venerdì 8 febbraio 2008

MALA TEMPORA CURRUNT


Viviamo in un mondo intossicato, violento, senza alcuna certezza. Non ci sono riferimenti ideali in cui credere, certezze metafisiche in cui confidare, buon cioccolato fondente facilmente reperibile. Domina un diffuso senso di provvisorietà, di cinica rassegnazione, pare che non vi sia modo di cambiare le cose e che resta solo da abbandonarsi agli eventi cercando solo di sopravvivere. La televisione è diventata ormai la nostra magistra vitae: informa, educa, diverte, commuove, determina l’alimentazione e gli altri consumi, crea miti, forma le coscienze. Le nostre azioni e comunicazioni sono sempre più strettamente controllate da occhi elettronici e orecchi digitali, non c’è rimasto molto della privacy di ognuno di noi. La situazione economica generale è piuttosto pesante e costringe ad uno stile di vita più attento e parsimonioso, inoltre la vita quotidiana è sempre più complessa e densa di obblighi; in passato la figura professionale più vicina e familiare era quella del medico, ora imperversa il commercialista: non passa settimana senza che capiti la necessità di consultarlo e senza scoprire che c’è sempre qualcosa da pagare. In passato il medico aveva una notevole funzione di supporto psicologico, parlare con lui aveva un effetto positivo e rasserenante. Parlare col commercialista, invece, vuol dire rovinarsi la giornata fino a diventare iracondi; il commercialista è odioso, egli con poche e apodittiche parole ci ricorda che questo mondo è una valle di lacrime perché il contribuente ha sempre torto e lo Stato ha sempre ragione, lui invece, il commercialista, è impotente di fronte all’arroganza e alla perfidia delle leggi. Le leggi, ovvero quelle norme capestro concepite dalla politica. La politica, quel marasma di anime putrefatte che fanno e disfano sulla pelle dei poveracci. Per non parlare dei poveracci che dovrebbero essere tutelati dalla Legge attraverso la magistratura. La magistratura, ovvero il nuovo Direttorio, una corporazione di intoccabili che pretende di avere sempre l’ultima, definitiva, parola su tutto. Non è strano, quindi, se l’atteggiamento generale è quello di vivere sulla difensiva cercando di parare i colpi e comunque cercando di proteggersi il più possibile. Le consolazioni ammesse sono veramente poche: pizzeria, cinema, nutella, fantasie di sesso sfrenato, amici più o meno virtuali, qualche buona bottiglia, discorsi da ottuagenari alienati, bestemmia libera ad ogni apparizione tv di un politico qualsiasi. Nel frattempo i figli crescono coltivando un insano amore per il denaro, una noia esistenziale da elettroshock, una discreta dimestichezza con varie sostanze psicotrope, una fiera ignoranza abissale, un conformismo militante e totalizzante da giovane balilla. E’ evidente che ci troviamo nel bel mezzo di una mutazione antropologica in cui, tragicamente, manca la fase di scontro dialettico tra vecchie e nuove generazioni. I giovani non si preoccupano di criticare e giudicare i vecchi ma semplicemente li liquidano, mostrando il più assoluto disinteresse verso la storia e verso la realtà contemporanea. La famiglia non è più il primario luogo di scontro fra vecchie e nuove esigenze. La famiglia è una sorta di agenzia il cui ruolo deve essere solo quello di fornire i mezzi per vivere secondo i nuovi modelli giovanili dominanti. Sembrerebbe che alla radice di tutto vi sia una profonda e diffusa disillusione, una consapevolezza che nulla può cambiare e che tutto si riduca, alla fine, all’individuo e alla sua capacità di sopravvivere e di perseguire scopi personali. Una specie di individualismo anarcoide, di desiderio di liberazione egotistica, una improbabile rilettura di Max Stirner all’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, dove il potenziale “eversivo” non si manifesta nella pratica del terrorismo individualista bensì in una sorta di “auto-terrorismo”: “bombe interiori” a base di alcool e droghe che annichiliscono ogni volontà di cambiamento, ricerca ostinata dei propri limiti emotivi attraverso escalation di esperienze sempre più forti, identificazione del sé nella virtualità televisiva e cibernetica, godere dell’onnipotenza di una second life costruita secondo i propri criteri e le proprie fantasie. La responsabilità di questa “schizofrenia” generazionale non può essere imputata solo alla società dei consumi, vi è una complicità attiva e responsabile della famiglia che non ha saputo discernere tra ricerca del benessere e autonomia di giudizio. “Vivere criticamente”, ovvero saper cogliere il senso dialettico dell’esperienza mettendola in discussione, non è una pratica diffusa. Chiedersi continuamente “perché” è faticoso e, a volte, è scomodo. Ha preso piede, così, una grandiosa menzogna: la vita è darsi delle risposte. Non è così. La vita consiste nel porsi sempre delle domande la cui risposta è sempre una nuova domanda.

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