giovedì 29 marzo 2007

L'ORCO E L'ESPERIENZA DELLA PERFEZIONE


Era stato carrettiere fino a quando erano sopravvissuti i carri. Poi si era arrangiato facendo il bracciante a giornata. Del carrettiere aveva mantenuto il cipiglio, le bestemmie, il cappello nero a larghe tese e la fascia nera che gli cingeva il ventre prominente. Di prominente aveva anche qualcos’altro: i denti inferiori. Aveva una mandibola quasi mostruosa, quei denti inferiori sempre scoperti, gialli e puntuti, gli conferivano un aspetto terrificante; a questo si aggiungevano gli occhi sporgenti e la totale calvizie, in un cranio piccolo innestato su un corpo grande e grosso: sembrava un orco. Ad onta di un tale aspetto, lo chiamavano Pòlùdde, ovvero Paolino, come se pronunciando quel nome, in una sorta di laico esorcismo, si riuscisse ad annullare quelle spaventevoli sembianze ammettendolo nel civile consesso e riconoscendogli spirito e dignità umani.
A me, pur non essendo più un bambino, quell’uomo faceva paura, era unico nel suo genere e parlava pochissimo; quando apriva bocca lo faceva solo per mangiare, bere e bestemmiare. Era stato assoldato da mia zia per zappare il piccolo agrumeto alle spalle della villa ed io ero stato incaricato di essere presente nei dintorni per eventuali necessità o piccoli problemi. Mi ero sistemato all’ombra, distante giusto lo spazio utile per non dargli noia e, allo stesso tempo, avere la situazione sotto controllo. Mi ero portato un libro da leggere ma il lavoro di Pòlùdde catturava tutta la mia curiosità. Ero affascinato da come brandiva quella grande zappa pesante, i suoi gesti erano forti ed eleganti, mi faceva venire in mente Orlando con la sua Durlindana. Il giardino silenzioso, il sibilo del suo respiro, il suono della zappa che fende e sconquassa la terra, il tubare discreto di una tortora appollaiata sul corbezzolo, ero immerso in questi suoni, una sorta di liquido amniotico acustico mi infondeva una strana sensazione di sospesa serena tranquillità. Forse mi ero assopito, ma a un certo punto ripresi coscienza e vidi quella grande ombra seduta sotto un arancio che masticava lentamente: nella mia mente poteva essere quella l’immagine del conte Ugolino che si nutriva dei corpi senza vita dei suoi giovani figli. E infatti di lì a qualche istante, volgendo lentamente il capo dalla mia parte e stringendo nella mano callosa “il fiero pasto” (pane e pomodoro) disse: “favorìsscc…” e io, subitamente, “no, grazie..buonappetito!”. Ero al corrente di questo “galateo popolare”, in sostanza era ritenuto disdicevole mangiare senza manifestare la propria disponibilità a condividere il cibo con chiunque fosse presente in quel momento. Nella cultura popolare il senso della condivisione e della mutua assistenza rappresenta un modello di convivenza: gli umili possono sopravvivere solo se si aiutano a vicenda. Mi ero pentito di non aver accettato il suo pane, ma era stato istintivo pensare che era già così poco per lui solo. Decisi di rimediare e corsi sotto il grande fico che dominava un angolo dell’appezzamento, raccolsi dei fichi appena maturati mettendoli nel mio cappellino e facendo attenzione di far sgocciolare il latice urticante che fuoriesce dal picciòlo, il sangue bianco del grande fico. Mi sedetti di fronte a lui e sul terreno che ci divideva posai il mio cappello rosso ricolmo di verdi fichi maturi. In silenzio, mi guardava e sorrideva (nel senso che ora oltre ai denti inferiori si potevano vedere quelli superiori), io ,per rompere il mio nascente imbarazzo, presi un fico e cominciai a sbucciarlo. In quel momento smise di sorridere e strinse i suoi occhi bovini in una specie di piccola smorfia di disgusto, si raschiò la voce e con tono serissimo disse “Uannà” (che sarebbe a dire uagliò), “la fica si mangia con la buccia!!” (nel dialetto locale fico sta per albero di fichi, mentre fica sta per frutto). “Come con la buccia…?”, risposi sorpreso, “gnorsì…la fica con la buccia è assai più meglio!!”, e per darmi una dimostrazione prese un fico e lo addentò, buccia e tutto. Non sapevo se in quel momento mi stesse facendo uno scherzo, quegli scherzi atroci di cui sono vittima i ragazzini figli di papà da parte dei compagni di origine proletaria. In pochi secondi decisi di stare al gioco e, se era uno scherzo, che non avrei dovuto mai dargli la soddisfazione di sputare il boccone con fare disgustato. Scelsi il fico più grosso, per dimostrargli che non avevo paura, lentamente lo portai alla bocca e diedi un bel morso. Mentre facevo tutto questo Pòlùdde annuiva col capo e quando ebbi il boccone in bocca riprese a sorridere. E’ molto difficile descrivere efficacemente una sensazione olfattiva e gustativa, è una di quelle classiche esperienze sensoriali che ci appartengono intimamente e che variano moltissimo da persona a persona. Io rimasi fulminato da quel gusto e da quelle sensazioni: la freschezza croccante della buccia verde si fondeva miracolosamente con la dolcezza e il profumo della polpa, era pura perfezione. Non parlai e continuai a mangiare con lui. Se un uomo così brutto e scostante era capace di comprendere e, addirittura, di insegnare la strada verso la perfezione voleva dire che aveva un grande cuore. Pòlùdde il carrettiere, il bracciante, il bestemmiatore, il brutto orco, era un uomo buono e sincero. E’ morto da tantissimi anni ma a me capita di ricordarlo ogni volta che mangio un fico, naturalmente con tutta la buccia. Ogni volta che quel sapore unico si diffonde nella mia bocca penso allo stupore di quella scoperta, al mio “maestro di iniziazione” a un piccolo grande mistero di esperienza della perfezione.

1 commento:

Dyo ha detto...

Forse di Poludde non mi sarei fidata, ma di te sì: proverò a mangiare una fica con tutta la buccia. Oggi stesso. :-)