hanno a che fare direttamente col potere. Nella famiglia, la coesione e la buona convivenza sono aspetti direttamente collegati al potere. L’amicizia è basata sulla piena disponibilità reciproca del proprio potere. In amore, invece, le cose sono piuttosto complesse poiché il potere si basa sul terrore della perdita. In amore il nostro potere è direttamente proporzionale alla paura dell’abbandono del partner. In più c’è da aggiungere che questo timore genera un senso di dipendenza fisica piuttosto imbarazzante che si tende in qualche modo a nascondere. Esiste anche il potere che esercitiamo su noi stessi e che riguarda la nostra capacità di controllare più o meno efficacemente le manifestazioni emotive e tutta la sfera che riguarda il rapporto con gli altri. Il potere su se stessi è il più misterioso ed affascinante, poterne disporre pienamente è un’impresa difficile e profondamente appagante.
La nostra vita è un’orgia del potere in cui, a volte, è molto difficile distinguere gli intrecci e le dinamiche, è praticamente impossibile sottrarsi a tutto questo ed è maledettamente impossibile riuscire a fare un bilancio esatto della situazione, l’unica consolazione è che il caso rende tutto relativo. Anche il potere più assoluto trema di fronte a quel segno di parentesi che chiuderà per sempre la propria esperienza.

mercoledì 16 gennaio 2008

STELLE


Nel cielo di una notte d’inverno mi perdo,
dal mio alito fumante salgono lacrime
e un gemito nascosto, silenzioso, senza perché.
Vento, silenzio, notte, stelle.
La vita si trascina algida e avara.
Le stelle seducono lo sguardo spingendo la vita
all’estremo limite del vuoto, invitano all’abbandono.
La luce siderale mi schiaccia al suolo, perdo l’equilibrio
fissando grumi lattiginosi di stelle distanti milioni di anni luce.
Osservo sbigottito il passato remoto che illumina il presente.
Stanotte, al supermarket del dolore ci sono i saldi.

IL REGNO DI NAPOLI



Lo spettacolo scandaloso di fine anno, Napoli e dintorni sommersa dai rifiuti, non è che una logica e tristissima conclusione di un lento percorso di distruzione delle risorse, della cultura e dell’orgoglio del Mezzogiorno d’Italia. Dal 1860 fino ad oggi si è perseguita una politica di rapina e di affossamento del sud a favore dello sviluppo industriale del nord. Con la scusa dell’unità d’Italia si è consumato un feroce ladrocinio calpestando ogni tipo di diritto internazionale; con la complicità della nuova classe dirigente italiana si è poi organizzato un efficiente sistema di bugie e falsità storiche, tuttora in auge nelle nostre scuole, allo scopo di giustificare in chiave risorgimentale e di libertà tutta la sporca vicenda dell’unità d’Italia. L’annosa questione meridionale, i cui effetti possiamo ammirare sparsi nelle strade di Napoli e dintorni, nasce proprio con la conquista e l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Col furto sistematico e la spoliazione di uno stato sovrano i cui titoli erano quotati alla borsa di Parigi, acquistati e scambiati in tutta Europa.
Nel 1860, Giuseppe Garibaldi come entrò a Palermo pretese che il Banco di Sicilia gli versasse la modica cifra di 2.178.818 ducati, dei cinque milioni ivi custoditi. In cambio rilasciò un foglietto “per ricevuta di spese di guerra” e l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il tutto. La ricevuta è ancora conservata nell’archivio storico della banca, ma non è stata mai onorata.
In quel periodo Napoli era la terza città d’Europa, nelle sue province si lavorava il ferro, la ceramica, i filati. Le fabbriche di Pietrarsa e l’Opificio Reale costituivano il più grande complesso siderurgico dell’Europa del Sud, vi lavoravano 1.000 operai e altri 7.000 vivevano dell’indotto. La fonderia Orotea di Palermo, della famiglia Florio, era famosa nel mondo per i suoi prodotti di precisione, impiegava 600 operai. Venne smantellata perché fosse sostituita dall’Ansaldo di Genova. Il settore tessile era alla totale avanguardia in Europa, lo stabilimento di Piedimonte d’Alife, dello svizzero Egg, contava 1.300 operai, 36 filatoi e 500 telai. La maggiore filanda del nord, la Conti di Milano, impiegava solo 415 operai. A Scafati, Pallenzano e Salerno vi erano le industrie di Mayer e Zollinger, a San Leucio fu creata su 80 ettari di terra la più prestigiosa seteria d’Europa nonché unico esempio di comune operaia. A Napoli Guppy & Pattison avviarono una fabbrica di macchine a vapore che occupava 1.200 operai. Il cantiere navale di Castellammare occupava 2.000 persone. La flotta del regno delle due Sicilie contava 40.000 uomini di equipaggio. Il Napoletano era la regione italiana più industrializzata con 1.189.000 operai pari al 37% degli attivi, contro i 345.000 del Piemonte, pari al 17% (dati del censimento in occasione dell’Unità d’Italia). Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie rappresentava un gettito economico di 443,2 milioni, mentre il Regno di Sardegna ne poteva contare solo 27. Il meridione d’Italia, da solo, batteva il doppio delle monete di tutti gli altri stati in Italia. Nel giro di tre anni (1860-1863) l’erario di Napoli passò a zero, da Torino furono mandati 4 milioni per far fronte ai bisogni più immediati. In poco tempo il nuovo stato mise in ginocchio l’economia arrivando a far pagare, nel 1866, a ventidue milioni di italiani il doppio di tasse di quanto avevano pagato diciannove milioni di prussiani. Nell’ultimo anno di regno borbonico, la Sicilia pagò 32 milioni di tasse. Nel 1861 i Savoia aumentarono le tasse del 56% raggiungendo i 50 milioni. Nel 1866 70 milioni, nel 1890 200 milioni. Nell’Italia unita lo stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per quello del Sud. Furono investiti per la bonifica idraulica 267 milioni nel triangolo Torino-Verona-Grosseto e 3 milioni in tutto il regno delle due Sicilie.
Inutile continuare, è evidente che il sud d’Italia è stato conquistato e depredato di tutte le sue grandi ricchezze da una dinastia di reali d’accatto, usurpatori e opportunisti, buoni solo ad affamare la gente. Fenomeni come la mafia e la camorra diventeranno cruciali grazie al ruolo che gli verrà riconosciuto da Garibaldi e dai suoi compari nel reclutamento di “picciotti” per risalire la Sicilia e per sedare la pubblica opinione chiaramente filoborbonica nella città di Napoli. Non sarebbe male se oltre a ripulire le strade si procedesse a ripulire i libri di storia, le menzogne che ci hanno raccontato sono molto più schifose di tonnellate di rifiuti.

venerdì 11 gennaio 2008

CARMELO BENE chiama Benigni: Lectura Dantis

UN ALTRO PUNTO DI VISTA.

ROBERTO BENIGNI - Dante - Quinto canto dell'Inferno

E caddi come corpo morto cade.

LA COMMEDIA CATODICA


Il successo della Lectura Dantis di Roberto Benigni è andato oltre ogni rosea aspettativa. Onore a Roberto Benigni innanzitutto, ma non solo; infatti questo successo non è imputabile solo alla bravura affabulatoria, alla sensibilità e all’intelligenza del tanto amato comico toscano, c’è sicuramente qualcos’altro che spinge l’utente televisivo a seguire con convinto entusiasmo lo spettacolo in seconda serata. La Commedia dantesca contiene al suo interno una enorme forza seduttiva che si sprigiona al massimo della sua intensità solo quando viene declamata; la potenza della parola, la musicalità del verso, l’incisività e il colore delle immagini, si compiono nella parola detta, nel suono espresso, nell’umana consistenza del flatus vocis. Dante compone pensando alla parola detta, non solo letta. Egli vive ed agisce in un periodo in cui la cultura orale è ancora viva e brillante dell’indispensabile componente sonora; la rivoluzione tipografica di Gutenberg, che trasformerà l’oralità in cultura visiva, è ancora da venire. Nonostante il fatto che la Commedia sia l’opera letteraria più studiata nella scuola italiana e che quindi goda di una popolarità assolutamente superiore rispetto a qualsiasi altra opera della letteratura nazionale, ogni qual volta ne viene riproposta la lettura essa gode di un grandissimo interesse da parte di un pubblico estremamente eterogeneo. E’ evidente che è impossibile sottrarsi alla seduzione dei versi di Dante, così come è impossibile non rimanere coinvolti nella narrazione di una storia così avvincente. La poesia dantesca va ascoltata, l’affabulazione è indispensabile sia per l’intima comprensione del testo che per l’effetto evocativo del suono delle parole. Secondo la più autentica tradizione orale, il mistero della parola si compie solo quando essa viene pronunciata, la forza della parola si realizza nell’essere detta (benedicere/maledicere), la stessa Parola di Dio (in quanto Verbo) esercita il suo tremendo potere solo se affermata. Una componente fondamentale del successo di Benigni consiste anche nel commento che egli fa di ogni canto, prima di procedere alla lettura. Pur rifacendosi al lavoro di dotti e brillanti dantisti, Benigni punta alla spiegazione più semplice ed accessibile mostrando di non volersi perdere in problematiche esegetiche, riservate agli studiosi, ma senza sottrarsi all’indicazione di quei passaggi in cui Dante tira in ballo la filosofia e la teologia. Benigni attinge a piene mani alla propria vis comica, attraverso la mimica facciale e di tutto il corpo si impegna nell’illustrare i versi danteschi e nello spiegare le parole e le similitudini; quel che colpisce lo spettatore non è solo la grande efficacia della sua arte quanto soprattutto la sincera passione e l’autentico entusiasmo che riesce a trasmettere. Questa è una chiave assolutamente nuova, altre letture fatte nel passato da attori prestigiosissimi come Vittorio Gassman, Enrico Maria Salerno, Giorgio Albertazzi, seppur costruite su una finissima attenzione della dicitura e del costrutto, risultavano più fredde e distaccate là dove Benigni, invece, manifesta apertamente un’entusiastica adesione emotiva che produce l’effetto di avvicinare lo spettatore alla poesia e, di conseguenza, rendere vivo ed attuale il racconto dantesco. Il progetto di Benigni è quello di riuscire a realizzare una sorta di vulgata, una traduzione essenzialmente emotiva in cui l’uomo contemporaneo può identificarsi nel momento in cui riesce a cogliere la forza poetica, l’impeto narrativo e la tensione morale e spirituale profusi da Dante Alighieri. E in effetti, al di là della grandezza assoluta della poesia, dalle letture di Benigni emerge una figura dantesca assolutamente moderna, di un’attualità quasi sconcertante, insomma un Dante che avremmo tutti voluto studiare a scuola e che invece ci hanno insegnato ad odiare a causa di docenti catalettici e programmi fossili.
Nel panorama escrementizio della televisione italiana lo spettacolo di Benigni rappresenta una vera e propria eccezione e nonostante costituisca una prova evidente che la qualità può essere anche quantità pare che il futuro non ci riservi delle inversioni di tendenza nella programmazione televisiva. Dobbiamo rassegnarci a vedere serial tv sempre più insulsi, quiz per dementi e spettacoli in cui la classe politica dimostra di aver perso ogni pudore nel mostrare il proprio vero volto: facce da culo con cervelli di plastica. Meglio spegnere la televisione e uscire “a riveder le stelle”.

giovedì 10 gennaio 2008

DINO RISI - I Mostri (1963)

LA BONTA' DELL'UOMO.

Sometimes I Feel Like A Motherless Child

Sometimes I feel like a motherless child
Sometimes I feel like a motherless child
Sometimes I feel like a motherless child
Long way from my home
Sometimes I wish I could fly
Like a bird up in the sky
Oh, sometimes I wish I could fly
Fly like a bird up in the sky
Sometimes I wish I could fly
Like a bird up in the sky
Closer to my home

Motherless children have a hard time
Motherless children have-a such a hard time
Motherless children have such a really hard time
A long way from home

Sometimes I feel like freedom is near
Sometimes I feel like freedom is here
Sometimes I feel like freedom is so near
But we're so far from home

SOMETIMES I FEEL LIKE A MOTHERLESS CHILD


Il testo di questo bellissimo spiritual è estremamente attuale e riflette una condizione emotiva molto comune ai giorni nostri. Il senso di spaesamento, di inadeguatezza, la mancanza di un punto certo di riferimento: tutto ciò produce una condizione di disperata solitudine in cui ci si sente inutili e soprattutto incompresi. E’ ovvio che in una società, come quella contemporanea, in cui gli spazi della morale e dell’etica si siano dilatati e quelli della fiducia nella politica si siano ristretti, accada che per moltissime persone diventi molto difficile riuscire a individuare dei criteri soddisfacenti su cui basare la propria esistenza e dei valori certi su cui basare le proprie speranze per il futuro. A ciò va aggiunto un altro elemento molto importante: la società contemporanea è una società edonista e deve, per spingere al massimo i consumi, rappresentare il dolore, il disagio e la sofferenza come elementi estremamente negativi che devono immediatamente essere allontanati dalla nostra vita. Il dolore è fonte di instabilità, di riflessione profonda, di autocritica spietata; il dolore è una seria minaccia per la società dei consumi la quale vuole le persone alla continua ricerca dello star bene, del sentirsi in forma, dell’essere accettati dalla comunità e addirittura ammirati e invidiati. Il dolore e la sofferenza sono stati confinati all’interno di spazi chiusi e specializzati, come se si trattasse di esperienze limite, di casi eccezionali. Genitori, pedagoghi ed educatori sono impegnati soprattutto a evitare traumi e sofferenze ai bambini come se assistere alla morte del nonno fosse più traumatico di dover subire la separazione dei genitori o prendere uno scapaccione al momento giusto fosse molto più deleterio che assistere a una lite furibonda tra il padre e la madre. Evitare e quindi negare l’esperienza del dolore ai giovani è una pratica estremamente diffusa, ma è una pratica criminale poiché tende ad una rappresentazione della realtà falsa che porterà a delle conseguenze estremamente negative. Il dolore, il senso di privazione e di solitudine sono elementi costanti nella vita dell’uomo, anzi, sono connaturati proprio all’essenza dell’umanità, il non essere in grado di gestire autonomamente questi stati d’animo è pericoloso per sé e per chi ci circonda. La quantità di giovani disadattati, inermi di fronte alle difficoltà e alle delusioni della vita è in costante aumento: non sopportano le proprie sembianze fisiche, la propria diversità intellettuale ed emotiva, le differenze di stato sociale, le critiche, il dover imparare a fare delle rinunce, l’affrontare le difficoltà delle scelte, l’impegno e la costanza che richiede l’interpretazione della realtà. E quindi risulta molto più facile che ora la gioventù, una volta di fronte alla dura realtà, cerchi di evadere dai drammi quotidiani attraverso l’uso di varie sostanze che alterano la coscienza e la percezione della realtà. In passato chi aveva il privilegio di accostarsi alla cultura aveva la grande opportunità di confrontare le proprie esperienze e i propri sentimenti, ad esempio, col Giovane Werther di Goethe o il Giovane Torless di Musil, scoprendo che l’uomo si pone, da sempre, gli stessi interrogativi e che, da sempre, soffre delle stesse lacerazioni e profonde delusioni. L’amore (etero ed omosessuale), la solitudine, l’inquietudine, i dubbi metafisici, il senso di inutilità della vita, il mistero della morte, la delusione verso il prossimo, la brama per il potere, tutto ciò è parte integrante dell’essere umano, è una condizione che l’uomo ha sempre espresso in modi e toni diversi nella sua storia. Non c’è niente di nuovo sotto il sole del ventunesimo secolo. Pensare il contrario è un atto di presunzione e di gretta ignoranza. La cultura afroamericana ha coniato l’espressione to have the blues, oppure to be blue, proprio per sintetizzare con poche parole quella condizione esistenziale che, in certi momenti, ci rende la vita insopportabile e vuota. In quei momenti tutto ci sembra inutile, senza scopo e una grande sofferenza ci induce a riflettere sulle nostre azioni, sui nostri comportamenti, sui nostri sentimenti; proprio in quei momenti, così dolorosi, noi viviamo pienamente la nostra condizione umana, che è unica su questo pianeta. E’ uno stato di estrema vulnerabilità emotiva che sfugge ad ogni classificazione razionale, in quei momenti cose come il successo, lo stato sociale, il potere, non hanno alcun significato e ci sentiamo ridotti ad un pugno di ricordi e di sentimenti, soli di fronte al mondo e a noi stessi. Ecco, in quella situazione noi compiamo la nostra condizione di esseri umani, solo allora comprendiamo pienamente i nostri limiti, solo allora non ci sentiamo superiori alla natura e al nostro prossimo. Cercare di fuggire, di evitare questo stato è profondamente sbagliato perché questa è la nostra autentica condizione ed è anche l’unica condizione che ci consente di vivere i momenti di gioia che ci riserva la vita in totale e perfetta consapevolezza. Lo zen della felicità passa attraverso la cupa esperienza del dolore.

lunedì 7 gennaio 2008

Sheila E and Tito Puente

FORZE DELLA NATURA.

BUDDY RICH - drum solo (1970)

UNA PROVA DELL'ESISTENZA DI DIO.

PINO DANIELE - EROS RAMAZZOTTI NUN ME SCOCCIA'

TANTO MUORI PURE TU.

domenica 6 gennaio 2008

LOREDANA BERTE' - Il mare d'inverno

ESSERE FUORI STAGIONE.

LUCIO DALLA - Come E' Profondo Il Mare (1977)

IL MARE, NONOSTANTE TUTTO.

PELLEGRINO


Pellegrino Appulo verso il santuario della Coscienza,
ho il mare negli occhi, il suo rombo nelle orecchie.
Ogni cosa vista trasfigura in liquida superficie,
ogni cosa udita si dissolve in suono d’acqua in movimento.
Non c’è latitudine che sconfigga l’allucinazione primigenia.
Cerco l’orizzonte mobile al di là del quale i sogni sono realtà.
Il ricordo riempie gli occhi di lacrime, un brivido percorre la pelle.
Il mare sa quello che sono stato, conosce quello che sarò,
custodisce quando e come non sarò più.
Forse la riva pietosa, che accoglie materna il naufrago, avrà pena di me.
Nonostante il mugghiare del mare, la spiaggia benigna mi vorrà parlare.
Parole oscure, presagio ascoso nel fragore dei flutti, la fine celata nella risacca scrosciante.
Ovunque è il mare.
Nella murgia pietrosa, nelle verdi colline, nei boschi intricati, nei trulli ricoperti di licheni.
La pianura salata riverbera come la superficie marina.
Le bianche pareti del Monte Gargano sorgono dritte dalla spuma del pelago.
Le pietre e i tufi scavati nelle viscere della terra si dischiudono mostrando fossili abissali.
Le cripte delle bianche cattedrali trasudano sale emanando odore di vecchi acquari marini.
La tramontana salsa e feroce porta il fragore delle onde a rompersi sulle pendici del Vulture.
Bianchi gabbiani incrociano il volo coi falchi bruni nel cielo sulla terracqua del Levante.
Pesante è il fardello che trascino con me lungo la strada per la Coscienza.
Il tempo mi insegue senza sosta, la memoria mi rode le viscere senza pietà.
Nel silenzio che odora di finocchio selvatico sento le urla delle pietre spaccate dall’aratro,
le bestemmie dell’umanità sudata e miserabile contro le nuvole avare,
il pianto di pagane sepolture.
Nella luce accecante del sole meridiano ecco il mare testimone di vita e di morte.
Se giungerò alla fine del viaggio non troverò un oracolo a svelarmi il mistero,
ma saprò decifrare il linguaggio di Poseidone e potrò leggere il mio destino.
Pellegrino, povero e nudo, ho un voto da sciogliere, la promessa che non avrei mai cessato
d’esser testimone d’una vita contraddittoria e sofferente,
carica di pesi ancestrali e nuove miserie.
Dopo aver lottato contro le fredde e spietate correnti, giacerò sulla riva come un ciuffo d’alghe
in decomposizione, come una vuota opaca conchiglia,
come un grumo di nero catrame sulla pietra liscia.
Ovunque è il mare.
Alfa e omega dell’esistenza, scrigno infinito della coscienza, di selvaggia bellezza pura essenza.