Rileggere Epicuro, evitando accuratamente la trattatistica superficiale e molti fra i manuali di filosofia in uso nei licei. Il pensiero epicureo (nonostante risalga al III secolo a.C.) è sorprendentemente attuale perché mette al centro della sua riflessione la condizione umana intesa come ricerca del piacere e rifiuto del dolore. Naturalmente sia il concetto di piacere che quello di dolore sono da intendersi in senso lato, ovvero sia da un punto di vista fisico che morale. Epicuro sostiene che la sofferenza rappresenti uno stato di alienazione e che l’uomo che soffre non possa disporre liberamente delle proprie facoltà fisiche e morali, e che quindi gli sia di fatto inibito il controllo di sé stesso e l’esercizio della propria condizione di essere razionale dedito alla interpretazione della realtà e dei suoi misteri. Egli osserva che anche la ricerca del piacere procura sofferenza e dolore poiché dopo l’estasi l’uomo precipita nuovamente nella realtà e si ritrova di fronte alle paure e alle ansie che aveva cercato di fugare. Quando dice: “non avremmo ragione alcuna di condannare gli intemperanti, se le cose da cui essi traggono piacere davvero riuscissero a fugare in loro la paura della morte, ad allontanare il dolore e a insegnare i limiti del desiderio” egli evidenzia la grossolana contraddizione dei comportamenti intemperanti i quali non producono nulla se non ulteriore frustrazione e dolore. Questi comportamenti sono inoltre soggetti ad un implacabile meccanismo di retro azione (feedback) attraverso il quale la sofferenza post estatica diviene sempre più insopportabile spingendo l’uomo a cercare di scacciarla con ulteriore intemperanza attraverso un’escalation che produrrà solo autodistruzione. Nella storia dell’uomo è sempre stato presente l’uso di sostanze stupefacenti ma con uno scopo ben preciso: consentire la comunicazione rituale tra umanità e divinità, favorire l’uscita dal mondo reale per poter esplorare il mondo metafisico ed ottenere risposte a domande precise. Il vino per i riti dionisiaci, la birra per quelli animisti, il fungo peyote per quelli sciamanici, altro non sono che dei medium per poter entrare nel mondo magico. L’uso non rituale, ma personale, di sostanze stupefacenti risponde ad una condizione di disagio esistenziale le cui radici possono essere molto diverse e variare dai contesti storico-sociali: il contadino delle Ande mastica foglie di coca per sopperire alla spossatezza delle grandi altitudini, l’operaio inglese della rivoluzione industriale si ubriaca di gin per anestetizzare la sofferenza di dodici ore di lavoro massacrante, il bracciante italiano (a nord come al sud) annega nel vino la fatica senza speranza di riscatto, l’uomo in carriera sniffa cocaina per essere sempre all’altezza della situazione, i giovani (adolescenti e non) si ubriacano e fumano cannabis per riempire il vuoto della disillusione, per intorpidire l’insicurezza, per illudersi di una vita passata all’insegna del divertimento e dell’immediata soddisfazione di tutti i bisogni. Alla fine appare chiaro che l’intemperanza, la pratica dell’eccesso, rappresenta il disperato tentativo di essere quello che non si è, di fare quello che normalmente non si farebbe mai, niente di più. I giovani intemperanti non si riconoscerebbero mai nelle parole di William Blake “ la via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza “ perché il comportamento estremo non viene visto come una ricerca dei propri limiti bensì nella celebrazione dell’assenza di ogni limite. In questi comportamenti non c’è una ricerca esistenziale ma una ricerca dell’annichilimento esistenziale; alla base del fenomeno esperenziale non c’è il desiderio di ricostruirsi, c’è solo la necessità di autodistruggersi, di frantumare se stessi in un modo emozionalmente unico, sempre diverso e sempre più estremo.
Tornando ad Epicuro, forse la sua risposta al dilemma del piacere e del dolore non è molto condivisibile (almeno ai giorni nostri) perché egli sostiene che solo l’atarassia (ovvero l’allontanamento da ogni esperienza emotiva, sia positiva che negativa) può garantire la vera serenità, solo tenendosi a distanza da ogni eccesso sarà possibile conseguire il piacere supremo. In ogni caso, quel che più conta dell’insegnamento epicureo è la conquista della consapevolezza che ogni cosa ed ogni esperienza può produrre effetti e conseguenze estremamente diverse fra loro e che ognuno di noi ha il dovere morale di valutare e riflettere anche sugli aspetti apparentemente più positivi della nostra vita.
Tornando ad Epicuro, forse la sua risposta al dilemma del piacere e del dolore non è molto condivisibile (almeno ai giorni nostri) perché egli sostiene che solo l’atarassia (ovvero l’allontanamento da ogni esperienza emotiva, sia positiva che negativa) può garantire la vera serenità, solo tenendosi a distanza da ogni eccesso sarà possibile conseguire il piacere supremo. In ogni caso, quel che più conta dell’insegnamento epicureo è la conquista della consapevolezza che ogni cosa ed ogni esperienza può produrre effetti e conseguenze estremamente diverse fra loro e che ognuno di noi ha il dovere morale di valutare e riflettere anche sugli aspetti apparentemente più positivi della nostra vita.
1 commento:
Sempre detto, io, di voler raggiungere uno stato di atarassia assoluta. E' che proprio non ci riesco.
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