Da quarant’anni (gennaio 1975)
Carlo Levi non è più nel mondo. La grande eredità artistica, poetica, letteraria
e politica che ci ha lasciato continua
tuttora a testimoniare una vitalità e un’attualità sorprendenti, poiché il solco
che ha arato nella nostra cultura è ancora profondo, fertile e, sotto molti
aspetti, ancora ricco di elementi su cui riflettere approfonditamente. La
fortissima spinta propulsiva impartita alla cultura italiana del dopoguerra (a
partire dal Cristo Si E’ Fermato A Eboli
in poi) non solo non si è esaurita, ma trova in questi tempi segnati dalla
disillusione, dall’incertezza, dall’esaurimento dei riferimenti simbolici e
culturali del novecento, una nuova forza e un’inaspettata carica eversiva.
Come ha lucidamente scritto
Franco Cassano nell’introduzione a Le
Ragioni Dei Topi (Donzelli Editore, Roma, 2004, pp.XXII-XXIII):
“ Si apre qui il punto più delicato e
importante del ragionamento di Levi. Questa attenzione per il mondo naturale e
per gli animali non è un desiderio di regressione, ma, al contrario, la
capacità di aiutare l’uomo contemporaneo ad acquistare una cultura più ricca e
più ampia, di andare al di là dell’esaltazione delle magnifiche sorti e
progressive del progresso tecnologico. L’espressione chiave, che ricorre in
modo sempre più fitto in Levi, è la «compresenza
dei tempi», la capacità di
un’umanità così larga da ospitare dentro
di sé l’intera complessità del mondo, la molteplicità delle sue forme di vita,
la ricchezza dei suoi ritmi. L’uomo moderno crede in una gerarchia e in un
racconto che esaltano l’accrescimento della sua potenza, misura il progresso
sulla base del grado di allontanamento della natura. Il suo etnocentrismo è
potente, ma rimane angusto, come ogni forma di etnocentrismo. Ebbene, la
compresenza dei tempi designa una prospettiva
totalmente diversa, di complicità e amicizia goethiana con il mondo e
con tutte le sue espressioni. (…) I piccoli sacerdoti del progresso, che lo
rimproverarono di nostalgie reazionarie, non erano in grado di cogliere la
forza di questa proposta perché essa valicava i poveri schemi del loro
catechismo. Levi fu un’anima larga, ospitale, aperta, attirata da tutto ciò che
non conosceva.
Se
noi siamo nelle cose con un rapporto di somiglianza, di vicinanza e comunanza,
con un rapporto di amore, […] allora queste cose raggiungono in noi la loro
autonomia. […] ogni volta che mi sono trovato o mi troverò di fronte a qualcosa
che fino ad allora mi era sconosciuto mi viene naturale buttarmici dentro come
in un rapporto reale e soprattutto […] mi viene di rapportarmi a questa cosa
nuova spogliandomi di tutte le conoscenze precedenti.
(…) Il sentimento della
compresenza dei tempi è quindi il sentimento di una fraternità primordiale,
capace di collegare l’enorme massa delle differenze che abitano il pianeta
evitando ogni fondamentalismo, l’avversione radicale per la convinzione che un
solo tempo possa contenere dentro di sé la perfezione. “
Ed ecco che la nuova
consapevolezza che ci sono dei luoghi dove «l’arcaico
è vicinissimo e familiare, ogni cosa rimane senza perdersi […] i secoli si
sovrappongono, […] e le contraddizioni divengono identità », altro non è che la rivelazione della
compresenza dei tempi. Una nuova attenzione ed un’amorevole cura di questi
luoghi, in cui natura e umanità convivono ancora senza soluzione di continuo,
diviene una prassi necessaria (anche se non sufficiente) affinché non si perda
definitivamente la dimensione di un’esistenza basata sulla relazione, sulla
solidarietà, sulla coltivazione della memoria collettiva. I paesi diventano
così luoghi d’elezione in cui si può contrastare attivamente la mutazione
antropologica che ha prodotto l’homo consumens, caratterizzato dall’”autismo
corale” che si celebra quotidianamente nei “non luoghi” consacrati al consumo
parossistico.
La compresenza dei tempi è il
nocciolo duro attorno al quale si solidifica la paesologia di Franco Arminio,
una scelta che parte dall’amore e dallo sguardo poetico verso questi luoghi ma
che si alimenta di tensione socio-politica spingendo ad una nuova
consapevolezza riguardo il destino della società e delle coscienze dei
cittadini. I paesi, luoghi consegnati dalla cieca violenza dell’economia alla
marginalità, diventano il centro geografico e culturale di incontro, di discussione,
di creazione, di elaborazione di nuovi progetti, di cura e di raccolta degli
innumerevoli giacimenti culturali e naturali che ancora in quei luoghi
sopravvivono mantenendo intatto il loro senso più profondo. Ma anche, e forse
soprattutto, luoghi di riflessione sulla falsa complessità della società
contemporanea, luoghi di meravigliosa riscoperta dei propri sensi come
recettori di poesia, luoghi in cui è possibile concepire un nuovo umanesimo e
una nuova prassi. Luoghi in cui si realizza il ritorno, il nostos, il ricongiungimento con la nostra dimensione più profonda
ed autentica.
Francesco Saverio Sasso