SCORREGGE REALI.
sabato 26 gennaio 2008
TEMPESTE INTERIORI

Le risposte possono essere diverse e articolate ma una cosa è certa: siamo entrati in contatto con qualcosa di estremamente pericoloso. Che si tratti di un’enorme zuppa di legumi misti o una ricca porzione di lampascioni (meglio lampagioli) fritti, il risultato non cambia: abbiamo un problema.
La nostra esistenza, che Blaise Pascal ha paragonato a quella di una canna pensante si trasforma mostruosamente in un tubo di gas metano o, meglio, in un otre invaso da tremende turbolenze gassose alla costante ricerca di una via d’uscita. In questi momenti tutto il nostro “esprit de finesse” (rimanendo in ambiente pascaliano) che abbiamo così abilmente esercitato nella scelta e nella degustazione di un vassoio di carciofi alla giudia, va a farsi benedire. Ci sentiamo trasformati in una sagoma da incubo, come nel Dottor Jekill e Mister Hyde, il nostro corpo muta il suo aspetto: il ventre diventa teso come la pelle di un tamburo emettendo orrendi e imbarazzanti borborigmi, la sudorazione è diffusa e abbondante, il volto si irrigidisce, le gambe diventano pesanti e sono in grado solo di fare piccoli, ridicoli, passetti. Il respiro è corto, compare una spaventosa sensazione che delle mani invisibili si divertano ad annodare il nostro intestino secondo le vecchie usanze della marineria. E’ statisticamente provato che accidenti di questo genere accadono quasi sempre quando non si è soli, non si è a casa propria, non esiste un giardino o un luogo appartato nel raggio di tre chilometri. E’ inoltre statisticamente confermato che l’unica toilette disponibile sia molto frequentata e non acusticamente isolata. L’angoscia, la disperazione e il dolore cominciano a procurare strane allucinazioni e idee molto pericolose, come quella di allontanarsi con la scusa di sgranchirsi le gambe e cercare l’angolo più remoto dove poter alleggerire la pressione interna in modo discreto e silenzioso. Questa è una pessima idea. Prima di tutto perché non conosciamo la vera natura del mostro che è in noi, non ci è dato di sapere se si tratta di (mutuando la terminologia geologica) un soffione, di un geyser o addirittura di un vulcano. Corriamo il serio rischio di trovarci in un batter d’occhio nella tragica situazione di non poterci più sedere e di avere incollato sul nostro di dietro il naso del cane del padrone di casa. Meglio fingere un infarto e farsi portar via dall’ambulanza. L’unica cosa da fare, invece, è guadagnare subito la toilette fingendo di essere in preda ad un attacco di tosse convulsa. Attenzione però, i colpi di tosse procurano una contrazione diaframmatica che può, a sua volta, far perdere il controllo della situazione, meglio non esagerare.
Una volta chiusi nella toilette potremo tossire all’impazzata in modo da coprire altre sonorità particolarmente imbarazzanti. Ma non dobbiamo illuderci, non finisce qui purtroppo. Abbiamo solo momentaneamente neutralizzato il primo attacco, fra non molto ne seguiranno degli altri e noi non possiamo passare la serata nella toilette a tossire continuamente. E’ necessario organizzare una dignitosa ritirata prima che possa venire il peggio. Andando via, è importante non lasciarsi convincere a bere il bicchiere della staffa, potrebbe essere fatale. Anche un semplice caffè può innescare una reazione a catena incontrollabile, a questo punto potrebbe accadere che la toilette venga occupata da un collega di sventura e non rimanga altro che uscire sul balcone con la scusa dell’ultima sigaretta. Se fuori non c’è nessuno potremo cimentarci in qualche scorreggia di alleggerimento, in caso contrario bisogna stare molto attenti: trovare un posto a favore di vento, valutare bene la temperatura esterna (se l’alito fuma, fumerebbe anche qualcos’altro), non appoggiare le terga a superfici che potrebbero rivelarsi degli ottimi conduttori acustici (legno, metallo). In questi momenti particolari siamo in grado di cogliere il senso più autentico dell’esistenza, solo ora abbiamo la piena consapevolezza delle miserie umane e di come il nostro raziocinio sia limitato di fronte alla potenza della natura. Poche molecole di gas sono sufficienti a trasformarci in animali in pena. Sul balcone, immobili, con gli occhi liquidi e lo sguardo nel nulla siamo concentrati sui nostri moti intestinali, lei, bella e raggiante, ci ha raggiunti confidando in un intimo scambio di dolci promesse. E’ la triste metafora della nostra esistenza: progettiamo e organizziamo per veder tutto per aria al minimo soffio di vento.
NOMEN OMEN

Chi potrebbe sostenere che se Napoleone Bonaparte si fosse chiamato Gavino Cozzolicchio avrebbe avuto lo stesso identico destino? E se la seducente Josephine Buharnais fosse stata Annette Le Canard (Annina L’Anatra) avrebbe sposato Napoleone? Forse Annette e Gavino si sarebbero ugualmente innamorati, ma sicuramente nel loro destino ci sarebbe stato dell’altro, non so, una cosa tipo commercio all’ingrosso di ostriche o di fois gras.
L’Italia è un paese con una grandissima varietà di cognomi in proporzione al numero di abitanti. Naturalmente in questa gran varietà ve ne sono di veramente particolari che vanno dall’osceno al ridicolo. Troviamo i Cazzone, Cacchione, Ricchioni, Ficarotta, La Vacca, Porcelli, Linsalata, Cipolla, Latrota, Lavopa, Latrippa, Lamorte, Cacatelli, Cocozza, Piscione e tanti altri. Questi piccoli capolavori dell’onomastica familiare che la dicono lunga sulle nobili origini dell’umanità basterebbero da soli a schiantare le più entusiastiche speranze di successo, invece non basta. A questo punto entrano in ballo i genitori, i quali, facendo finta di non ricordare le ingiurie e gli sfottò che li hanno perseguitati fino all’età adulta, si apprestano a crocifiggere i figli con dei nomi propri per nulla adeguati all’orrenda tragedia del cognome. Per questo saranno maledetti per sempre. Infatti non è difficile imbattersi in Eva La Vacca o in Gustavo Latrippa, per non parlare di Serena Lamorte, Libero Latrota, Gaia Cocozza, Omar Loturco, Modesto Ragno. Poveri sventurati vittime dell’imbecillità dei genitori. Per quanto riguarda i nomi propri, la consuetudine del passato che prevedeva che si tramandassero di generazione in generazione è ormai desueta. In passato gli unici nomi che non seguivano questa regola erano quelli attribuiti ai trovatelli, ma di solito la creatività si sbizzarriva nei cognomi (Esposito, Proietti, Diotallevi, Dioguardi, ecc.) ed erano pochi i casi in cui ci si rifaceva ad altre fonti come i miti letterari (particolarmente usato era Edmondo Dantes, il protagonista del Conte di Montecristo, così come Alessandro Manzoni).Da cinquant’anni a questa parte i mezzi di comunicazione di massa (cinema, fotoromanzi e televisione) hanno determinato, fra le altre cose, anche una nuova moda onomastica, infatti sono sempre più frequenti nomi come: Raffaella, Barbara, Romina, Ylenia, Michela, Sara, Simona, Patrick, Jonathan, Samuel, Kevin. Nelle classi sociali più colte, invece, la tendenza è verso nomi italiani ritenuti particolarmente belli: Marco, Roberto, Alessandro, Livio, Fabrizio. Il nome proprio perde la sua funzione storica (il perpetuarsi attraverso le generazioni) per assumerne una di tipo edonistico (il nome “suona” bene ed è alla moda). Nel giro di non molte generazioni spariranno completamente molti nomi propri (Gaetano, Nicola, Domenico, Saverio, Felice, Pasquale, Filippo, Salvatore, Ignazio, Vito, ecc.) e con essi la storia familiare e sociale di cui sono stati testimoni. Niente di grave, la cultura e la società si evolvono in altre direzioni, è già successo in passato. Una sola modesta raccomandazione ai genitori: nella scelta del nome abbiate buon senso, chiamarsi Kevin Perchiazzi o Ylenia Lavermicocca è una tragedia senza rimedio.
BLOGGO, ERGO SUM

mercoledì 23 gennaio 2008
BANANA REPUBLIC n.1

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del ‘92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro. Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso.Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi».Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola… VELENI DI PALERMO È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino… ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra… ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa.Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino… ». PENTITI VERI E PENTITI FALSI Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato. E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia». CAMPAGNA DENIGRATORIA E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico». ACCUSE SENZA PROVE Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo? Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto. Lino Jannuzzi
lunedì 21 gennaio 2008
domenica 20 gennaio 2008
sabato 19 gennaio 2008
giovedì 17 gennaio 2008
IL POTERE

Quando parliamo di potere dobbiamo essere precisi evitando le generalizzazioni e i falsi miti. Per esempio, è vero che chi possiede denaro ha potere ma non è vero il contrario. Si può disporre di molto potere senza possedere denaro. Così come si può impiegare il potere a proprio esclusivo vantaggio materiale, inoltre si può usare il potere a vantaggio della comunità ma soprattutto si può esercitare il potere per il solo piacere di farlo. In quest’ultimo caso l’unica vera contropartita è il desiderio di onnipotenza ovvero la prova materiale dell’assoluta superiorità antropologica dell’individuo sui suoi simili. Potremmo definirlo delirio divino o desiderio assoluto di essere simile a Dio. Non a caso nella storia, il potere totale, quello della monarchia assoluta, era diretta emanazione di Dio e, ancora, non a caso nelle tirannie di altro genere (nazismo, fascismo, stalinismo) si è abbattuta l’investitura divina per far posto alla Metafisica della Storia. La Necessità Storica di una nuova umanità sostituisce efficacemente il disegno divino.
In realtà quando parliamo del potere ci occupiamo di qualcosa di molto concreto e per nulla distante da noi. Il potere non è solo politico, economico e culturale, esso rappresenta anche la qualità e la quantità del nostro rapporto con il prossimo. Noi, nel nostro piccolo, esercitiamo quotidianamente la nostra quota di potere cercando, quando è possibile, di aumentarlo e stando molto attenti a non perderlo. Nella dimensione lavorativa, la carriera e il successo sono obiettivi che hanno a che fare direttamente col potere. Nella famiglia, la coesione e la buona convivenza sono aspetti direttamente collegati al potere. L’amicizia è basata sulla piena disponibilità reciproca del proprio potere. In amore, invece, le cose sono piuttosto complesse poiché il potere si basa sul terrore della perdita. In amore il nostro potere è direttamente proporzionale alla paura dell’abbandono del partner. In più c’è da aggiungere che questo timore genera un senso di dipendenza fisica piuttosto imbarazzante che si tende in qualche modo a nascondere. Esiste anche il potere che esercitiamo su noi stessi e che riguarda la nostra capacità di controllare più o meno efficacemente le manifestazioni emotive e tutta la sfera che riguarda il rapporto con gli altri. Il potere su se stessi è il più misterioso ed affascinante, poterne disporre pienamente è un’impresa difficile e profondamente appagante.
La nostra vita è un’orgia del potere in cui, a volte, è molto difficile distinguere gli intrecci e le dinamiche, è praticamente impossibile sottrarsi a tutto questo ed è maledettamente impossibile riuscire a fare un bilancio esatto della situazione, l’unica consolazione è che il caso rende tutto relativo. Anche il potere più assoluto trema di fronte a quel segno di parentesi che chiuderà per sempre la propria esperienza.
mercoledì 16 gennaio 2008
STELLE

dal mio alito fumante salgono lacrime
e un gemito nascosto, silenzioso, senza perché.
Vento, silenzio, notte, stelle.
La vita si trascina algida e avara.
Le stelle seducono lo sguardo spingendo la vita
all’estremo limite del vuoto, invitano all’abbandono.
La luce siderale mi schiaccia al suolo, perdo l’equilibrio
fissando grumi lattiginosi di stelle distanti milioni di anni luce.
Osservo sbigottito il passato remoto che illumina il presente.
Stanotte, al supermarket del dolore ci sono i saldi.
IL REGNO DI NAPOLI

Lo spettacolo scandaloso di fine anno, Napoli e dintorni sommersa dai rifiuti, non è che una logica e tristissima conclusione di un lento percorso di distruzione delle risorse, della cultura e dell’orgoglio del Mezzogiorno d’Italia. Dal 1860 fino ad oggi si è perseguita una politica di rapina e di affossamento del sud a favore dello sviluppo industriale del nord. Con la scusa dell’unità d’Italia si è consumato un feroce ladrocinio calpestando ogni tipo di diritto internazionale; con la complicità della nuova classe dirigente italiana si è poi organizzato un efficiente sistema di bugie e falsità storiche, tuttora in auge nelle nostre scuole, allo scopo di giustificare in chiave risorgimentale e di libertà tutta la sporca vicenda dell’unità d’Italia. L’annosa questione meridionale, i cui effetti possiamo ammirare sparsi nelle strade di Napoli e dintorni, nasce proprio con la conquista e l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Col furto sistematico e la spoliazione di uno stato sovrano i cui titoli erano quotati alla borsa di Parigi, acquistati e scambiati in tutta Europa.
Nel 1860, Giuseppe Garibaldi come entrò a Palermo pretese che il Banco di Sicilia gli versasse la modica cifra di 2.178.818 ducati, dei cinque milioni ivi custoditi. In cambio rilasciò un foglietto “per ricevuta di spese di guerra” e l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il tutto. La ricevuta è ancora conservata nell’archivio storico della banca, ma non è stata mai onorata.
In quel periodo Napoli era la terza città d’Europa, nelle sue province si lavorava il ferro, la ceramica, i filati. Le fabbriche di Pietrarsa e l’Opificio Reale costituivano il più grande complesso siderurgico dell’Europa del Sud, vi lavoravano 1.000 operai e altri 7.000 vivevano dell’indotto. La fonderia Orotea di Palermo, della famiglia Florio, era famosa nel mondo per i suoi prodotti di precisione, impiegava 600 operai. Venne smantellata perché fosse sostituita dall’Ansaldo di Genova. Il settore tessile era alla totale avanguardia in Europa, lo stabilimento di Piedimonte d’Alife, dello svizzero Egg, contava 1.300 operai, 36 filatoi e 500 telai. La maggiore filanda del nord, la Conti di Milano, impiegava solo 415 operai. A Scafati, Pallenzano e Salerno vi erano le industrie di Mayer e Zollinger, a San Leucio fu creata su 80 ettari di terra la più prestigiosa seteria d’Europa nonché unico esempio di comune operaia. A Napoli Guppy & Pattison avviarono una fabbrica di macchine a vapore che occupava 1.200 operai. Il cantiere navale di Castellammare occupava 2.000 persone. La flotta del regno delle due Sicilie contava 40.000 uomini di equipaggio. Il Napoletano era la regione italiana più industrializzata con 1.189.000 operai pari al 37% degli attivi, contro i 345.000 del Piemonte, pari al 17% (dati del censimento in occasione dell’Unità d’Italia). Nel 1860 il Regno delle Due Sicilie rappresentava un gettito economico di 443,2 milioni, mentre il Regno di Sardegna ne poteva contare solo 27. Il meridione d’Italia, da solo, batteva il doppio delle monete di tutti gli altri stati in Italia. Nel giro di tre anni (1860-1863) l’erario di Napoli passò a zero, da Torino furono mandati 4 milioni per far fronte ai bisogni più immediati. In poco tempo il nuovo stato mise in ginocchio l’economia arrivando a far pagare, nel 1866, a ventidue milioni di italiani il doppio di tasse di quanto avevano pagato diciannove milioni di prussiani. Nell’ultimo anno di regno borbonico, la Sicilia pagò 32 milioni di tasse. Nel 1861 i Savoia aumentarono le tasse del 56% raggiungendo i 50 milioni. Nel 1866 70 milioni, nel 1890 200 milioni. Nell’Italia unita lo stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 lire per quello del Sud. Furono investiti per la bonifica idraulica 267 milioni nel triangolo Torino-Verona-Grosseto e 3 milioni in tutto il regno delle due Sicilie.
Inutile continuare, è evidente che il sud d’Italia è stato conquistato e depredato di tutte le sue grandi ricchezze da una dinastia di reali d’accatto, usurpatori e opportunisti, buoni solo ad affamare la gente. Fenomeni come la mafia e la camorra diventeranno cruciali grazie al ruolo che gli verrà riconosciuto da Garibaldi e dai suoi compari nel reclutamento di “picciotti” per risalire la Sicilia e per sedare la pubblica opinione chiaramente filoborbonica nella città di Napoli. Non sarebbe male se oltre a ripulire le strade si procedesse a ripulire i libri di storia, le menzogne che ci hanno raccontato sono molto più schifose di tonnellate di rifiuti.
venerdì 11 gennaio 2008
LA COMMEDIA CATODICA

Nel panorama escrementizio della televisione italiana lo spettacolo di Benigni rappresenta una vera e propria eccezione e nonostante costituisca una prova evidente che la qualità può essere anche quantità pare che il futuro non ci riservi delle inversioni di tendenza nella programmazione televisiva. Dobbiamo rassegnarci a vedere serial tv sempre più insulsi, quiz per dementi e spettacoli in cui la classe politica dimostra di aver perso ogni pudore nel mostrare il proprio vero volto: facce da culo con cervelli di plastica. Meglio spegnere la televisione e uscire “a riveder le stelle”.
giovedì 10 gennaio 2008
Sometimes I Feel Like A Motherless Child
Sometimes I feel like a motherless child
Sometimes I feel like a motherless child
Sometimes I feel like a motherless child
Long way from my home
Sometimes I wish I could fly
Like a bird up in the sky
Oh, sometimes I wish I could fly
Fly like a bird up in the sky
Sometimes I wish I could fly
Like a bird up in the sky
Closer to my home
Motherless children have a hard time
Motherless children have-a such a hard time
Motherless children have such a really hard time
A long way from home
Sometimes I feel like freedom is near
Sometimes I feel like freedom is here
Sometimes I feel like freedom is so near
But we're so far from home
SOMETIMES I FEEL LIKE A MOTHERLESS CHILD

lunedì 7 gennaio 2008
domenica 6 gennaio 2008
PELLEGRINO

ho il mare negli occhi, il suo rombo nelle orecchie.
Ogni cosa vista trasfigura in liquida superficie,
ogni cosa udita si dissolve in suono d’acqua in movimento.
Non c’è latitudine che sconfigga l’allucinazione primigenia.
Cerco l’orizzonte mobile al di là del quale i sogni sono realtà.
Il ricordo riempie gli occhi di lacrime, un brivido percorre la pelle.
Il mare sa quello che sono stato, conosce quello che sarò,
custodisce quando e come non sarò più.
Forse la riva pietosa, che accoglie materna il naufrago, avrà pena di me.
Nonostante il mugghiare del mare, la spiaggia benigna mi vorrà parlare.
Parole oscure, presagio ascoso nel fragore dei flutti, la fine celata nella risacca scrosciante.
Ovunque è il mare.
Nella murgia pietrosa, nelle verdi colline, nei boschi intricati, nei trulli ricoperti di licheni.
La pianura salata riverbera come la superficie marina.
Le bianche pareti del Monte Gargano sorgono dritte dalla spuma del pelago.
Le pietre e i tufi scavati nelle viscere della terra si dischiudono mostrando fossili abissali.
Le cripte delle bianche cattedrali trasudano sale emanando odore di vecchi acquari marini.
La tramontana salsa e feroce porta il fragore delle onde a rompersi sulle pendici del Vulture.
Bianchi gabbiani incrociano il volo coi falchi bruni nel cielo sulla terracqua del Levante.
Pesante è il fardello che trascino con me lungo la strada per la Coscienza.
Il tempo mi insegue senza sosta, la memoria mi rode le viscere senza pietà.
Nel silenzio che odora di finocchio selvatico sento le urla delle pietre spaccate dall’aratro,
le bestemmie dell’umanità sudata e miserabile contro le nuvole avare,
Nella luce accecante del sole meridiano ecco il mare testimone di vita e di morte.
Se giungerò alla fine del viaggio non troverò un oracolo a svelarmi il mistero,
ma saprò decifrare il linguaggio di Poseidone e potrò leggere il mio destino.
Pellegrino, povero e nudo, ho un voto da sciogliere, la promessa che non avrei mai cessato
d’esser testimone d’una vita contraddittoria e sofferente,
Dopo aver lottato contro le fredde e spietate correnti, giacerò sulla riva come un ciuffo d’alghe
in decomposizione, come una vuota opaca conchiglia,
Ovunque è il mare.
Alfa e omega dell’esistenza, scrigno infinito della coscienza, di selvaggia bellezza pura essenza.