venerdì 29 febbraio 2008

GIOCHI MORTALI


Non credo che i due fratelli di Gravina abbiano fatto quella fine orrenda a causa del padre. Credo piuttosto che si sia avverato un tragico destino nascosto in alcune premesse determinate da concrete responsabilità umane. La prima premessa è lo stato in cui versa la città di Gravina in Puglia: antichi fabbricati, a ridosso della profonda gravina, abbandonati, pericolanti e pericolosi facilmente accessibili da parte di chiunque. Queste costruzioni sono diventate, nel tempo, luoghi di ritrovo di spacciatori e tossicodipendenti nonché formidabili spazi di gioco per bambini e ragazzi alla continua ricerca di nuove emozioni. Il governo della città è il primo responsabile di questo pericolosissimo degrado, sarebbe bastata un’ordinanza per murare tutti gli accessi a questi luoghi.
La seconda premessa è più articolata, poiché si colloca all’interno di un nucleo familiare che si è rotto provocando nei due fratelli disagi e sofferenze estremamente laceranti. Come accade sempre in questi casi, le problematiche affettive e comportamentali dei figli di genitori separati sono molto complesse e non sempre sfociano nell’elaborazione di un nuovo equilibrio, si possono verificare scompensi irreversibili che incideranno per sempre nel destino dei figli. Non ci è dato di sapere il motivo dell’affidamento al padre (con la nuova compagna) di Francesco e Salvatore, ma certo è che il comportamento paterno autoritario e manesco non sortiva positivi effetti educativi. Dalle interviste alla madre e alle insegnanti emerge un particolare quanto inusuale pensiero ricorrente nei due fratelli: la morte. Un senso della morte non inteso come minaccia (come hanno voluto credere alcuni colpevolisti sul ruolo del padre) bensì come destino, come probabile epilogo. Esattamente come quei bambini che praticano consapevolmente giochi molto pericolosi per mostrare agli altri il proprio coraggio e per comunicare inconsciamente un lutto talmente profondo da generare una sorta di dimestichezza con la morte, rischiare la morte per manifestare nessun attaccamento alla vita. La sensazione è che assistenti sociali incompetenti (come tutta la categoria, senza eccezioni), giudici superficiali e il padre arrogante e gretto abbiano “violentato” la psiche e l’affettività di quei poveri bambini. La terza premessa riguarda l’inettitudine degli inquirenti. Accade sempre più spesso che il magistrato inquirente, invece di percorrere tutte le ipotesi possibili, si lanci ad inseguire solo una ipotetica pista, mettendo le altre in secondo piano. Ci hanno fatto credere di aver controllato a tappeto tutta la città, gravina compresa, nel modo più accurato…i fatti hanno dimostrato l’esatto opposto, qualcuno dovrebbe avere il buon gusto di dimettersi.
Certo è angosciante pensare alle lunghe sofferenze che hanno preceduto la morte dei due fratelli, e l’angoscia aumenta pensando alle circostanze futili che hanno portato alla fine delle due giovani vite. Non resta molto da dire, rimane il raccapriccio per quel che è accaduto ai ragazzi e un senso di profondo disgusto per quanto gli adulti hanno fatto affinché si creassero determinate circostanze.

mercoledì 27 febbraio 2008

AUDREY HEPBURN - Sabrina

TECNICA DELLA FRITTATA

NINO MANFREDI - La Frittata (1982)

LA POETICA DELLA FRITTATA

STANLEY TUCCI - Big Night

LA FRATELLANZA DELLA FRITTATA

SEVEN STEPS TO HEAVEN


Saltate in padella con olio extravergine d'oliva uno scalogno e del radicchio rosso tagliato alla julienne. Dopo un minuto aggiungete un dito d'acqua e continuate a cuocere. Dopo tre minuti inglobate dello speck dop tagliato a dadini molto piccoli e cuocete per altri due minuti. A parte sbattete uova freschissime con sale, un dito di latte intero e parmigiano reggiano grattuggiato.
Versate il tutto nella padella del radicchio e procedete alla cottura della frittata.
Servire con contorno di carote crude tagliate a fiammifero e condite cn olio extravergine e limone. Abbinare con Sangiovese e pane bianco del Gargano.

domenica 24 febbraio 2008

BUDDY RICH - Straight No Chaser

FINIRE IN BELLEZZA

VIVA EMILIANO ZAPATA


Dopo aver fatto cuocere al dente le rape, in acqua salata, scolatele poco e saltatele in padella con scalogno, olio extravergine e peperoncino. A parte cuocete la carne macinata di maiale con cipolla, olio extravergine, pomodori freschi sbucciati, passata di pomodoro e peperoni tagliati a julienne. In un altro tegame disporrete i fagioli borlotti, scalogno, prezzemolo, una carota grattugiata, un paio di foglie di alloro, olio extravergine e peperoncino. Quando i fagioli avranno una consistenza cremosa dovrete inglobarli nella carne macinata e cuocere per amalgamare (questo è il "chili"). Servite nello stesso piatto le rape e il chili con un filo d'olio extravergine crudo. E' consigliato pane di semola di grano duro cotto in forno a legna. Abbinare con Sangiovese giovane o Lambrusco di Castelvetro secco. Per gli amanti della birra, è di rigore la Menabrea del Centenario.

BOSSA NOVA

RELAXIN'

sabato 23 febbraio 2008

SAVE DARFUR

LA COSCIENZA SPORCA DELL'OCCIDENTE

CONCENTRATION CAMP

BIOETICI E FILOSOFI DELLA VITA: VAFFANCULO!!

MOTO DISCENDENTE


L’altra notte dei gatti in calore mi hanno svegliato. Ascoltando i richiami d’amore ho pensato che è possibile considerare una sorta di fisica vettoriale dell’affettività dove la direzione del moto affettivo indica e qualifica l’oggetto d’amore. Nella mia esperienza di vita è mancato quel moto discendente che è tipico dell’amore per i figli. Per una serie di motivi, che non ha senso spiegare ora, ho rinunciato all’esperienza della paternità, ho rinunciato a quel carico di responsabilità e di amore che ci si assume mettendo al mondo dei figli. Potrei dire, e sono in molti a pensarlo, che così ho evitato una quantità enorme di grattacapi, di delusioni, di responsabilità gravi; invece dico che così mi sono negato una parte molto importante della vita e dell’esperienza umana. E siccome non l’ho fatto nel nome di un bene superiore o di una categoria morale, non ho alcuna giustificazione che possa avere un senso compiuto. Le cose sono andate così, il solito eterno miscuglio fra libere scelte ed eventi casuali: un’ibrida risultante tra il volere e l’accadere. Molto più prosaicamente, è accaduto come quando si perde l’ultimo treno della giornata: un pò per pigrizia, un pò per sfortuna, un pò per stupidità.
Ascoltando i gatti ho pensato che sicuramente fra due mesi il circondario sarà allietato dalla presenza di quattro o cinque gattini in più. Una cosa naturale, semplice, che si ripete da milioni di anni. Per noi umani non è così, la procreazione deve essere programmata e controllata a garanzia di una qualità della vita migliore, sia per i genitori che per i figli. Questa è civiltà. La stessa civiltà che deriva direttamente dall’antica pratica romana di gettare i neonati malati e deformi giù dalla Rupe Tarpea. La stessa civiltà che mi ha consentito di non avere figli.
Attualmente assistiamo ad un dibattito piuttosto agguerrito sulla procreazione, sulla bioetica, sull’aborto. Ma ho l’impressione che tutto ciò rifletta più delle posizioni politiche ed ideologiche che non un’autentica tensione morale verso queste problematiche. Ritengo sia molto più scandaloso lasciare morire di fame e di stenti milioni di bambini del terzo mondo che preoccuparsi della fine di embrioni sovrannumerari. Rivendicare l’umanità e i diritti di cellule ancora indifferenziate piuttosto che lottare affinché bambini in carne e ossa possano nutrirsi, essere curati e allevati dignitosamente, è osceno. Vuol dire limitare la questione alla sola dimensione prenatale, una volta nati che vadano pure alla malora. Tutto ciò è mostruoso ed evidenzia la cattiva coscienza di coloro che sostengono di battersi per la vita. Con i soldi impiegati per creare e mantenere quel circo Barnum del Comitato di Bioetica si sarebbe potuto salvare da morte certa una discreta quantità di bambini del terzo mondo. Col denaro che si intende stanziare per pagare assistenti sociali e psicologi allo scopo di far cambiare idea alle donne che ricorrono alla legge 194 si potrebbero salvare delle vite umane reali, già esistenti e sofferenti per la mancanza del minimo indispensabile. Io penso che la lotta per la vita non sia una squallida disquisizione filosofico-teologica. La lotta per la vita è sottrarre materialmente alla morte persone in carne e ossa, esseri umani disperati e torturati dalla fame. La Bioetica è la nuova frontiera dell’inquisizione, è l’ennesimo tentativo di secolarizzare la spiritualità, è un progetto di pesante ingerenza nella ricerca scientifica e nel diritto di autodeterminazione dell’uomo. Ogni bambino ha diritto a vivere e crescere , ogni donna ha diritto di disporre di se stessa, ogni essere umano ha diritto di morire con dignità. Non ci possono essere deroghe al diritto naturale. Pare che la stessa Chiesa dimentichi un fatto fondamentale: Cristo ha scelto di morire. Questa volontaria scelta sacrificale è un fatto storico inconfutabile che, al di là della fede, conferma la libertà dell’uomo di scegliere il proprio destino sulla propria incontestabile responsabilità. Quando Piergiorgio Welby ha rivendicato il proprio diritto a non essere più curato e assistito ha deciso di percorrere la stessa strada di Cristo, il quale rinunciò a difendersi affinchè si compisse il suo destino.


venerdì 22 febbraio 2008

AVION TRAVEL - Dormi e Sogna

AMLETIKOS SIRTAKI

LISA GERRARD - Timelapse

VISIONI

ECLISSI


Sopra di me la fisica degli astri
narra una storia antichissima.
L’Universo mostra la forza
delle sue regole eterne.
Respiro nel freddo della notte
un cielo infinito di stelle
al suono del silenzio.
Composto, come in una cattedrale.
Commosso, come in un rito ancestrale.
Affronto i segni del destino che si rivelano.
La Luna si ammorba, scolora
come il viso dell’amante rifiutato.
Rimane una luce opaca, rossastra,
come le orbite senza vita
di una creatura abissale spiaggiata.
Cani randagi piangono, chiome d’alberi si scuotono.
Piove dolore dalle lontane galassie.
Un canto muto mi gonfia il petto
mentre si spegne il sole della notte.
Vedo la Fine del Tempo.
Lentamente, la bocca si riempie
di un lamento millenario.

ANIMA


Piccola anima, dolce e vagabonda,/ospite e compagna del corpo,/dove andrai ora/ pallida gelida e nuda/ non giocherai più secondo il tuo costume.
Adriano imperatore


Anche il più ortodosso fra i credenti viene assalito dal dubbio sull’esistenza dell’anima quando ha a che fare con un assicuratore o si trova a lottare disperamene contro la voce senza volto di un call center. Quella che Dante chiama “angelica farfalla” a volte si manifesta come una mosca stercoraria, soprattutto se si trova al di là di uno sportello, di una scrivania o di un bancone di informazioni. In verità ammettiamo molto più facilmente che il nostro cane, il nostro gatto o il nostro criceto abbiano un’anima piuttosto che l’amministratore del condominio. La questione è che noi diamo alla parola “anima” un significato positivo, strettamente collegato a concetti come il bene e la sincerità. In realtà se l’anima esiste, non è detto che debba essere buona, anzi, se il legittimo proprietario è un sanguinoso delinquente è altamente probabile che la sua anima sia fetente almeno quanto la persona in oggetto. Decenni fa, un originale uomo di scienza americano sosteneva di avere la prova dell’esistenza dell’anima: la differenza di peso (intorno circa al mezzo chilo) fra un moribondo e un morto. Il cadavere pesava sempre qualcosa in meno rispetto al momento in cui era ancora in vita: quella differenza era il peso dell’anima. All’epoca la scoperta fu poco pubblicizzata poiché si temeva che qualcuno potesse confondere la cosa con un’iniziativa di Weight Watchers e suicidarsi allegramente. Dobbiamo ammettere, una volta per tutte, che il concetto di anima è piuttosto imbarazzante: un qualcosa che nasce con noi, che ci fa compagnia da sempre e che a un certo punto ci abbandona tranquillamente per svolazzare libera a suo piacimento. La nostra anima è menefreghista e cinica, fino a quando il corpo funziona va tutto bene, quando la nostra carcassa si rompe definitivamente, senza pensarci due volte, senza un discorso di circostanza o un pianticello d’occasione, ci abbandona velocemente. Certo per chi sopravvive è piuttosto consolante pensare che il proprio caro non sia completamente estinto, d’altra parte non è piacevole pensare che ci sono anime di mafiosi, assassini e pedofili che se la spassano nell’etere volando ubriachi e senza patente. E cosa pensare delle povere anime della pepata di cozze divorata ieri sera? E dell’anima del candido agnello sgozzato e dissanguato che mangiamo il giorno di Pasqua? Vogliamo parlare delle anime dei visoni scuoiati vivi per fare la bella giacca che indossa vostra moglie tre volte l’anno?
Forse è meglio convincersi che l’anima non esiste e che, una volta defunti, quel che resta di noi sia solo oggetto di amorevoli attenzioni da parte di batteri e vermi assortiti. In questo caso sopraggiunge un disperato senso di inutilità, ci si interroga attoniti sul senso della vita senza trovarne una risposta accettabile. La questione è tutta lì, nel fatto che vorremmo una risposta esauriente. La nostra razionalità ci impone la costruzione di scenari verosimili nei quali credere e sperare, invece, molto probabilmente, è vero l’esatto contrario, non ci sono risposte né certezze ma solo domande che generano altre domande, interrogativi che ci fanno vagare nel labirinto del sapere, mitologie vecchie e nuove che abbracciamo disperatamente per carpire un briciolo di Verità. La cifra dell’essere umano è il mistero, un mistero che il progresso della scienza dilata sempre più, un mistero che la religione promuove a inintelligibile senso compiuto, un mistero insopportabile e meraviglioso, come l’odiosa bellezza di una vetta ancora inviolata.
Esistono brevi e rari momenti in cui ci sembra di capire, o meglio, di percepire il senso di tutto questo, è una sensazione di perfezione, di annientamento nella vita che scorre dentro e fuori di noi, ma passa subito lasciando calore nel cuore e un sorriso sulle labbra. Tutto qui. Ma forse l’anima è la profonda essenza della persona e quando l’affetto e l’amore lo consentono riusciamo a vederla e ammirarla, in quell’istante privilegiato possiamo cogliere il mistero dell’umanità e abbandonarci a quella fugace visione che Paul Verlaine chiamò “un paysage chiosi”, un paesaggio squisito.

lunedì 18 febbraio 2008

sabato 16 febbraio 2008

TOTO'/MAGNANI - Risate di gioia

UNA COPPIA ESPLOSIVA

WYNTON KELLY, JOHN COLTRANE, STAN GETZ

I BRANI SONO IN ORDINE: AUTUMN LEAVES, WHAT'S NEW, MOONLIGHT IN VERMONT.

LISA GERRARD

VISIONI POST PRANDIALI

venerdì 15 febbraio 2008

RISO, PATATE E COZZE

Si tratta della mitica “tiella barese” ovvero un tipico piatto regionale che risente dell’influenza della cucina araba alla quale si deve l’introduzione nel Sud dell’uso del riso. La preparazione si basa su strati dello stesso spessore degli stessi ingredienti, una sorta di “mantra” gastronomico.
E’ necessario un bel tegame da forno, l’ideale sarebbe quello in terracotta con l’interno invetriato, sul fondo del quale preparare le “fondamenta” a base di olio extravergine, cipolla bianca tagliata ad anelli sottili e prezzemolo sminuzzato. Il primo strato è di patate a fettine (spessore max 1cm) sale, filo d’olio, 5 o 6 pomodorini (quelli a grappolo) schiacciati e aperti a mano,cipolle e prezzemolo. Spolverare con pecorino romano. Il secondo strato è composto da riso crudo (consiglio la varietà Roma) e cozze appena aperte a metà lasciate con una sola valva (ovviamente prima di aprirle, le cozze dovranno essere ben spazzolate, in modo da pulir bene le valve). Lo spessore dello strato del riso deve essere più o meno equivalente a quello delle patate.Il terzo strato è composto ancora di patate, e così via al libitum. L’ultimo strato deve essere quello con le patate. In più, oltre al pecorino, in cima va spolverato del pan grattato. Quando avete aperto le cozze avrete conservato il loro liquido che, una volta filtrato, unirete ad altra acqua e verserete nel tegame per consentire la cottura del riso. La quantità di acqua è proporzionale alla quantità di strati. La cottura avverrà in forno a 200 gradi. Per quanto riguarda la qualità delle patate, evitate quelle francesi e tedesche, l’ideale è la Patata di Bologna. Come ogni pietanza cotta al forno, terminata la cottura, ricordate che è meglio far trascorrere qualche ora per consentire agli ingredienti di “assestarsi” e coniugarsi nel modo migliore. Si tratta di un piatto unico molto nutriente, è consigliabile abbinarlo con del vino rosato piuttosto strutturato (giudico imbattibile l’abbinamento con un Rosato del Salento a base di Negroamaro e Malvasia).
Una preghiera: ricordatevi che state gustando il prodotto di una cultura millenaria, non state solo mangiando, state facendo cultura.

giovedì 14 febbraio 2008

BEN WEBSTER/GERRY MULLIGAN - Who's got Rhythm 1963

GREAT MUSIC

SAN VALENTINO


Come la Festa della Mamma, la Festa del Papà, la Festa di San Valentino è la dimostrazione di cosa sia capace la società dei consumi pur di indurre agli acquisti di merci e servizi. Tutti sanno che queste feste sono delle patacche, eppure tutti si adeguano felicemente a festeggiare. Perché? La risposta è semplice, queste pseudofeste sono dedicate ai sentimenti, alla famiglia e all’amore. Chi, in fede, si schiererebbe apertamente contro la mamma, il papà, la moglie e la fidanzata? Meglio abbozzare e spendere un po’ di denaro in rose rosse, cioccolatini, cravatte e altri ameni gadgets. Il 14 Febbraio di ogni anno aumentano le vendite di merci varie dedicate alla ricorrenza, di regali vari (abbigliamento, profumi, gioielli, ecc.), di weekend a Parigi, di profilattici, di cene nei ristoranti e pizzerie. Il 14 Febbraio è anche il giorno di grandi sofferenze: di coloro che sanno di non ricevere regali, di coloro che scoprono di non riceverne, di coloro che si aspettavano ben altro, di coloro che sono costretti a fare regali. In ogni caso sicuramente in questa giornata molta gente sorriderà e si vorrà (o farà finta) più bene, quindi sospendiamo il giudizio e lasciamo che ognuno si regoli secondo le proprie idee e sentimenti. A chi volesse decidere di festeggiare dedichiamo qualche scanzonato consiglio:
- evitate rose rosse ed orchidee, puntate sulla varietà dei colori (soprattutto se la vostra bella è daltonica);
- dolciumi e lingerie sono regali piuttosto prosaici e, a volte, controproducenti. Molto meglio una cena romantica o uno spuntino in riva al mare (evitare il Re della Porchetta….);
- doni impegnativi (gioielli, automobili, monolocali) saranno molto tangibilmente apprezzati;
- evitate di passare la serata in comitiva, essere circondati da amici con gli occhi da merluzzo e amiche con lo sguardo da tortora in amore, non è un bel vedere. Gli amici single poi, sono i peggiori, in queste circostanze sembrano tutti affetti da itterizia e cretinismo;
- se non siete in grado di spendere per la serata almeno 50 Euro, datevi malati;
- se il vostro San Valentino è di tipo coniugale, qualsiasi cosa facciate sarà criticata. Se siete
furbi portatela a cena fuori, sicuramente vi sarà rinfacciata la scelta del ristorante ma, senza dubbio vi sarà riconoscente per averle evitato di preparare la cena (probabile coitus
nocturnus, non bevete troppo).
Mi raccomando: prudenza e attenzione. Ventiquattr’ore passano presto.

lunedì 11 febbraio 2008

Raghunath manet - Michel Portal

TUTTO E' POSSIBILE

Dr Cotti's Cabinet of Curiosities

MERAVIGLIE

LA WUNDERKAMMER DEL TERZO MILLENNIO


La “wunderkammer” (stanza delle meraviglie) è un fenomeno sociologico-culturale tipico delle residenze nobili e/o molto ricche dell’area mitteleuropea tra il XVIII e il IXX secolo. In realtà questa usanza risale all’apice della cultura barocca, quando prese piede il collezionismo artistico e naturalistico presso coloro che, per status e per mezzi, potevano mostrare ad amici, ospiti e conoscenti non solo la propria potenza economica ma soprattutto la propria competenza culturale. La “wunderkammer” era un luogo creato apposta per raccogliere e mostrare manufatti artistici particolarmente pregiati, apparecchi scientifici appena inventati, reperti naturalistici estremamente rari e unici. In questo luogo era possibile ammirare accanto a sculture greche e romane, miniature in giada (o avorio) provenienti dalla Cina, lenti e specchi deformanti, cannocchiali, reperti fossili, collezioni di conchiglie, animali rari ed esotici imbalsamati, mostri della natura (maialini a due teste, gemelli siamesi nati morti, aborti mostruosi) conservati in alcool sotto vetro, lanterne magiche estremamente realistiche, pitture giapponesi su carta di riso, teste umane rimpicciolite dagli indios amazzonici, corredi funerari completi della Magna Grecia acquistati dai tombaroli durante il Gran Tour in Italia, collezioni di minerali, stampe pornografiche, armature medievali, armi di vario genere provenienti da tutto il mondo e tantissime altre curiosità di tutti i tipi. Questo luogo era la dimostrazione concreta del trionfo dell’intelletto umano, del dominio dell’uomo sulla natura, della riappropriazione critica ed estetica della storia. Era la celebrazione della “civiltà” del proprietario della “wunderkammer”, della sua potenza economica messa al servizio del progresso umano. Visitare questi luoghi era un’esperienza molto coinvolgente: si rimaneva rapiti dalla bellezza di alcune opere d’arte, estasiati dall’unicità di alcuni reperti naturalistici, ma anche sconvolti dal crudo realismo di altre manifestazioni della natura e della crudeltà umana. Meraviglia, conoscenza, civiltà e fascino dell’inusuale e dell’esotico erano le cifre attraverso le quali l’umanità colta proiettava il proprio futuro ruolo sul pianeta e giustificava il senso del progresso e della vita. Al giorno d’oggi, nel terzo millennio, vi sono ancora luoghi capaci di suscitare le stesse emozioni e le stesse riflessioni? Naturalmente sì. Questi luoghi sono i centri commerciali. Visitarne uno equivale a fare un’esperienza emotiva e conoscitiva della civiltà contemporanea. Possiamo vedere e acquistare merci ed alimenti provenienti da tutto il mondo, possiamo conoscere e provare apparecchi e macchine per tutti gli usi sempre più sofisticati e moderni, possiamo toccare con mano il livello di civiltà materiale raggiunto dall’umanità e soddisfare ogni curiosità ed ogni esigenza. Le sensazioni più forti e ricorrenti che si provano in un centro commerciale sono quelle di disponibilità illimitata, di giacimento inesauribile, di meraviglia, di desiderio facilmente appagabile. Esso è un luogo irreale in cui tutto è possibile per ognuno, c’è una risposta per tutti, merci per ricchi e merci per poveri, alimenti per gourmet e cibo molto economico, anche il più povero può visitarlo limitandosi a desiderare e a fantasticare acquisti, è un luogo di certezze e di speranze. Il centro commerciale è il paradigma della nostra società, è il santuario della civiltà dei consumi, è il moderno oracolo che risponde sempre a tutte le domande. La folla che lo frequenta è pervasa dallo stesso entusiasmo che, in passato, si provava alle gite fuori porta: ragazzini schiamazzanti fra gli scaffali, mariti alla guida di carrelli stracolmi con lo stesso fiero cipiglio di quando si è alla guida di una fuoriserie, mogli languide per orgasmi ripetuti da acquisto compulsivo, anziani gioiosi intenti a sbocconcellare un metro quadro di pizza acquistata al bancone del pane, donne che assediano impazienti lo stanzino-prove, altre donne incuranti di essere assediate che provano decine di indumenti, bambini in carrozzina che piangono disperati perché hanno solo due mani già occupate da dolciumi colorati e pupazzetti orribili, altri bambini in carrozzina che piangono paonazzi per la cacca nel pannolino, giovani ragazze in sovrappeso che contestano le leggi della fisica ostinandosi a usare la taglia small, giovani ragazzi con acconciature da frocio stile impero e occhiali da sole specchiati che vagano senza meta. Tutta questa varietà umana, che fa venire in mente alcune descrizioni di Petronio nel suo Satyricon, rappresenta e testimonia i nuovi traguardi di civiltà che ci aspettano, la rinnovata fiducia dell’umanità nella capacità dell’uomo di progredire. Stiamo evolvendo dalla meraviglia della conoscenza a quella del possesso e, francamente, non mi sembra un gran progredire: dalla stanza delle meraviglie alle meraviglie per tutti. Occhio ai punti fedeltà.

domenica 10 febbraio 2008

QUENTIN TARANTINO - Pulp Fiction

EFFETTI COLLATERALI DI UNA COLAZIONE TROPPO PESANTE

HANS RICHTER - Ghost Before Breakfast (1928)

ALLUCINAZIONI A STOMACO VUOTO

SUPERTRAMP - Breakfast in America

IL MATTINO HA L'ORO IN BOCCA

venerdì 8 febbraio 2008

Mozart's Requiem Mass in D Minor II - Dies Irae

FRAMMENTI D'ASSOLUTO

NINO D'ANGELO - 'Nu Napulitano

ORA BASTA CON I LUOGHI COMUNI.

MALA TEMPORA CURRUNT


Viviamo in un mondo intossicato, violento, senza alcuna certezza. Non ci sono riferimenti ideali in cui credere, certezze metafisiche in cui confidare, buon cioccolato fondente facilmente reperibile. Domina un diffuso senso di provvisorietà, di cinica rassegnazione, pare che non vi sia modo di cambiare le cose e che resta solo da abbandonarsi agli eventi cercando solo di sopravvivere. La televisione è diventata ormai la nostra magistra vitae: informa, educa, diverte, commuove, determina l’alimentazione e gli altri consumi, crea miti, forma le coscienze. Le nostre azioni e comunicazioni sono sempre più strettamente controllate da occhi elettronici e orecchi digitali, non c’è rimasto molto della privacy di ognuno di noi. La situazione economica generale è piuttosto pesante e costringe ad uno stile di vita più attento e parsimonioso, inoltre la vita quotidiana è sempre più complessa e densa di obblighi; in passato la figura professionale più vicina e familiare era quella del medico, ora imperversa il commercialista: non passa settimana senza che capiti la necessità di consultarlo e senza scoprire che c’è sempre qualcosa da pagare. In passato il medico aveva una notevole funzione di supporto psicologico, parlare con lui aveva un effetto positivo e rasserenante. Parlare col commercialista, invece, vuol dire rovinarsi la giornata fino a diventare iracondi; il commercialista è odioso, egli con poche e apodittiche parole ci ricorda che questo mondo è una valle di lacrime perché il contribuente ha sempre torto e lo Stato ha sempre ragione, lui invece, il commercialista, è impotente di fronte all’arroganza e alla perfidia delle leggi. Le leggi, ovvero quelle norme capestro concepite dalla politica. La politica, quel marasma di anime putrefatte che fanno e disfano sulla pelle dei poveracci. Per non parlare dei poveracci che dovrebbero essere tutelati dalla Legge attraverso la magistratura. La magistratura, ovvero il nuovo Direttorio, una corporazione di intoccabili che pretende di avere sempre l’ultima, definitiva, parola su tutto. Non è strano, quindi, se l’atteggiamento generale è quello di vivere sulla difensiva cercando di parare i colpi e comunque cercando di proteggersi il più possibile. Le consolazioni ammesse sono veramente poche: pizzeria, cinema, nutella, fantasie di sesso sfrenato, amici più o meno virtuali, qualche buona bottiglia, discorsi da ottuagenari alienati, bestemmia libera ad ogni apparizione tv di un politico qualsiasi. Nel frattempo i figli crescono coltivando un insano amore per il denaro, una noia esistenziale da elettroshock, una discreta dimestichezza con varie sostanze psicotrope, una fiera ignoranza abissale, un conformismo militante e totalizzante da giovane balilla. E’ evidente che ci troviamo nel bel mezzo di una mutazione antropologica in cui, tragicamente, manca la fase di scontro dialettico tra vecchie e nuove generazioni. I giovani non si preoccupano di criticare e giudicare i vecchi ma semplicemente li liquidano, mostrando il più assoluto disinteresse verso la storia e verso la realtà contemporanea. La famiglia non è più il primario luogo di scontro fra vecchie e nuove esigenze. La famiglia è una sorta di agenzia il cui ruolo deve essere solo quello di fornire i mezzi per vivere secondo i nuovi modelli giovanili dominanti. Sembrerebbe che alla radice di tutto vi sia una profonda e diffusa disillusione, una consapevolezza che nulla può cambiare e che tutto si riduca, alla fine, all’individuo e alla sua capacità di sopravvivere e di perseguire scopi personali. Una specie di individualismo anarcoide, di desiderio di liberazione egotistica, una improbabile rilettura di Max Stirner all’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, dove il potenziale “eversivo” non si manifesta nella pratica del terrorismo individualista bensì in una sorta di “auto-terrorismo”: “bombe interiori” a base di alcool e droghe che annichiliscono ogni volontà di cambiamento, ricerca ostinata dei propri limiti emotivi attraverso escalation di esperienze sempre più forti, identificazione del sé nella virtualità televisiva e cibernetica, godere dell’onnipotenza di una second life costruita secondo i propri criteri e le proprie fantasie. La responsabilità di questa “schizofrenia” generazionale non può essere imputata solo alla società dei consumi, vi è una complicità attiva e responsabile della famiglia che non ha saputo discernere tra ricerca del benessere e autonomia di giudizio. “Vivere criticamente”, ovvero saper cogliere il senso dialettico dell’esperienza mettendola in discussione, non è una pratica diffusa. Chiedersi continuamente “perché” è faticoso e, a volte, è scomodo. Ha preso piede, così, una grandiosa menzogna: la vita è darsi delle risposte. Non è così. La vita consiste nel porsi sempre delle domande la cui risposta è sempre una nuova domanda.

lunedì 4 febbraio 2008

VORTICE


Come ispirati dervisci, ruotano
i miei pensieri nel vuoto
della mente ripulita dal vento.
Non sono più miei ora.
Sono urla mute,
sono preghiere tibetane,
sono vibrazioni che muoiono
come le onde concentriche
nate dalla pietra nello stagno.
Silenzio.

MEREDITH MONK - 2/8

ANTROPOLOGIA DELLA VOCE

MEREDITH MONK - Gotham Lullaby

DOMANDE SENZA RISPOSTA

sabato 2 febbraio 2008

VASCO ROSSI - La Noia

VITA NOIOSA.

DAMIANO DAMIANI - La Noia

QUANTO COSTA ANNOIARSI.

FRANCO CALIFANO - Tutto il Resto è Noia

MALEDETTA NOIA.

NOIA

L’immagine di una gioventù sbracata e indolente non è cosa tipica dei nostri tempi. Ricordiamo alcuni personaggi de “I Vitelloni” di Federico Fellini e soprattutto il ritratto corrosivo della gioventù della provincia pugliese descritto nel primo film di Lina Wertmuller “I Basilischi”. Insofferenti del clima opprimente e represso nel quale crescevano, i giovani pugliesi dei primi anni ’60 si sfogavano fra loro parlando e progettando seduti al solito caffè. Ma tutta questa energia “eversiva” si esauriva nell’impatto contro un’atavica disillusione trasformandosi in comoda accettazione delle regole dominanti. Una gioventù stanca prima ancora di lottare, una gioventù che sublimava la propria tensione per il progresso della politica e del costume in interminabili discussioni, nell’esercizio di una retorica vuota, inconcludente, ipocritamente rassegnata.
Dopo cinquant’anni cosa è cambiato nella nostra gioventù? Bar, pubs e locali sono iperaffollati, soprattutto nel fine settimana dalle ore 22 in poi; la spinta aggregativa fra i giovani è sempre molto forte, amano passare il tempo libero in compagnia per potersi dedicare tutti insieme alla loro attività preferita: annoiarsi. I gruppi e le comitive bivaccano tristemente nei locali praticando la noia più assoluta fra un bicchiere e l’altro. Dopo qualche ora, giunti all’apice del godimento noioso, si spostano in un altro locale dove riprendere ad annoiarsi in modo accanito e a bere in modo risoluto. La gioventù contemporanea ha perso anche la voglia di esprimere il proprio punto di vista, non vuole neanche illudersi di discutere sui problemi e sulle questioni che la riguardano. Unica parola d’ordine: ammazzare il tempo. Dopo una lauta cena con mammà e papà, una bella doccia corroborante e digestiva, inforcano indumenti e calzature griffate, prendono l’auto personale, regalo per il compimento dei venerabili diciott’anni, dotata di impianto stereo sfondatimpani e via verso il luogo di ritrovo della comitiva. Riuniti tutti insieme appassionatamente, si comincia a gonfiare la noia collettiva. Potrà sembrare strano, ma lo scopo della socializzazione non consiste nella ricerca di evitare la noia bensì nell’esigenza di condividerla, come se fosse una condizione ineluttabile e ineludibile per tutti. Quindi la socializzazione giovanile dei nostri tempi non risponde all’esigenza di superare attraverso il gruppo particolari problematiche e tensioni comuni, si tratta piuttosto di una sorta di rito di appartenenza al gruppo nel quale ognuno conferma l’identità di una condizione che è condivisa da tutti. La cosa ricorda, per certi aspetti, la consuetudine della middle upper class britannica di passare il tempo libero al club. Al club si beve, si mangia, si legge, si gioca, si conversa, ma il tutto è sempre e comunque fatto nella convinzione che non c’è altro di meglio da fare e che le uniche cose serie della vita sono il lavoro, le istituzioni e il saper vivere in società. Facendo le dovute differenze, anche per i nostri giovani le uniche cose serie della vita sono il lavoro (quando lo si riesce ad avere), il saper vivere in società (saper “ammazzare il tempo”) e soprattutto lo “stare bene”, ovvero sentirsi accettati dagli altri e non avere per la testa pensieri o fissazioni moleste. In passato la noia era il tipico problema della giovane borghesia, assuefatta ad ogni esperienza e cinicamente disillusa su ogni reale possibilità di cambiamento. Oggi non è più così.
La noia imperversa in tutti gli ambienti giovanili, di qualsiasi strato sociale, perché essa rappresenta l’effetto collaterale del consumismo da una parte, dall’altra essa è, sua volta, la molla che spinge alla ricerca continua (e a volte fatale) dello sballo ad ogni costo. La nostra gioventù è stata allevata nel culto devastante di evitarle la sofferenza, lo shock, la repressione, la negazione e la frustrazione. E’ stata allevata secondo gli insegnamenti del tubo catodico: la vita è bella perché puoi avere quello che vuoi e puoi essere amato e popolare se sai essere bello e alla moda. L’importante è far parte del gruppo, non essere mai isolati, perché solo nel gruppo ci si sente protetti e compresi. Vedere folti gruppi di giovani che attendono il loro turno nel pub ricorda certe immagini di grandi stormi di uccelli che volteggiano compatti nell’aria per scoraggiare il predatore. Meglio vivere mimetizzati fra un gruppo di simili che doversi esporre in prima persona. Meglio annoiarsi in compagnia che da soli, e poi anche il luogo ha la sua importanza, sicuramente i più frequentati sono quelli dove ci si annoia meglio, dove la rottura di balle è garantita al cento per cento. E noi poveri gonzi stagionati che si credeva che il must della noia fosse l’oratorio o i pomeriggi estivi assolati in cui tutti riposano tranne te. Poveri illusi, la vera noia è solo quella che sei disposto a pagare pur di provarla.