Novembre è il periodo dedicato al culto dei morti, culto precristiano codificato nella mitologia classica dal mito di Persefone, condannata a vivere per sei mesi sulla Terra e per sei mesi nell’Ade. La persistenza nel Sud d’Italia di questo culto con forti componenti e simbologie risalenti al mondo antico è descritto molto efficacemente nel libro di Ernesto De Martino “Morte e Pianto Rituale”.
Al di là della fede religiosa e delle credenze personali, è indubbio che ogni singolo essere umano vivente conserva nella memoria un lutto, ovvero il ricordo e il rimpianto per la perdita di una persona cara. Che si sia credenti, atei o agnostici, è indiscutibile che ognuno di noi ha sperimentato la scomparsa di qualcuno al quale eravamo legati, ognuno di noi ha sperimentato il duro confronto emotivo (non dialettico, né teorico) con la morte e con la metafisica. Ogni volta che la morte giunge vicino a noi ci appare come uno scandalo, una cupa oscenità così definitiva e irrevocabile da spingerci a diventare blasfemi, rabbiosi, iracondi per la nostra somma impotenza. Non possiamo sopportare il “grande sonno” nel quale sono caduti i nostri cari e nel quale cadremo anche noi. Il cimitero, che in questi giorni si popola improvvisamente, è una sorta di città-dormitorio nella quale entriamo silenziosi, quasi in punta di piedi: sia che si preghi o si parli, lo facciamo a bassa voce con toni e movimenti cauti poichè la paura inconscia di svegliare i “dormienti” è grande e atavica. Passeggiare silenziosi lungo i viali di cipressi respirando un’aria strana ma inconfondibile, fatta di profumi balsamici delle conifere mista ad acuti sentori di fiori freschi e piante putride, al suono dei propri passi che interrompono gorgheggi e cinguettii di uccelli invisibili, produce un effetto particolare: una malinconica serenità ci pervade lentamente, così come emerge dentro di noi la consapevolezza di essere in un luogo sacro, anzi nel luogo più sacro del mondo. Non è una sacralità confessionale, bensì antropologica: è la certezza di essere in un luogo speciale nelle cui viscere sono custoditi i resti di un’umanità estinta, di ricordi, di speranze, di idee, di esperienze, di emozioni scomparse per sempre. Attraverso le fotografie sulle lapidi cogliamo quell’istante di vita congelata che impietosamente ci consente di sovrapporre ad un nome sconosciuto uno sguardo, una figura materiale che ha attraversato lo spazio e il tempo. Se non fosse per le date scolpite, per le fogge dei vestiti e le acconciature dei capelli, non saremmo in grado di distinguere uno sguardo fotografato qualche anno fa da un altro risalente a un secolo fa. L’umanità fermata dal fotogramma è la stessa, stessi dubbi, stesse paure, stessa gioia, stessa malinconia. E’ come scorrere un immensa galleria fotografica di attori che dalla fine dell’800 ad oggi hanno interpretato lo stesso dramma, una folla sterminata di interpreti di un’unica rappresentazione teatrale che si replica all’infinito.
L’unica cosa sconosciuta di questa rappresentazione è quanto durerà la nostra parte e in che modo usciremo di scena, non c’è alcun modo di parlare col regista ed è impossibile riuscire ad avere qualche biglietto omaggio. Non ci sono pause né intervalli, anche il sonno ha un senso preciso: è una prova quotidiana che ci prepara all’uscita di scena, quando saremo presi dal “grande sonno”.
Visitare il cimitero produce anche un altro effetto, direi tonificante, poiché ravviva il senso della vita che scorre dentro di noi; attiva pensieri scaramantici, potenzia il desiderio di essere vivi, alimenta l’illusione di avere ancora tanto tempo davanti a sé, infonde la certezza di essere protetti dai propri cari estinti. Così il rito devozionale per i defunti, attraverso i fiori, i lumini e le preghiere, finisce con l’assumere anche la funzione di training autogeno, riequilibra la nostra autostima e calma le nostre tensioni interiori. Non esiste nessun luogo capace di farci sentire così completamente vivi e vitali come il cimitero. Così come è il cimitero il luogo più idoneo per valutare l’aumento del costo della vita da un anno all’altro. Il cimitero può svolgere anche un’importante funzione pedagogica che va dalla conoscenza dei propri avi (che dovrebbe essere il primo rapporto con la storia) , alla frequentazione di un luogo in cui il silenzio è obbligatorio, alla visita dell’unico posto in cui non si celebrano falsi miti e menzogne consumistiche: il luogo della certezza, della verità, della dignità ritrovata. Il “grande sonno” che dà un senso alla vita.
Al di là della fede religiosa e delle credenze personali, è indubbio che ogni singolo essere umano vivente conserva nella memoria un lutto, ovvero il ricordo e il rimpianto per la perdita di una persona cara. Che si sia credenti, atei o agnostici, è indiscutibile che ognuno di noi ha sperimentato la scomparsa di qualcuno al quale eravamo legati, ognuno di noi ha sperimentato il duro confronto emotivo (non dialettico, né teorico) con la morte e con la metafisica. Ogni volta che la morte giunge vicino a noi ci appare come uno scandalo, una cupa oscenità così definitiva e irrevocabile da spingerci a diventare blasfemi, rabbiosi, iracondi per la nostra somma impotenza. Non possiamo sopportare il “grande sonno” nel quale sono caduti i nostri cari e nel quale cadremo anche noi. Il cimitero, che in questi giorni si popola improvvisamente, è una sorta di città-dormitorio nella quale entriamo silenziosi, quasi in punta di piedi: sia che si preghi o si parli, lo facciamo a bassa voce con toni e movimenti cauti poichè la paura inconscia di svegliare i “dormienti” è grande e atavica. Passeggiare silenziosi lungo i viali di cipressi respirando un’aria strana ma inconfondibile, fatta di profumi balsamici delle conifere mista ad acuti sentori di fiori freschi e piante putride, al suono dei propri passi che interrompono gorgheggi e cinguettii di uccelli invisibili, produce un effetto particolare: una malinconica serenità ci pervade lentamente, così come emerge dentro di noi la consapevolezza di essere in un luogo sacro, anzi nel luogo più sacro del mondo. Non è una sacralità confessionale, bensì antropologica: è la certezza di essere in un luogo speciale nelle cui viscere sono custoditi i resti di un’umanità estinta, di ricordi, di speranze, di idee, di esperienze, di emozioni scomparse per sempre. Attraverso le fotografie sulle lapidi cogliamo quell’istante di vita congelata che impietosamente ci consente di sovrapporre ad un nome sconosciuto uno sguardo, una figura materiale che ha attraversato lo spazio e il tempo. Se non fosse per le date scolpite, per le fogge dei vestiti e le acconciature dei capelli, non saremmo in grado di distinguere uno sguardo fotografato qualche anno fa da un altro risalente a un secolo fa. L’umanità fermata dal fotogramma è la stessa, stessi dubbi, stesse paure, stessa gioia, stessa malinconia. E’ come scorrere un immensa galleria fotografica di attori che dalla fine dell’800 ad oggi hanno interpretato lo stesso dramma, una folla sterminata di interpreti di un’unica rappresentazione teatrale che si replica all’infinito.
L’unica cosa sconosciuta di questa rappresentazione è quanto durerà la nostra parte e in che modo usciremo di scena, non c’è alcun modo di parlare col regista ed è impossibile riuscire ad avere qualche biglietto omaggio. Non ci sono pause né intervalli, anche il sonno ha un senso preciso: è una prova quotidiana che ci prepara all’uscita di scena, quando saremo presi dal “grande sonno”.
Visitare il cimitero produce anche un altro effetto, direi tonificante, poiché ravviva il senso della vita che scorre dentro di noi; attiva pensieri scaramantici, potenzia il desiderio di essere vivi, alimenta l’illusione di avere ancora tanto tempo davanti a sé, infonde la certezza di essere protetti dai propri cari estinti. Così il rito devozionale per i defunti, attraverso i fiori, i lumini e le preghiere, finisce con l’assumere anche la funzione di training autogeno, riequilibra la nostra autostima e calma le nostre tensioni interiori. Non esiste nessun luogo capace di farci sentire così completamente vivi e vitali come il cimitero. Così come è il cimitero il luogo più idoneo per valutare l’aumento del costo della vita da un anno all’altro. Il cimitero può svolgere anche un’importante funzione pedagogica che va dalla conoscenza dei propri avi (che dovrebbe essere il primo rapporto con la storia) , alla frequentazione di un luogo in cui il silenzio è obbligatorio, alla visita dell’unico posto in cui non si celebrano falsi miti e menzogne consumistiche: il luogo della certezza, della verità, della dignità ritrovata. Il “grande sonno” che dà un senso alla vita.
2 commenti:
E, nel silenzio, ascolto la poesia della notte e del grande sonno che cullano e addormentano per l'eternità i nostri cari.
Le lacrime lavano l'amarezza per il tempo perduto a non averli abbracciati una volta di più.Maria
Se posso evito, te lo dico con molta sincerità. In passato mi sono forzata ad andarci, ma portandomi dietro, dopo, un senso di sconforto assoluto.
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