SASSOFONI PARALLELI
mercoledì 30 maggio 2007
VITE PARALLELE

E’ come donare tutti i propri organi
e riceverne in dono i corrispondenti.
Monta lo straniamento
formando un lago di perplessità,
disagio, timore, imbarazzo.
Un lago vulcanico senza fondo,
uno stupefacente buco azzurro
specchio di nuvole misteriose.
Siamo come due canne lacustri.
Vite parallele che si sfiorano
avvolte da entropico affetto:
è la bellezza del Caos.
martedì 29 maggio 2007
TIPI DA SPIAGGIA

D’estate i nostri litorali si trasformano in una babele di lingue, di dialetti, di cadenze, dove folle in costume da bagno si illudono di divertirsi e di passare nel modo migliore il tempo libero. Pare che la letizia e in buon umore si misurino a suon di rutti, flatulenze, dermatiti solari, micosi da piscina ed altre simili amenità. Alla ristrettissima minoranza di malinconici esterrefatti resta poco da fare, il mare e il litorale d’estate non sono fatti per loro: fino a quando saranno in circolazione certi tipi da spiaggia sarà impossibile godere del suono della risacca e dell’infinito misterioso orizzonte marino.
Alla fin fine si ripropone il senso della vita: siamo diversi, ognuno la vede a modo suo. Ma era proprio necessario arrostire sulla spiaggia castrato e salsiccia?
lunedì 28 maggio 2007
LA VITA, NIENT'ALTRO

Il mancato raggiungimento del nostro obiettivo così come la scoperta che l’obiettivo per cui abbiamo tanto lottato e sperato è quello sbagliato, comporta una sofferenza molto profonda e induce a pensieri estremamente negativi, come ad esempio decidere di farla finita cenando ogni sera da McDonald’s. Basare la propria vita su punti di riferimento esterni a noi stessi è alquanto pericoloso, equivale ad esporre il fianco a tutti quegli eventi che accadono indipendentemente dalla nostra volontà e dalla nostra capacità di gestione. Capita a tutti, indistintamente, di dover subire accadimenti che mai avremmo previsto né tanto meno avremmo sperato di vivere: la vita è sempre la risultante tra quello avremmo voluto e quello che è accaduto. Le uniche cose sulle quali possiamo essere certi sono i nostri comportamenti, abbiamo l’unica possibilità di determinare il nostro modo di agire e di reagire agli eventi della vita, l’unica coerenza che ci è concessa riguarda i principi che determinano i nostri atti verso gli altri e verso la natura che ci circonda. Possiamo decidere se essere più o meno onesti, sinceri, solidali, eccetera, e solo questo possiamo fare senza dipendere da altro, il nostro libero arbitrio finisce qui. “La vita è un’opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto più è ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l’ordine delle leggi apparenti.” Questa frase di Gabriele D’Annunzio coglie il senso profondo del mistero della vita, il suo essere imprevedibile, casuale, fortunata e disperata, non ci consente di farcene un’idea precisa, possiamo solo viverla abbandonandoci al suo flusso e muovendoci solo quel che serve per cercare di rimanere incolumi il più a lungo possibile. Bisogna anche dire che il potere destabilizzante delle sorprese che l’esistenza ci regala è direttamente proporzionale al grado di organizzazione della nostra vita: l’incursione del caso e dell’inaspettato in una vita scandita da ritmi molto stretti e da impegni e scadenze molto ravvicinati, è deflagrante; non si ha il tempo e la serenità di metabolizzare la novità e la si subisce reagendo in modo scomposto e quasi sempre inadeguato. Se dopo anni di vita da single e diverse esperienze affettive andate piuttosto male, accade di incontrare una persona che sconvolge tutte le idee maturate nel tempo e determinate dalle delusioni pregresse, lo shock è inevitabile. Soprattutto se l’organizzazione della vita era stata improntata verso un crescente impegno quotidiano tendente a “riempire” i vuoti e a evitare di passare troppo tempo con sé stessi riflettendo sulla propria condizione e i propri desideri, questo nuovo evento produce una crisi e non si riesce neanche a trovare il tempo materiale per pensarci sopra e fare considerazioni ponderate. L’amore, il trasporto, il desiderio, possono diventare pensieri ossessivi che attanagliano la nostra mente al supermercato, al lavoro, in palestra e sotto la doccia. Non riusciamo a controllare la gioia della comunione e il dolore dell’assenza, siamo molto preoccupati da una strana regressione adolescenziale. Ci prende l’ansia da mancata razionalizzazione, veniamo assaliti da interrogativi senza risposta, i nostri sudati punti di riferimento scivolano dalle mani, ci sentiamo nudi e indifesi. Lentamente affiora la sensazione che abbiamo dedicato gran parte del nostro tempo a costruire con fatica un castello di sabbia e ora la marea si sta alzando, senza scampo. Cosa sta accadendo? La vita, nient’altro.
giovedì 24 maggio 2007
LIX UXORIA

Se la vostra donna ha deciso di litigare non c’è scampo, litigherete. Forti di questa certezza, avete solo una possibilità di neutralizzare il pericolo, non è facile ma vale la pena tentare. Il principio alla base del litigio femminile è la provocazione e la tecnica si sviluppa in una sofisticata “escalation” dove ogni vostra risposta viene trasformata in ulteriore materiale provocatorio sempre più esasperante. Lei attiverà, con sorprendente precisione, la sua memoria elefantina, sciorinando vecchie, vecchissime se non archeologiche situazioni in cui si è sentita umiliata e/o voi avete commesso degli errori “gravissimi”; questi fatti e circostanze avranno su di voi lo stesso effetto di una raffica di cazzotti a bruciapelo, intontiti e con la guardia scoperta siete pronti ad incassare l’uppercut definitivo, in quel momento avete perso il match per ko tecnico, anche se seguitate a combattere è tutto inutile. L’unico modo per difendersi efficacemente da questa macchina da guerra con le tette è anticiparla e giocare la carta dell’effetto sorpresa. La cosa da fare immediatamente, in risposta alla prima, apocalittica, provocazione è manifestare uno slancio d’affetto, un bacio, un abbraccio e qualche bella parola potrebbero “smontare” la fredda determinazione a colpirvi. Se invece la cosa non funziona, aspettatevi un’intensificazione del fuoco su obiettivi sensibili, a quel punto bisogna immediatamente contrattaccare con un impeto e una barbarie senza limiti. Quello che dovete fare è neutralizzare la tecnica dell’”escalation” e quindi la vostra risposta deve essere talmente inaspettata ed eccessiva da creare in lei una gran confusione. Funzionano bene i raptus di gelosia, l’accusa di disaffezione, pesanti considerazioni su un recente decadimento estetico, il rinfacciare una flessione del desiderio sessuale, inventare ricordi in cui lei in passato vi ha umiliato e/o fatto molto soffrire. Sia gli argomenti che il modo di esprimerli deve essere assolutamente eccessivo, sopra le righe, deve sorprendere e creare una netta confusione comunicativa. Lei non è ancora pronta a sostenere un impatto di questa entità, il suo livello di adrenalina non è sufficiente a tenere testa alla vostra reazione né ha previsto la comparsa di nuovi argomenti, in questa situazione di confusa sorpresa non è neanche in grado di capire che state dicendo bugie colossali, che i vostri dolorosi ricordi sono tutti inventati. Il momento decisivo, quello in cui sferrare l’attacco risolutore, accade quando lei con lo sguardo perso tace per qualche lunghissimo secondo. Come in una solenne corrida, dalle pieghe della vostra rossa muleta estraete la spada e colpite con ferma precisione: un abbraccio forte, intenso e parole sussurrate d’amore. Se l’abbraccio è corrisposto è fatta, avete vinto. Se lei rimane immobile, di ghiaccio, non vi resta che la fuga. L’abbraccio diventa un saluto di commiato, un urgente appuntamento vi attende. Ora avete la possibilità di tentare un ultimo disperato “colpo di coda”: mentre guadagnate velocemente l’uscita vi assale un malore improvviso (colpo della strega, colica gastroenterica, cefalea “a grappolo” devastante, ecc.), potete solo sperare di far leva sul suo istinto materno e protettivo. Se anche in questo caso la situazione peggiora, siete fottuti. Ricordatevi che la vostra donna non fa prigionieri, quindi affrontate il patibolo con dignità e rompete il vostro composto silenzio solo per gridare: viva l’Italia! Viva mio padre!
Adesso vi è finalmente chiaro che anche la vostra amatissima mamma ha sulla coscienza diverse esecuzioni capitali.
mercoledì 23 maggio 2007
martedì 22 maggio 2007
HOMO FRENETICUS

Ma cosa spinge queste persone a comportarsi così? Cosa ha trasformato queste teste vuote in burattini impazziti? Molto probabilmente è l’horror vacui, il terrore del vuoto, la paura di trovarsi di fronte a se stessi e non vedere nulla, la paura di scoprire l’inconsistenza del proprio essere. Per l’homo freneticus la solitudine è come lo specchio per il vampiro: una superficie senza riflesso, la percezione inequivocabile della propria inesistenza come individuo unico e originale. Purtroppo accade sempre più spesso che questo problema si manifesti già nei bambini, i cosiddetti bambini iperattivi, rivelando non poche e serie problematiche di tipo psicologico e sociale.
Tornando al nostro homo freneticus, dobbiamo una buona volta avere il coraggio di ammetterlo: dopo un minuto di pseudoconversazione sale improvviso il desiderio di mollargli un cazzotto in testa per farlo tacere e per fermare quel nervoso gesticolare e sobbalzare che provoca mal di mare. In una sola situazione sembra una persona normale: più o meno al quarto chilometro di jogging, quando madido di sudore ed olezzante di denso afrore ascellare, incomincia a parlare ansimando e il bisogno di ossigeno lo costringe a pause respiratorie e strane interpunzioni del discorso. Fa piuttosto schifo, ma almeno è umano. Solo in due circostanze è raccomandabile la sua compagnia: in un torneo di calciobalilla, dove si sfogherà completamente sui manubri dell’attrezzo con ottimi risultati, e quando dovete andare in una grande città che non conoscete, chiederà informazioni ad ogni isolato aiutandovi non poco a raggiungere la meta. La situazione peggiore in cui può trovarsi un homo freneticus è un funerale, costretto dalla triste circostanza a limitare al massimo la propria esuberanza, non fa che pensare alla povera salma, chiusa nella bara e destinata all’immobilità eterna…Una cosa, questa, che lo fa letteralmente impazzire. E con le donne? Bisogna ammettere che, almeno all’inizio, ha un certo successo. La passione e la perizia per il ballo e il costante dinamismo fanno parecchio effetto. Comincia a perdere colpi nella fase post amplesso, quando invece di vivere quel momento magico, pretende di accendere la tv o di andare a comprare la pizza. Crolla miseramente quando tenta di coinvolgere il partner nel suo vortice di ossessionato iperattivismo. Il culmine, che corrisponde spesso ad una separazione, lo raggiunge quando a causa di una malattia o un incidente è costretto all’immobilità: una tragedia. Se non potete fare a meno di andare a trovarlo sono consigliabili due regali: per lui un cucciolo (cane o gatto), si sfogherà a farlo scorrazzare nella stanza; per il partner un flacone di valium.
lunedì 21 maggio 2007
EFFETTI COLLATERALI

Ma passiamo ad argomenti più complessi: ci sono casi in cui non si può fare a meno di patire gli effetti “collaterali”, anzi ci si organizza addirittura per neutralizzarli innescando un nuovo meccanismo causa-effetto, il quale a sua volta potrà produrre nuovi e inaspettati effetti “collaterali”. Dalla cefalea post eccesso alcolico alla dispepsia post eccesso alimentare, la nostra vita è un percorso su un campo minato da fastidiosissimi effetti “collaterali”. Cos’è quello strano senso di insicurezza e di vuoto angosciante se non l’effetto “collaterale” dell’innamoramento? E quel mostruoso foruncolo sul naso comparso all’improvviso durante la notte se non accidentale conseguenza di un eccesso consolatorio di mezzo chilo di tiramisù? In realtà non riusciamo a risolvere un problema senza che se ne crei un altro, non riusciamo a chiudere una parentesi tonda senza che se ne apra una quadra. Dalla pratica informatica abbiamo appreso che in molti casi è meglio “resettare” tutto, azzerare la situazione, fare “tabula rasa”, per poter ricominciare a mantenere il controllo degli eventi e dei pensieri; ma è pura illusione, il nostro cervello non è un hard disk che può essere ripulito in qualsiasi momento da virus informatici e incompatibilità tra programmi. Si può decidere e agire per porre fine ad una relazione sentimentale, ma se poi continuiamo a pensarci in modo ostinato o addirittura semi-maniacale non abbiamo fatto alcun passo avanti, anzi, abbiamo intrapreso la dolente e insidiosa strada dell’automutilazione, di quel cilicio psicologico che fa molto più male di quello materiale. Masochismo latente? Autopunizione inconscia? Può darsi, ma anche sicuramente una perversa forma di egoismo, un desiderio irresistibile di sentirsi al centro dell’universo, vittima suprema di un malvagio disegno della storia. In realtà proprio la riflessione sugli effetti “collaterali” potrebbe aiutarci a cercare di capire qualcosa sul senso della vita e su noi stessi, sul fatto che siamo fragili, temporanei, una specie di finestra sul creato che si apre e si chiude a orologeria, e non siamo noi i programmatori del timer.
Ecco, gli effetti “collaterali” sono lì a ricordarci che sebbene abbiamo deciso e organizzato il dominio sulla natura, non siamo riusciti a realizzarlo; e più tempo passa più ci rendiamo conto che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali produce un pesante effetto “collaterale”: un inesorabile mutamento di quelle condizioni che ci hanno consentito di vivere e di riprodurci. Anche la sofferenza amorosa, che si manifesta per l’assenza dell’altro, è una sorta di effetto “collaterale” che ci rivela impietosamente l’inconsistenza del mito amore-felicità orientandoci opportunamente verso la scoperta del binomio amore-indispensabilità; e quello smarrimento totale, quel senso di sgomento stupore per la vita, quella nausea tremenda per tutto ciò che ci circonda, quel peso opprimente che ci impedisce quasi di respirare? Quelli sono i sette cannelloni che avete spazzolato ieri sera, fingendo profonda frustrazione e bisogno d’affetto: la prossima volta evitate almeno di fare la scarpetta e bevete un bicchiere di citrosodina, subirete effetti “collaterali” gassosi ma tranquillizzatevi, non aumentano il buco dell’ozono.
sabato 19 maggio 2007
LA ZUPPA PERFETTA

“Hai qualche desiderio particolare?” domanda con compassione, tu rispondi:”No, non saprei…” e invece vorresti urlare a squarciagola:”Voglio essere felice!!! Sono stufo di questo schifo di esistenza!”. Ma la tua supplica nascosta giunge ugualmente a destinazione e lui comincia a descriverti con suadenti parole i colori meravigliosi dello scorfano e del capone, l’ipnotica, misteriosa luminescenza delle seppie appena pescate, la forma perfetta di un fiore sbocciato nel polpo appena sbattuto e arricciato, lo stupefacente arcobaleno dipinto sui fianchi del tordo di mare. Parole, odori, forme e colori ti avvolgono in una dimensione fantastica, nella quale lentamente ti abbandoni dimenticando gli affanni, le preoccupazioni e le delusioni, sorge impetuoso il desiderio di entrare a far parte di quest' armonica bellezza, di ricongiungerti col mistero della vita. Il mare è il tuo liquido amniotico in cui trovare sicuro rifugio e profonda soddisfazione, il suo profumo penetrante ti rammenta le notti d’estate in cui hai creduto di essere felice, rari momenti di incosciente e pura gioia di vivere: in quel momento ti sembra che l’anguilla ti stia strizzando l’occhio e che cozze, vongole e canestrelle ti sorridano con affettuosa cordialità. Le parabole di Genzino sulla pesca sono poi piccoli capolavori di saggezza degni delle più sagaci storielle zen; in esse si possono cogliere elementi di mitologia popolare, archetipi culturali sedimentati nei nostri spazi interiori più profondi, una morale sempre positiva e costruttiva. Genzino ha la dote speciale di farti intravedere uno spiraglio di luce in quel tunnel buio e freddo in cui ci siamo persi, fa venire prepotente il desiderio di riconciliazione verso la natura e l’umanità, ma soprattutto infonde un senso di fiducia in sé stessi, un’energia particolare che senti entrare nel corpo quando mangi il suo pesce; mentre gusti deliziosi pezzetti d’abisso ricomponi le tessere del tuo mosaico, ricrei quell’armonia interiore indispensabile per una vita equilibrata. Il suo motto è: “Solo alla morte non c’è rimedio, tutto il resto si aggiusta sempre, come la zuppa…”. E’ la morale della zuppa, se sapremo cercare troveremo quello che manca e raggiungeremo lo scopo: la zuppa perfetta.
giovedì 17 maggio 2007
lunedì 14 maggio 2007
L'INDISPENSABILE

Quali sono le cose indispensabili per vivere? Fino a non molto tempo fa la risposta sarebbe stata abbastanza facile: un tetto sulla testa, tre pasti quotidiani e almeno un giorno su sette in cui potersi dedicare a qualcosa di rilassante o divertente. Ora le cose sono cambiate e la società in cui viviamo ci impone ritmi veloci, modelli complessi e nuove necessità da soddisfare. Vivere senza un mezzo di trasporto autonomo non è impossibile ma è estremamente disagevole, non accedere all’informazione quotidiana diventa pericoloso perché quotidiani sono i mutamenti delle regole e delle leggi, non disporre di un telefono cellulare esclude dai rapporti sociali e complica moltissimo quelli lavorativi, non avere e/o non saper usare un personal computer limita drasticamente ogni nostra possibilità di vivere e lavorare secondo i ritmi attuali, non avere un conto in banca è praticamente impossibile se abbiamo a che fare con assegni da incassare. Anche se ci limitiamo solo a queste poche cose la faccenda si complica parecchio, perché avere un’auto comporta il pagamento di tasse e obblighi (patente, revisione), ci obbliga ad avere a che fare con le meravigliose categorie degli assicuratori, dei meccanici ed elettrauto, per non parlare dei signori carrozzieri. Dobbiamo ricorrere ai tecnici dei computers e di telefonia mobile, alla nobile stirpe di Nosferatu: i bancari, a quegli strani agghiaccianti incroci fra i giocatori di tre carte e mignotte incallite quali i commercialisti, a quegli squali ottusi e assassini degli amministratori di condominio. Non solo tutto è maledettamente complicato quanto, soprattutto, ci troviamo ad essere assediati da persone, enti e società nati per fregarci spudoratamente. A questo scenario da “giungla d’asfalto” dobbiamo aggiungere l’insidia incombente dello Stato, il quale non è organizzato per proteggerci e difenderci bensì per sospettare, indagare e spiare: uno Stato sospettoso e maligno organizzato in una burocrazia elefantiaca e scansafatiche, uno Stato cialtrone e arrogante pronto a colpire senza pietà.
Tutte queste cose e queste pratiche che sono indispensabili creano tensioni e pulsioni che molto facilmente sono il bersaglio prediletto del condizionamento consumistico: è più che legittimo che dopo aver profumatamente pagato un commercialista per avervi fatto pagare le tasse senza neanche la piccola soddisfazione di avervi fatto legalmente risparmiare qualcosa, siate presi da un raptus compulsivo a divorare quantità esagerate i frutti di mare nella speranza che per un’oscura legge di transfert sia il commercialista a beccarsi una solenne gastroenterite. Non diventa assolutamente indispensabile fare un debituccio per andare in vacanza dopo che avete letto che i parlamentari si sono ancora una volta aumentati lo stipendio? Non è logico e indispensabile caricarsi di rate secolari per un televisore al plasma grande quanto un tavolo da ping pong perché vostro cugino, che fa l’usciere all’università, ha comprato un fuoristrada da urlo per andare alla sagra della castagna? Non è indispensabile il mutuo che avete acceso per consentire a vostra moglie di frequentare un centro benessere esclusivo in cui può tradirvi con la massima discrezione? E i figli? Come la mettiamo con la palestra, la danza, il pianoforte, i cellulari, il motorino e la paghetta?
Se non ci fossero queste cose la vita sarebbe assolutamente insopportabile, aumenterebbe la depressione, la tossicodipendenza, l’alcolismo e il consumo improprio della Nutella. Dopo una settimana passata a fare la fila alla posta, alla banca, al comune, all’inps e al supermercato non vediamo l’ora che arrivi il sabato e allora col sorriso sulle labbra andremo in indispensabile pellegrinaggio al ristorante “State Freschi” dove pagheremo cento euro per un antipasto di mare approssimativo, uno spaghetto ai gusci di vongole, una spigola d’allevamento carbonizzata, due palle di gelato al gusto passion fruit e una bottiglia di bianco similtavernello, il caffè e l’amaro sono offerti dalla casa.
“A ogni uomo spettano di diritto soddisfazioni intense come i suoi dolori.”
Rex Stout
domenica 13 maggio 2007
ASSENZA

L’assenza genera una sorta di allucinazione schizofrenica poiché nonostante l’altro sia fisicamente assente, è presenza interlocutrice, è oggetto di invocazione, di domande, di sospiri. Quest’angoscia tremenda si protrae nel tempo e se non fosse alternata al ritmo vitale della memoria e della gestualità quotidiana, si piomberebbe nell’immobilità assoluta, in quella inazione che porta inevitabilmente al lutto, alla perdita definitiva. Questo senso profondo di privazione si proietta come un’ombra anche durante la presenza: la presenza fisica diventa insufficiente, l’altro, nella mente, continua a mancare. Ciò che accade è misterioso poiché si perde ogni senso della proporzione. Il tempo dell’attesa è una dimensione solenne e incantata: si aspetta l’altro attivando un blocco, la mente si svuota e il corpo si ferma, restando immobili; aspettiamo non tanto la persona fisica quanto l’idea che abbiamo dell’altro: aspettiamo di soddisfare il bisogno che abbiamo di amare, aspettiamo quella parte di noi stessi che abbiamo scoperto in un altro corpo. In questo senso colui che ama è colui che aspetta, e il delirio della sua condizione è totalmente individuale, la sua certezza più assoluta è che il proprio amore sia infinitamente più grande di quello dell’altro. Questo accade perché siamo disposti ad accettare tutto dall’altro, e questa nostra stupefacente disponibilità la leggiamo come infinito trasporto, come amore senza limiti, se così non fosse non potremmo spiegarci, senza impazzire, perché il nostro subire superi ogni nostra ragionevole aspettativa. In realtà il nostro dare illimitato e senza riserve è l’unica strada percorribile verso ciò che l’amore rappresenta: l’emanazione di noi stessi, il superamento della barriera corporea, oltrepassare il fisico per osare verso il metafisico. Il pianto, l’abbraccio, l’amplesso, sono momenti in cui il nostro corpo si liquefa, diventa acqua che tracima gli argini corporei per espandersi dappertutto; attraverso l’amato conquistiamo l’universo e ricomponiamo noi stessi, conquistiamo l’unità dell’essere.
L’angoscia dell’assenza è paragonabile all’angoscia che genera uno specchio senza riflesso, non riusciamo a vederci, la superficie dello specchio ci rimanda un’immagine opaca, informe e incolore. Impariamo a confrontarci con lo stupore per le nostre sensazioni, i nostri pensieri e i nostri comportamenti; siamo colpiti dalla nostra stupidità che si alimenta di banalità e incongruenze, ci scopriamo apprensivi e ipersensibili. Durante il tempo dell’attesa una sola immagine è quella ricorrente: l’abbraccio. Una stretta immobile che ricongiunge le parti mancanti, momentanea illusione della fine della sofferenza.
sabato 12 maggio 2007
PARLARE D'AMORE

(Mi si dice: questa specie d’amore non dà frutti. Ma come poter valutare ciò che fruttifica? Perché ciò che dà frutti è un Bene? Perché durare è meglio che bruciare? “
“Un koan buddistico dice: “Il maestro tiene a lungo sott’acqua la testa del discepolo; poco a poco le bollicine d’aria si diradano; all’ultimo momento, il maestro tira fuori il discepolo e lo rianima: quando desidererai la verità come hai desiderato l’aria, allora saprai cos’è.”
L’assenza dell’altro mi tiene la testa sott’acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta: ed è attraverso quest’asfissia che io ricostituisco la mia “verità” e preparo l’Intrattabile dell’amore.”
“Che cosa penso dell’amore? – In fondo, non penso niente. Certo, vorrei sapere che cos’è, ma vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza.(…)E così, se anche continuassi a discettare sull’amore per un anno intero, potrei solamente sperare di riuscire ad afferrarne il concetto “per la coda”: flashes, formule, espressioni a effetto sparse nel copioso fluire dell’Immaginario; io mi trovo nel posto sbagliato dell’amore, che è poi il suo punto più in vista; dice un proverbio cinese:”il punto più in ombra, si trova sempre sotto la lampada.”
Roland Barthes, Frammenti Di Un Discorso Amoroso.
Andando con la memoria alle letture filosofiche, rammento l’atopos socratico; ovvero quando l’essere amato viene riconosciuto come inqualificabile, originale e imprevedibile. Questo status genera una crisi del linguaggio: è impossibile parlarne, qualsiasi attributo è insufficiente, goffo, imbarazzante: l’essere amato è inqualificabile. Questa originalità, in realtà, non è da ricercare tanto nella persona quanto nella relazione che ci lega a lei. E’ il nostro rapporto ad essere originale (atopos), non stereotipato, imprevedibile, stimolante. Anche di esso non si può parlare, è oltre ogni tipo di discorso. Questa impotenza amorosa si rivela nel continuo desiderio di capire l’essere amato, ma non c’è risposta: a ogni progresso fatto nella comprensione di un aspetto si aggiunge la scoperta di una nuova dimensione sconosciuta. Questo continuo e ostinato adoprarsi per una persona impenetrabile assume l’aspetto di religione. Voler dedicare la vita a risolvere un enigma irrisolvibile corrisponde a consacrare quell’enigma come dio. E tanto più si ama, tanto meno si comprende: forse il segreto dell’altro non esiste, esiste il mio bisogno di cercare in lui la mia immagine riflessa, è mistica ricerca dell’illuminazione, è cognizione dell’inconoscibile.
L’altro, l’essere amato, definisce noi stessi, nel suo corpo è la nostra esperienza extracorporea, le sue sembianze ci dimostrano strani misteriosi rapporti tra le percezioni sensoriali e la metafisica, possiamo “sentire” il flusso di una forza scorrere fra i nostri corpi e le nostre menti. Tutto ciò è indicibile e indimostrabile, qualsiasi tipo di discorso è assolutamente insufficiente; solo una formula, una parola-frase è ammessa, è come il condensato di un grido continuo: io ti amo.
Pretendere di andare oltre, di dire di più, è blasfemo.
giovedì 10 maggio 2007
IL SORRISO DELLA VONGOLA

Questa nostra autocoscienza è la stessa che ci spinge a porci al centro di ogni cosa, a fare di noi stessi la misura di tutte le cose, a pretendere che tutto ci sia dovuto e a considerare che i nostri problemi siano più gravi e importanti di quelli degli altri. Amiamo vivere e agire come se la nostra esistenza fosse assolutamente indispensabile, come se il nostro spazio non possa essere riempito da nessun altro all’infuori di noi. Eppure la natura ce la mette tutta a cercare di dimostrarci che siamo solo un mucchietto di elettroni, che le nostre brillantissime riflessioni dipendono dalla quantità di un alcol steroideo dal nome piuttosto schifoso: il colesterolo, che siamo capaci di incredibili livelli di astrazione del pensiero così come di scoreggie inimmaginabili. Ma non basta, tutto questo non è sufficiente a ricondurre la nostra autocoscienza entro livelli di naturale normalità. Cova in ogni essere umano un delirio di onnipotenza spaventoso, esso viene tenuto a bada solo dai limiti oggettivi che egli incontra nel proprio percorso di vita: le punizioni dei genitori, la condizione sociale, sganassoni veri e metaforici ricevuti, un posto di blocco della Stradale, l’allergia ai gamberetti, l’innamoramento perso per una battona nigeriana, una prostata “secessionista”.
La nostra smisurata presunzione ci impedisce di cogliere gli aspetti più semplici e illuminanti della realtà che ci circonda, abbiamo una fame smodata di complessità apparente e, come l’uomo barocco, amiamo essere stupiti e sorpresi; ma a differenza dell’uomo barocco, che attraverso lo stupore estetico riscopriva lo stupore del mistero della vita, ci stupiamo del nulla, della scoperta del vuoto all’interno di un preziosissimo cofanetto. La forma non come dimensione simbolica del contenuto, bensì la forma come illusione del contenuto: l’essere corrisponde all’apparire. Trionfa la bidimensionalità, la terza dimensione, la profondità, non serve perché non si vede.
A questo punto viene spontaneo convincersi che siamo spacciati. Noi umani siamo destinati a vivere nel delirio egocentrico e nell’autocompiacimento almeno fino a quando non faremo un’esperienza o un incontro illuminante. A qualcuno è successo, non crediate che si tratti di cose particolarmente speciali o esotiche, non è necessario il viaggio a Kyoto o a Calcutta, a volte basta che un piccione in volo ci caghi in testa. Oppure può accadere che mentre facciamo la spesa scopriamo con indescrivibile stupore che le zucchine hanno i peli o che le vongole sorridono.
Qualsiasi cosa, anche la più banale, può illuminarci sulla terza dimensione, aprendo una prospettiva di osservazione della realtà per noi nuova e originale. Inizia così un percorso di riduzione del nostro Io a favore di quello che ci circonda; cambiano anche i rapporti e le relazioni, siamo naturalmente portati a parlare di meno e ad ascoltare di più, a essere più comprensivi e meno intransigenti. Il tempo che passa non è più un nemico da abbattere in una lotta impari, esso diventa il nostro capufficio, da lui siamo stati assunti e da lui saremo licenziati, inutile ricorrere ai sindacati. Tutto insomma è avvolto in un’aria di leggera relatività, di grazia casuale in cui il nostro essere è solo una modestissima variabile della cui esistenza interessa a pochi, anzi a pochissimi se scartiamo gli interessati all’assegno di mantenimento e i compagni di calcetto.
Ma cosa ci è successo? Niente di particolare. Abbiamo scoperto il sorriso della vongola.
mercoledì 9 maggio 2007
TEMPUS FUGIT

Delle nostre quotidiane sensazioni esperienziali, quella del tempo è senz’altro la più mutevole e relativa. La nostra percezione del tempo è estremamente mutabile e dipendente da molteplici fattori sia esterni che interni al nostro stesso essere. Il tempo passato in una sala d’aspetto o in fila davanti a uno sportello ci sembra interminabile, quello passato vedendo un film entusiasmante o passato in ottima compagnia ci sembra che voli. Per l’uomo contemporaneo il tempo è quello che era per l’uomo primitivo lo spazio: una dimensione misteriosa e spaventosa. Quello che ci fa impazzire del tempo è il fatto che esso scorra indipendentemente dalla nostra volontà e che questo scorrere sia assolutamente immodificabile. Il tempo è quella dimensione che rappresenta la nostra infinita pochezza, esso scandisce la nostra vita biologica e il nostro processo di invecchiamento fino alla morte. Ogni essere umano sa per certo di avere un tempo limitato, questa realtà ci viene mostrata impietosamente attraverso le irreversibili modificazioni del nostro corpo e del suo funzionamento. Ogni essere umano, almeno una volta nella sua vita, ha sognato di poter governare il tempo per vari motivi: evitare errori del passato, cogliere occasioni perdute, poter comunicare con persone scomparse, giocare una schedina conoscendo i risultati, pronunciare quel “ti amo” rimasto bloccato in gola, poter rifiutare quel bis di cozze che ci costò una tremenda gastroenterite.
Gli orologi, i calendari, gli specchi, le rampe di scale, la quantità di sorrisi del nostro assicuratore, sono tutti impietosi misuratori del nostro tempo. Questa spietata scansione della vita ci segue dappertutto, il tempo non solo stabilisce quando ci si deve nutrire ma anche di cosa: come non fare un pertinente accostamento tra la data di scadenza di un formaggio e quella mai pervenuta di nostra moglie?
Il tempo è alla base dell'economia, il lavoro si misura col tempo sia che siate un usciere della regione alle prese con la gazzetta dello sport, sia che siate un minatore nigeriano intento a scavare nelle viscere della terra. Il tempo è la dimensione della fruizione musicale: non si può "contemplare" un'opera musicale senza trascorrere il tempo della musica. Il tempo è alla base dei rapporti affettivi: quando si è piccoli si amano i genitori e la famiglia, da adolescenti si può impazzire per una testa impastata di gel, da adulti un bicipite ben tornito o un sedere a mandolino possono evocare passioni irrefrenabili, da vecchi si ritorna agli affetti famigliari specie se accompagnati a un piatto di pasta e fagioli. La nostra riserva di tempo personale è una fonte limitata, non rinnovabile e soprattutto sconosciuta, non potremo mai conoscere la sua entità. Questo dato a volte, in alcuni di noi, determina la necessità di non perderlo in futili occupazioni per poterne dedicare di più alle cose più importanti: c’è chi dorme poco, chi mangia in pochissimo tempo, chi chiama la propria barca “Eiaculatio Praecox”, chi i propri figli Erme e Stani (Ermenegilda e Stanislao), chi si specializza nello zapping al nanosecondo, chi arriva in anticipo agli appuntamenti, chi preferisce il caffè istantaneo, chi non va al funerale della suocera perché già privato dalla medesima dei momenti più belli, chi non si è mai sposato per non dover perdere tempo a divorziare.
“Perdere tempo”, abbiamo il terrore di non riuscire a fare o a dire o a dimostrare tutto quello che vorremmo, come se la posterità avesse un bisogno assoluto della nostra testimonianza, come se noi fossimo una pietra miliare nel cammino della civiltà: in realtà abbiamo solo una paura fottuta che il nostro tempo finisca da un momento all’altro: chi userà il nuovo cellulare che ho comprato ieri?
martedì 8 maggio 2007
NAUFRAGIO METAFORICO

travolgono tutta ogni cosa
senza ascoltare le nostre preghiere.
La stella polare è coperta
da nuvole basse assassine
e il vento crudele in sè porta
l’uragano, il distruttore.
Naufragar è sorte comune.
Sono tanti color che non sanno,
ombre ignare del destino compiuto.
Ogni giorno rinnoviamo l’aiuto
riscrivendolo sulla sabbia che vola .
Siamo naufraghi e disperati,
ogni giorno è vita strappata,
ogni notte sogni elargiti.
Ma il naufragio può essere dolce,
se lo sveli allo sguardo amoroso,
immerso in quegli occhi profondi
vorresti di nuovo affogare.
domenica 6 maggio 2007
CERTEZZE

Passiamo buona parte della vita a individuare e coltivare le nostre certezze e su di esse basiamo il nostro equilibrio materiale e spirituale. Le certezze metafisiche, quelle affettive, quelle politiche ed etiche, le certezze economiche e scientifiche rappresentano per ciascuno di noi le fondamenta sulle quali costruire un percorso di vita e di speranze. Quando accade, e sicuramente accade, che qualcuna delle nostre certezze viene meno ci sentiamo in serio pericolo, vediamo una grande minaccia alla nostra vita materiale e al nostro personale sistema di relazioni. La nostra reazione, dopo un periodo più o meno lungo di smarrimento e panico, consisterà nel cercare affannosamente un’altra certezza che sostituisca efficacemente quella che è venuta meno. E se accade, e accade sempre più spesso, di non riuscire a trovare nulla che sostituisca quello che si è perso, allora promuoviamo a certezza l’idea che non vi sono certezze: adottiamo il nichilismo delle idee come idea fondante il nostro personale sistema di valori e sicurezze. In realtà la consapevolezza della mancanza di certezze dovrebbe produrre un atteggiamento positivo e sviluppare un approccio alla realtà basato sulla fiducia nell’intelletto e sul dovere della conoscenza; ma non è così, in pratica, la mancanza di certezze produce una sfiducia totale nella cultura e nel raziocinio e incentiva solo il desiderio di vivere alla giornata, di identificare la felicità con lo “star bene”, col divertimento più o meno effimero. La società dei consumi ci insegna che tutto è merce, che qualsiasi cosa può trasformarsi in denaro e che solo il denaro ci consente di essere vivi, perché vivere è consumare. Vivere significa passare metà del nostro tempo a guadagnare quello che spenderemo nell’altra metà. La vita è consumo. Le persone sono consumatori (termine scandaloso che ormai è entrato nell’uso comune, anche istituzionale). I rapporti umani sono business (telefoni e pc). La cultura non deve più porre domande astratte, ma solo dare risposte materiali. Anche i sentimenti sono merce e infatti ostentarli in televisione è fonte di guadagno. La società dei consumi contemporanea rappresenta e sviluppa un’idea di libertà e di democrazia talmente solida e invincibile da essere l’unico vero sistema di riferimento: tutti devono essere liberi di comprare tutto, senza limitazione né distinzione sociale, razziale, sessuale e anagrafica. Di fronte a questa semplice ma efficacissima dichiarazione di diritto non c’è nulla e nessuno che possa resistere. Su questa certezza granitica si ridisegnano i confini degli stati, si riconvertono le economie, si riorganizzano le forze politiche, si inventano nuove pedagogie e nuove didattiche, si modificano i sogni personali e le certezze sulle quali ognuno di noi cerca di costruire la propria esistenza, mutano i rapporti familiari ed affettivi. L’economia di mercato globale è entrata dentro di noi, non è più solo un sistema economico, ora è paragonabile ad un frammento del nostro codice genetico personale. Agli oppositori (spesso anche violenti) che lottano contro questo sistema nel nome di ideologie o di confessioni religiose dobbiamo riconoscere una dose di sovrumana imbecillità, quando è esclusa la malafede: pretendere di combattere una cultura che ha impiegato più di duemila anni per affermarsi utilizzando teologia da taverna o ideologie fallite e odiate da mezza umanità, è quantomeno ridicolo. Pretendere di essere realmente antagonisti ad un sistema estremamente elastico ed aperto proponendo schemi estremamente rigidi o addirittura fanatici e integralisti è un fallimento annunciato. A volte vien voglia di pensare che sia tutto un grande imbroglio, opposizione compresa. Al momento non esistono alternative serie a questo sistema, ma esiste il modo per difendersi da questa disumanizzazione dei rapporti: la conoscenza. La cultura è l’unico mezzo valido contro questa mutazione antropologica perché sviluppa l’autonomia del giudizio: è l’unico vaccino contro l’uomo-consumatore e le sue certezze stereotipate. Preservare la propria individualità è l’unico, vero, atto rivoluzionario: “Il peggiore cuore del mondo è un libro più grande di Hortulus Animae, e forse è una delle grandi misericordie di Dio che ess lasst sich nicht lesen (che non si lasci leggere. N.d.T.)”. Edgar Allan Poe.
mercoledì 2 maggio 2007
SERENDIPITY

Non è necessario essere scienziati, archeologi o filologi per imbattersi in particolari circostanze in cui accade di fare delle scoperte inaspettate non solo riferite alla realtà che ci circonda ma anche riguardo a noi stessi, ad aspetti del nostro essere che ci erano assolutamente sconosciuti. Così può accadere che mentre si è strenuamente impegnati a superare un particolare disagio o una penosa sofferenza interiore si scopra, casualmente, di non soffrire per quel motivo che si credeva bensì di coltivare inconsciamente il piacere perverso della pena e dell’autopunizione. Oppure può accadere che mentre si cerca un’ulteriore conferma dell’amore per il proprio partner, spunti fuori, improvvisamente, un’altra persona che ci fa schiantare contro un albero di passione e sentimento.
Qualsiasi sia il tipo di indagine che stiamo svolgendo, c’è sempre la possibilità di imbattersi in qualcosa o qualcuno di non previsto e apparentemente non pertinente ai nostri interessi, poi subentra la nostra intuizione e quell’episodio “casuale” diventa oggetto di nuova curiosità e portatore di inaspettate rivelazioni. Anche la creazione artistica viene alimentata dalla serendipità e il grande artista è proprio colui che riesce a riconoscere nell’evento non previsto il senso di quella profonda idea creativa che lo attraversa e lo nutre di significato.
L’accidentalità degli accadimenti non ha alcuna importanza, è solo la lettura che riusciamo a dare a fare la differenza: i misteri della natura e di noi stessi sono davanti a noi, riuscire a coglierli è l’unica missione che dà un senso alla vita e per essere pronti a farlo dobbiamo abbandonarci ad essa con fiducia, acutezza e stupore. Perché molte delle risposte che cerchiamo non sono là dove pensiamo che siano, giacciono da tutt’altra parte, in attesa che la nostra intelligenza le scopra, per caso.