venerdì 30 marzo 2007

POESIA IN SALUMERIA


La poesia è l’urlo dell’anima. E poiché tutti noi abbiamo un’anima (non in senso religioso, ma intesa come interiorità), tutti noi siamo potenziali poeti. Naturalmente questa potenzialità può rimanere tale o può manifestarsi in modi molto diversi. Il mio salumiere è un poeta, egli non scrive nulla: declama, affabula, seduce il suo pubblico con l’impeto e la passione del racconto, spinge irresistibilmente chi gli è di fronte a cogliere l’essenza profonda del caciocavallo, induce a immaginare la sensuale voluttà che procura la masticazione di una fetta di soppressata, evoca i felici pascoli di ghiande del porco transustanziato in quel profumatissimo San Daniele. Peppino, questo è il suo nome, è un artista, un animo sensibile votato a diffondere il Verbo dei pecorini tipici e l’ineluttabile effimera esistenza della vera ricotta marzotica. Nossignori, non sono prosaico. Che ci vuole a “volare alto” su argomenti come l’amore, la sofferenza, la memoria e l’esistenza? E’ molto più difficile concettualizzare una pezza d’Asiago o esercitare la metafora sul provolone o sulla finocchiona, per non parlare dell’impeto, degno del più autentico Sturm und Drang, assolutamente indispensabile per scoprire la profonda metafisica dell’olezzante e misterico gorgonzola.
“Allora Peppino, quali sono le novità?”, a questa domanda sorride, si raschia la voce, divarica leggermente le gambe, porta le mani all’altezza del petto con le palme rivolte verso di voi e inizia la liturgia ”novità siciliane questa volta, specialità da non perdere” le sue mani ora volteggiano sui formaggi imitando i gesti antichi dei maestri casari “ questo è il “tumazzo modicano”, da vacche podoliche che pascolano sui Monti Iblei, quest’altro è il “maiorchino”, viene direttamente da Novara di Sicilia, nel messinese, latte ovino e caprino, la pasta viene lavorata a lungo e ripetutamente forata da un attrezzo speciale, per ridurre l’acqua al minimo: leggermente piccante e molto aromatico”, io sono lì ma col pensiero vago per la Trinacria osservando paesaggi e greggi al pascolo, riesco persino a sentire i suoni dei campanacci, “ecco a lei, una scheggia d’immenso…” e mi porge un assaggio. Avrete sentito parlare della sindrome di Stendhal, ebbene vi assicuro che non è esclusiva delle arti figurative. Gustare quella “scheggia d’immenso” è un’esperienza sensoriale totale, al limite del mancamento, produce uno stato di estatico stupore che spinge all’uscire dal sé: mi sentivo uno sciamano lappone che vola libero sulla tundra. Ma non è tutto, glielo leggo negli occhi scuri, messi lì a fermare la lunga discesa di quella fronte da sacerdote pitagorico, “Peppino, non tenermi sulle spine, svela l’arcano, mostra la tua potenza!!”, senza parlare mi fa avvicinare al lato del bancone e senza fare gesti, guardandomi fisso negli occhi “prosciutto del preappennino dauno… da maiale nero!!”. Il maiale nero…un suino leggendario per gli intenditori, una razza rustica, selezionata per l’allevamento allo stato brado, il cugino più diretto del cinghiale. Quel piccolo prosciutto con la cotica scura e irta di setole, quella preziosissima reliquia di un nero vorace divoratore di ghiande, tuberi e funghi, quella testimonianza luccicante della lungimiranza e civiltà dei Borboni di Napoli (che vollero e incentivarono l’allevamento dell’antichissimo suino), giaceva davanti a me, disteso languidamente in un cestino su soffici rametti d’alloro. La mia mano sulla spalla di Peppino scatena la sua orazione:”Siamo davanti alla storia e alla geografia, ammiriamo l’arte del norcino e la somma perizia del porcaro, contempliamo la bellezza della natura e l’intelligenza dell’uomo, adoriamo il miracolo che ha trasformato un animale puzzolente in un delicato boccone dal profumo indescrivibilmente inebriante”, la retorica di Peppino era stata veramente ispirata. Ma io, da vecchio inguaribile provocatore, non posso fare a meno di dire”Peppino, quest’opera d’arte ha bisogno della giusta cornice, ci hai pensato?”, e lui, ormai in pieno delirio giaculatorio, “naturalmente, me l’ha insegnato lei. Ecco la cornice ideale: pane di Monte Sant’Angelo cotto in forno di pietra!” e solleva di colpo un grosso canovaccio a quadri rossi e bianchi: ieratica, sul bancone, quella “scanata”(grande pagnotta) da due kg di pane garganico, dominava la scena. Sembrava il Monolito Sacro degli aborigeni, la Montagna di Manitou dei pellerossa; era il grido di gioia del biondo frumento del Tavoliere, il Padre di tutte le mense. A stento mi sono trattenuto dal buttarmi a terra in commossa adorazione, Peppino era raggiante.


1 commento:

Dyo ha detto...

Ho scoperto questo post(ed altri) solo ora, eppure ti seguo da quando hai pubblicato il blog. Non capisco.
Comunque è un'altra magistrale descrizione. La sindrome di Stendhal, poi...