venerdì 31 agosto 2007

ENZO JANNACCI - Pasqualino settebellezze

QUANDO I LUOGHI COMUNI DIVENTANO MUSICA

ACHILLE CAMPANILE - Acqua minerale

SEMANTICA DELL'EUFEMISMO

ACHILLE CAMPANILE



“Mi guidano, quando scrivo, lampi d’imbecillità.”


Quest’anno cade il trentesimo anniversario della morte di Achille Campanile. Giornalista, scrittore, drammaturgo, umorista. Egli è stato, insieme a Totò ed Ennio Flaiano, il più acuto osservatore della società e del costume italiano e, come per Totò, il suo grande genio è stato tenuto in disparte dalla seriosa e parruccona intellighenzia nazionale. La sua opera si basa sui paradossi del linguaggio e sulla destrutturazione dei luoghi comuni tipici della società italiana, il suo umorismo è placidamente corrosivo, il suo teatro è l’unica vera risposta della cultura italiana alle visioni e alle scoperte di Beckett e Ionesco. Leggere Campanile è un’esperienza unica, entusiasmante.

Manuale di conversazione

Le grammatiche su cui si studiano le lingue saranno utilissime per impararle, ma non altrettanto per la logica e il buon senso. Il che, tuttavia, non rappresenta un danno in ogni senso. Anzi potrebbe contribuire a dare ai rapporti fra le persone un carattere quanto mai spensierato e fantasioso che conferirebbe alla vita un aspetto dei più piacevoli. Dalla grammatica inglese: " Portaste il binocolo? ". " No, ma portai il vostro ventaglio. " Col che si imparano parecchi vocaboli, non c'e dubbio. Ma non è chi non veda un ventaglio esser tutt'altra cosa che un binocolo. Non c'e' niente in comune fra i due oggetti. Come è possibile parlare di ventaglio a chi vi chiede notizie del binocolo? Vediamo: dove, quando e perchè si può domandare a qualcuno se ha portato il binocolo? In teatro, o in occasione di una gita in luoghi panoramici, o per esigenze belliche. Ora, ammesso che in un teatro possa essere utile anche un ventaglio, benchè abbia tutt'altra funzione e non sarà certo esso che mi permetterà di apprezzare le bellezze d'un corpo di ballo. Ma su una montagna! Che ne faccio d'un ventaglio, se ho bisogno d'un binocolo? Non parliamo poi d'una casamatta o della tolda d'una nave da guerra. Immaginate un generale nel suo osservatorio o un ammiraglio sul ponte di comando, che durante l'infuriare della battaglia, dovendo seguire le mosse del nemico, domandi all'aiutante di campo: " Portaste il binocolo?" e si senta rispondere: " No, ma portai il vostro ventaglio ". Anche ammesso che faccia molto caldo, in quel momento il comandante ha bisogno di guardare. Forse gli autori degli esercizi di traduzione immaginano un mondo di stolidi. Ecco un altro dialogo della grammatica inglese: " Mamma, comperasti la tovaglia? " " No, ma comperai il rasoio per tuo fratello. " Una famiglia di pazzi, evidentemente. Pazza la madre, che forse immagina si possa apparecchiare la tavola col rasoio; e pazza la figlia, che dal manuale non risulta essersi minimamente turbata alle parole inconsulte della vecchia insensata. Ancora: " Vedeste il mio allacciabottoni? ". " No, ma vidi il vostro colletto e polsini. " Magari qui si può ravvisare un barlume di coerenza, in quanto siamo sempre in materia inerente al vestirsi. Ma c'e un abisso, tra la domanda e la risposta. Uno dei torti degli esercizi di conversazione e per l'appunto di non dare quasi mai la terza battuta. S'imparerebbero molte altre parole, magari non delle più ortodosse. Come rispondereste a uno che vi parla di colletto e polsini, quando voi gli domandate notizie dell'allacciabottoni? E evidente: " O sei un imbecille, o vuoi prendermi in giro. Come ti viene in mente di rispondermi cosi? " E giù una sequela di parolacce, che pure hanno la loro utilità nello studio d'una lingua.
In conclusione m'è più volte capitato, nell'esprimermi in una lingua straniera imparata di fresco su una grammatica, di essere quanto mai incoerente. Una volta, a un passante che mi domandava: "Sapreste dirmi dov'e' la tale strada? " mi avvenne di rispondere sulla base di un dialoghetto studiato nella grammatica. " No, ma so dirvi l'età del cugino di vostro padre. " Il passante rispose con una frase che non capii, perchè purtroppo, come dicevo, negli esercizi di conversazione manca sempre la terza replica. Per tacere degli scorci di vita che si possono cogliere, attraverso quegli esercizi, specie se si diffondono in particolari " Eravate con vostro padre? " " No, ero con l'amico di mio padre, ma le mie sorelle erano con vostra madre; siamo stati a vedere la cattedrale." Bella brigata di cretini davvero. Tra l'altro c'è da scommettere che ognuno non capiva chi fossero gli altri quanto a grado di parentela reciproca, durante questa famosa visita alla cattedrale. Perché è soprattutto sull'indicazione delle parentele che queste frasi risultano sibilline. Doveva essere una mattina grigia in una città gotica del Nord-Europa, una pioggerella leggerissima punzecchiava appena i volti dei passanti. I nostri amici, usciti dall'albergo e avendo lasciato qua e là un certo numero d'imprecisati parenti, andavano in fretta verso la cattedrale con le guide in mano. Nella chiesa semibuia tra le navate, si sbirciavano sospettosi: " Chi è quello? ". " E' l'amico di vostro padre, e io sono la madre di un tale che non c'è, perchè io sto con le vostre sorelle. " " E che rapporto di parentela c'è fra voi e l'amico di mio padre? " " Egli è l'amico del padre delle ragazze che stanno con me e che sono vostre sorelle, mentre voi siete l'amico di mio figlio. " E' un groviglio. " Ed io chi sono? " " Voi siete il figlio dell'amico di quel signore e il fratello delle signorine che stanno con la madre di un altro vostro amico che non è qui, e questa sarei io." Basta, basta, per carità , c'è da diventare pazzi. E notate che queste frasi sono tutte rigorosamente dedotte da quella dell'esercizio, quanto a rapporti di parentela, amicizia e semplice compagnia, tra i partecipanti alla visita della cattedrale. Durante la quale - è ovvio aggiungerlo - il cicerone avrà zittito: " Signori, occupatevi della cattedrale, invece che di questi pasticci di famiglia; guardate i vetri istoriati ". Dopo la visita, tornati all'aperto: " Ed ora andiamo a far colazione? ". " No, ma posdomani arriva il cognato di vostro figlio. " E via in fretta, senza volti, senza cervello, mentre una pioggerella leggerissima fa viscido il selciato fra le basse arcate e i negozi di frutta della grigia città gotica. E si sente nell'aria un odorino di cavoli cotti e di birra, mentre il carillon dei pupazzi metallici suona mezzogiorno nella torre del palazzo di città. Europa, Europa mia! Quando verremo a liberarti?


Da “Manuale Di Conversazione” di Achille Campanile, edizioni BUR, 1973-1976.

giovedì 30 agosto 2007

EDOARDO BENNATO - Viva la Mamma

RITRATTO DELLA MAMMA DA GIOVANE

Lucignolo - La vita in famiglia

TIPICA MAMMA ITALIANA

La famiglia Fetuso - Avanzi

MODELLI FAMIGLIARI

HENRY SALVADOR - Album di Famiglia

FOTOGRAFIE FAMILIARI

LA FAMIGLIA


“Tutto ciò che una madre e un padre possono attribuirsi a merito, è di non aver guastato il proprio figlio in modo palese.” Margaret Mead
Nell’odierna società dei consumi la famiglia ha subito una rapida evoluzione senza riuscire a raggiungere un nuovo equilibrio stabile. Il rapporto fra genitori e figli è profondamente contaminato da modelli, aspirazioni e bisogni indotti dai mass media per aumentare i profitti delle grandi industrie dell’alimentazione, della moda, delle telecomunicazioni e del tempo libero. I figli, vittime inconsapevoli della quotidiana carneficina massmediale, diventano i carnefici dei propri genitori, i quali, a loro volta, allevandoli nella perversa cultura dominante, ne rimangono vittime attonite e stupefatte. Il padre e la madre, autoinvestiti della loro missione sacrale, quasi sempre sono disposti a concedere e a contrattare solo su alcuni tipi di richieste purchè i figli dimostrino di attenersi a determinate direttive di fondo che sono assolutamente non negoziabili; il problema è che non si sono resi conto di aver allevato una bomba ad orologeria che, prima o poi, gli scoppierà fra le mani. L’ideologia del tutto e subito, del divertirsi ad ogni costo, del denaro come feticcio, del successo riconosciuto da status symbol, della cultura dove non vi sono domande senza risposta, della famiglia come prototipo di un supermarket, del lavoro come fonte di guadagno e non di affermazione personale, è ormai penetrata a fondo nelle giovani generazioni determinando i comportamenti e le riflessioni conseguenti. La famiglia contemporanea vive in una dimensione astorica, come se fosse sempre stato così, come se i rapporti parentali si fossero sempre basati sugli stessi principi. Naturalmente così non è, i genitori di adesso sono stati figli e nella loro memoria sono sicuramente rimaste le tracce indelebili del conflitto e della ribellione giovanile. La storia e la psicologia ci dicono che i figli devono ribellarsi, devono lottare per le loro idee e i loro bisogni, al di là della qualità delle loro convinzioni. Se ora lottano per un panino in più da McDonald’s o un paio di pantaloni griffati la colpa non è certo la loro: quali sono i loro modelli? Un padre che lavora tutto il giorno per cambiare automobile o programmare le vacanze da un anno all’altro, una madre che sfacchina tutto il giorno per ingozzare la prole vorace e viziata sperando di poter fare la chioccia anche quando i figli avranno compiuto cinquant’anni. Naturalmente tutto questo è rafforzato dai modelli virtuali che colano abbondanti da quella piaga purulenta che è la televisione; un vero e proprio pus mediatico che infetta le menti e gli animi, che nel tempo trasforma un giovane essere umano in uno zombie dell’acquisto compulsivo, in un fesso che non capirà mai che paga,e molto, per fare la pubblicità agli stilisti (è pazzesco, se si pensa che appena cinquant’anni fa i famosi “uomini sandwich” venivano pagati per girare la città con la pubblicità addosso, e ora c’è un’inflazione di “uomini e donne sandwich” che pagano di tasca loro per percorrere il pianeta allo stesso scopo). Diciamolo chiaramente una volta per tutte: come può un genitore che veste una T shirt dove campeggia a carattereri cubitali D&G, o simili, contrastare la richiesta del figlio di indossare mutande con elastico griffato a vista? Come fanno un padre e una madre che hanno regalato il primo cellulare all’ottavo compleanno del figlio, esimersi dal regalargliene uno nuovo ogni anno? La vera autorità famigliare è rappresentata dal denaro, non dai genitori che ne dispongono, ma dal denaro in sé stesso: la banconota è la vera e unica icona della famiglia. Esso rappresenta l’appagamento, la felicità spensierata, il bene supremo a cui tendere e per il quale vale la pena lottare. I genitori sono paragonabili ai dei novelli dottor Frankenstein, hanno creato e allevato un mostro (in senso etimologico: monstrum, prodigio), un essere forte e potente che vuole tutto e subito, arrogante e violento, spesso senza scrupoli. Ma come accade nel romanzo di Mary Shelley, questa forza distruttiva si blocca davanti alla disarmante dolcezza della semplicità provando autentica commozione. E qui il fallimento della famiglia si svela drammaticamente: la mancanza assoluta di quella che i latini chiamavano auctoritas et gratia, credito e protezione, ovvero l’autorevolezza di una protezione affettiva concreta, di un impegno continuo nella comprensione e nel rispetto dell’individualità orientato verso l'evoluzione della persona.
“La santa famiglia!...Il luogo dove si presume che fioriscano tutte le virtù, dove bambini innocenti sono costretti con la tortura alle prime ipocrisie, le volontà sono spezzate dalla tirannia dei genitori, il rispetto di sé mortificato.” August Strindberg

mercoledì 29 agosto 2007

SANDY MULLER - nao tenho pressa

NON NE VALE LA PENA

PINO DANIELE - Pigro

ACCIDIA MUSICALE

PIGRO


“ La pigrizia è il rifiuto di fare non soltanto ciò che annoia, ma anche quella moltitudine di atti che senza essere, a rigore, noiosi, sono tutti inutili; allora la pigrizia dev’essere considerata una fra le manifestazioni più sicure dell’intelligenza.” Henri de Montherlant
Mettiamo da parte una volta per tutte il clichè stantio che vede il pigro come un fannullone intento a dormire senza alcun tipo di pensiero e di preoccupazione. Così come assurdo è il ritratto che dipinge l’uomo pigro come un ebete infingardo in perenne stato semicomatoso. Dev’essere chiaro a tutti che la pigrizia è un atteggiamento fondato su una serie di considerazioni filosoficamente rilevanti che investono la realtà ed il nostro rapporto con essa. Prima di tutto la pigrizia è autodifesa dalla ripetitività alienante, dalla banalità dei luoghi comuni, dalla stupidità imperante, dalla lotta senza quartiere per il prestigio e il potere. La pigrizia è la dichiarazione dell’assoluta necessità della riflessione, dell’osservazione e della comprensione. L’uomo pigro non è violento né arrogante, tende ad immedesimarsi nel prossimo e a considerare sempre le ragioni degli altri. L’elemento più rilevante che caratterizza la pigrizia è il tempo: Platone lo definiva come “l’immagine mobile dell’ eternità”, Aristotele sosteneva “una parte del tempo è stata e quindi non è, mentre l’altra deve essere e non è ancora. Allora il tempo, sia quello infinito, sia quello che ti interessa prendere, è fatto di queste parti. Qualcuno potrebbe supporre, naturalmente, che ciò che è costituito da cose che non esistono, non possa essere parte della realtà”, Kant descriveva il tempo come “la forma del senso interno”, poiché tutti i nostri stati mentali sono ordinati nel tempo e senza questa prospettiva ogni oggetto si pone al di fuori della nostra esperienza. Ma ci sono esperienze umane che invece sono caratterizzate dall’essere atemporali, nel senso che pur avendo luogo nel tempo si sviluppano in una dimensione al di fuori dell’ordine naturale: ad esempio gli sguardi degli innamorati; gli occhi vanno al di là del momento, superano il mondo reale, tendono ad evocare una fusione trascendente del proprio essere con quello dell’altro. La stessa percezione del tempo, in queste circostanze, viene completamente alterata. Ecco, lo sguardo del pigro sulla realtà è lo stesso dell’innamorato; il pigro è innamorato della vita e della natura e tende ad una fusione con essa al di là del momento contingente. Egli si astiene da tutte quelle pratiche che potrebbero portare in secondo piano questa dimensione di contemplazione atemporale, egli rifiuta la schiavitù del tempo organizzato e anela alla liberazione del proprio essere che si realizza in ogni istante della vita di ognuno di noi. Il pigro tende a concentrare le azioni indispensabili alla vita quotidiana per poter lasciare più spazio possibile a ciò che ritiene essere assolutamente più importante. Egli rifiuta la velocità in quanto ottusa superficialità e banalizzazione dei nostri comportamenti e delle nostre relazioni. La lentezza del pigro manifesta la piena consapevolezza dell’agire, garantisce una ponderata riflessione che ha depurato il fare da ogni pericolosa avventatezza. Come l’ Oblomov di Goncarov, il pigro non è un ozioso infingardo, è piuttosto un antieroe, un uomo che ha scelto di non partecipare ad una società ossessionata dalla morte e sempre in corsa per inseguire un’immortalità impossibile: la sua visione umanistica della vita e della realtà gli impedisce di essere complice consapevole di una società spietata con l’individuo, basata su valori di consumo compulsivo e di velocità senza senso. Il pigro vive all’ombra di Budda e dei grandi pensatori asceti, egli sa che non si può determinare il tempo di osservazione di un fiore appena sbocciato o del mare in tempesta, egli è consapevole del fatto che l’affettività non ha tempo né spazio, egli è sicuro che la nostra percezione della realtà è l’unico strumento valido per riflettere su noi stessi e sul nostro rapporto con l’esterno. La spiritualità e la trascendenza sono strade da percorrere quotidianamente, una sorta di pellegrinaggio interiore verso un santuario misterioso, posto in un luogo misterioso.
La solerte operosità di chi sostiene con convinzione che “il tempo è denaro” è la stessa di colui che, caduto in un pozzo profondo, nuota disperatamente per restare a galla; è la stessa della formica operaia sempre in movimento, senza sapere il perché.
“Tutti lavoriamo per arrivare al riposo: è ancora la pigrizia a renderci laboriosi”. J.J. Rousseau

martedì 28 agosto 2007

WOODY ALLEN - Io e annie

DAVANTI AL BOTTEGHINO

WOODY ALLEN - Hollywood Ending

MISTERIOSI INCONVENIENTI

WOODY ALLEN - Prendi i soldi e scappa

CAVARSELA

ALLEN



Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana in più. Durante la quale pioverà sempre.

Woody Allen

lunedì 27 agosto 2007

PASOLINI

PAROLE PROFETICHE

PASOLINI - Vangelo secondo Matteo

UN'EREDITA' TROPPO PESANTE

PIER PAOLO PASOLINI - Mamma Roma

STORNELLI CRUDELI

PASOLINI

UN MONDO SCOMPARSO.

PASOLINI



Chi dice che io sono uno che non crede, mi conosce meglio di quanto io conosca me stesso. Io posso essere uno che non crede, ma uno che non crede che ha nostalgia per qualcosa in cui credere.

Pier Paolo Pasolini

venerdì 24 agosto 2007

IRIA BRAGA - Prece au Vento

QUANDO NON CI SONO SANTI.

GIOVANNI ALLEVI - Vento d'Europa

ISPIRATO E LEGGERO.VENTOSO.

VENTO


Potente e invincibile sferza il corpo.
Come erba sugli scogli scuote l’anima.
Vento, inarrestabile come i pensieri,
muove il mare, fa parlare le foglie.
Vibra le terra ed il cuore come un tamburo.
Ulivi piangono i loro secoli immobili.
Cattedrali urlano gli orrori della storia.
Vele gonfiano il petto per un altro viaggio.
Tristi mutande asciugano per nuovi sudori.
Cuori affranti srotolano nuove, disperate preghiere.
Pagine finalmente libere, leggono sè stesse.
Donne belle dall’imbarazzo rimpiangono i pantaloni.
Voci senza padrone irrompono arroganti nelle case.
Pensieri, come fiamme assassine, seguono la direzione
del vento. Veloci. Si perdono. La vita, la soffia il cielo.

mercoledì 22 agosto 2007

CINICO TV - Ascelle puzzolenti

PUZZA DA SBALLO

MANHATTAN TRANSFER - Birdland

VOCI VISIONARIE.

PUSHED DAY


Per coloro che sono sempre alla ricerca di nuove esperienze ed eccitanti trasgressioni, questo è un periodo piuttosto moscio. Ormai è da un po’ che non si vedono novità di rilievo né nuove sostanze con cui cimentarsi alla ricerca dello sballo. In effetti è un gran periodaccio per tutti quelli che ormai le hanno provate tutte, dai semi di Ipomea & Coca Cola al Bostik da sniffare mentre si fuma una Gitane senza filtro. Mi permetto allora di dare qualche modesta indicazione a tutti coloro che giunti alla più nera disperazione hanno seguito i consigli di un buontempone che garantiva apici di sballo incredibili infilando nelle orecchie créme caramel istantanea: cari amici, sappiate che a casa vostra, con mezzi modesti e buona volontà, potrete confezionare dei magici momenti di pura beatitudine.
Tralasciando piccoli capolavori ormai d’uso comune come tequila e calzone di cipolle o pepata di cozze e Vecchia Romagna on the rocks, mi limiterò a segnalare vecchi e nuovi intrugli & accoppiamenti di grande effetto estatico, naturalmente va da sé che è necessario essere in buona forma psico-fisica: se soffrite di depressione o calcoli alla cistifellea è meglio una gita a Fiuggi o a S. Giovanni Rotondo.
Inauguriamo la nostra “pushed day” con una prima colazione a base di irish coffee e due mon chérie che avrete “siringato” con dell’ottima grappa friulana invecchiata. Spesa dal pizzicagnolo: assaggiate sul posto (entro le 10 del mattino) abbondanti scaglie di pecorino lucano, fettine di salsiccia calabrese e “straccetti” di mortadella al pistacchio. La prima visione mistica della giornata è assicurata. Ora dell’aperitivo. Non lasciatevi abbindolare dalle false promesse di più o meno esotici cocktails a base di liquori scadenti e succhi sintetici, oltre a far schifo hanno lo stesso effetto di due compresse di Tavor. Abbandoniamoci invece alle irresistibili lusinghe di un calice di vino bianco freddo (altamente raccomandabili sono: Verdicchio, Locorotondo, San Severo Bianco, Falanghina e Grechetto), se invece preferite un “mixed taste” non vi resta che scegliere tra una pastìs marsigliese (Ricard o Pernod) e una Schweppes con granita di limone artigianale e mezza porzione di Aperol. Evitate di consumare patatine rancide, olive approssimative e pizzette surgelate; se volete mangiare qualcosa fatevi servire del pane tostato con un misto di cubetti di provolone, mortadella e prosciutto crudo. Uno dei principali segni prodromici della seconda esperienza estatica è una netta sensazione di benevolenza e gratitudine verso vostra moglie che immaginerete come una trionfante reginetta del ragù o miss pasta al forno. Se siete donne penserete al vostro lui come ad un incrocio tra un San Bernardo e Bruce Willis. A questo punto meglio sedersi all’ombra e godersi lo sballo. A pranzo è meglio restare leggeri, un’ottima soluzione è un menu a base di spaghetti con le acciughe (sfumando il sughetto con un po’ di vodka polacca), insalata di cetrioli, capperi e pomodori, percoca con vino primitivo di Gioia del Colle. L’estasi postprandiale monterà lentamente, dalla cima dei capelli fin giù agli alluci sarete pervasi da un torpore sensuale, i suoni ovattati del mondo esterno sfumano lentamente lasciando spazio al vostro immaginario sonoro, si apre una nuova dimensione in cui tutto è piacevole, un mondo perfetto dove cosacce tipo la forfora non sono mai esistite. Se siete maschietti non mancherà il senso di moto ascensionale che si accompagna a visioni di supermaggiorate disposte alla più totale adorazione. Le femminucce invece proveranno vibrazioni centripete con fantasie molto più varie: da baci appassionati in cima alla scogliera ad amplessi ingarbugliati col garzone del salumiere, da ispirate serenate di mezzanotte ad avvinghiate conversazioni piccanti con sconosciuti muscolosi mostruosamente dotati. Urge una pausa rigenerante. Una passeggiata e un bel boccale di birra gelata. La sera è il palcoscenico ideale per l’estasi finale: pasta e fagioli con le cotiche, una fetta alta un dito di formaggio Taleggio (è inconfondibile per la sua puzza di piedi marci) e tre bicchieri di Aglianico del Vulture. Al confronto, due pasticche di ecstasy fanno l’effetto della dolce Euchessina. Vi sembrerà di essere su uno Shuttle in compagnia dei fratelli Marx. Finalmente capirete il genio postmozartiano di Mario Merola, l’irresistibile sensualità di Tina Pica, ma soprattutto coglierete il senso profondo della vita nascosto negli abissi di un bicchierino di nocino fatto in casa: non importa sapere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Quel che conta di più è sapere chi guiderà l’auto stasera.

martedì 21 agosto 2007

PINO DANIELE - Sicily

UN POSTO CI SARA'.
DEDICATO A TUTTI COLORO CHE MI LEGGONO.

PEPERONI VERDI FRITTI


Le verdi bacche crepitano nell’oscura padella,
pare il frinire di cicale che segnano il tempo
di un’estate calda di forti colori, d’intensi sapori,
di gesti sensuali, di pelle imperlata di profumato sudore.
Donne discinte trasformano in cibo l’amore.
I capelli raccolti svelano nuche eccitanti,
suono di caviglie veloci inchiodate nella memoria.
Odori acuti, passioni violente, sete implacabile,
arsure e ardori sospesi nella gialla afa del meriggio.
Le turgide bacche tramutate in morbidi bocconi
cosparsi di sale. L’amplesso con l’olio bollente
trasfigura l’eccitazione in tenera promessa
d’estatica voluttà.

lunedì 20 agosto 2007

NANNI MORETTI - Aprile

AI DOLCI NON SI RINUNCIA

CAPAREZZA - Limiti

MEGLIO NON RINUNCIARE

RINUNCE

“ Il mondo intero aspira alla libertà, eppure ogni creatura ama le sue catene. Questo è il primo paradosso e il nodo inestricabile della nostra natura. “ Shri Aurobindo.
E’ proprio così, il vero e sostanziale punto di crisi nell’esercizio della nostra libertà individuale è collocato nella sfera degli affetti. La libertà politica, quella di pensiero, i molteplici condizionamenti, più o meno subdoli, tipici della società dei consumi, non sono nulla se li paragoniamo alla potenza inibitoria e autolimitante di un legame affettivo. L’obiezione sorge spontanea: questo tipo di limitazione è una scelta personale non imposta da niente e nessuno e quindi, tutto sommato, rappresenta una libera scelta di limitare la propria libertà. Ma è proprio così? Siamo così sicuri che la nostra volontaria rinuncia sia una libera scelta? Possiamo veramente affermare che non siamo stati, in qualche modo, pesantemente condizionati o, addirittura, inconsciamente ricattati e “costretti” a fare quella determinata scelta? Il nostro stesso comportamento autolimitante, fino a che punto non è strumentale ad una sorta di equilibrio dinamico fra le proprie rinunce e quelle del nostro partner? A ben guardare, a volte sembra una vera partita a scacchi in cui ogni giocatore cerca di sacrificare i pedoni piuttosto che perdere pezzi ben più importanti: meglio fare tante piccole rinunce piuttosto che essere costretti a perdere su questioni “strategiche” di portata molto più rilevante. Una seconda obiezione è inevitabile: è normale che in un rapporto affettivo si crei una rete di comportamenti reciproci in cui ognuno rinuncia a qualcosa per amore dell’altro e per percorrere l’impervia strada della condivisione. Il problema è che, nonostante si sia animati dalla più totale dedizione all’altro, inconsciamente ci si aspetta che anche il partner abbia lo stesso tipo di comportamento. Invece non è così, molto spesso veniamo travolti da delusioni cocenti che rivelano un terribile squilibrio della bilancia del “dare e avere”. Così veniamo a scoprire, tralasciando i casi di “avarizia affettiva”, di non essere in sintonia con l’altro su questa delicata questione, anzi, scopriamo nel tempo punti di vista assolutamente opposti ai nostri. Per un uomo rinunciare a vedere la partita in tv per andare a fare una passeggiata in centro può essere una grandissima prova d’amore, ma lei se ne rende conto esattamente? Per una donna rinunciare alla cinquecentesima puntata della soap preferita per accompagnarlo a comprare una motosega in ferramenta è un sacrificio enorme, quasi eroico, ma lui comprende tutto ciò? Per non parlare delle frequentazioni forzate delle rispettive famiglie d’origine: il pranzo dalla suocera, il compleanno del cugino, la visita mensile a zio Tonino, moribondo da ben cinque anni…E il cibo? Vogliamo parlare del brodetto di merluzzo che lei adora tanto e che invece lui considera alla stregua di una tortura vietnamita? Poi ci sono gli amici: i nostri sono simpaticissimi, i suoi dei rompiballe approfittatori sempre affamati. Potremmo continuare all’infinito, dalla scelta delle vacanze al futuro scolastico dei figli, dal colore della cravatta al modello della nuova auto, dal concetto di astinenza sessuale all’orario in cui andare a dormire. Lentamente, ma irrimediabilmente, ciascuno crede fermamente di essere “creditore” verso l’altro, ignorando che, invece, il suo debito sta crescendo con interessi da usura e che mai, campasse cent’anni, potrà saldare. Quello che accade è paradossale: le piccole e grandi rinunce fatte per amore si trasformano in una ingarbugliatissima matassa di reciproche aspettative, di obblighi complessi che mai alcun chiarimento potrà sbrogliare.
E’ a questo punto che si materializza in noi una orribile sensazione di sprofondamento, come nelle sabbie mobili, ed il pensiero corre alla parola libertà. Mentre continuiamo a sprofondare comprendiamo che abbiamo liberamente scelto di scavarci la fossa, che abbiamo liberamente creduto che saremmo stati capiti, apprezzati e ricompensati della nostra grande generosità.
E’ vero più che mai il proverbio: “amor omnia vincit”, l’amore vince su ogni cosa: sulla libertà e sull’istinto di sopravvivenza. Rinunciare alla rinuncia è un atto di libertà, rinunciare per amore è un atto di codardia.

mercoledì 1 agosto 2007

LUCIANO DE CRESCENZO - Il Mistero di Bellavista

LA VENDETTA DELL'IGNORANZA

LO SQUALO

LA GIUSTA VENDETTA CONTRO I TIPI DA SPIAGGIA

QUENTIN TARANTINO - Kill Bill 1

L'ORA DELLA VENDETTA TRUCULENTA

LA RESA DEI CONTI

VENDETTA SENZA LIMITI

IL PIACERE DELLA VENDETTA


La vendetta è una reazione premeditata e attuata, dopo un lasso di tempo più o meno lungo, in risposta ad un torto, ad un affronto, ad una violenza, ad un tradimento subiti. La vendetta è una pratica unicamente umana poiché può realizzarla solo un essere con la coscienza di sé, che abbia la facoltà della memoria, che sia capace di dissimulare e di progettare nel tempo. La vendetta è una sorta di giustizia personale, dipende dal “verdetto” che ognuno di noi, giudice arrogante e spietato, emette sulle azioni e i comportamenti degli altri nei nostri stessi confronti. Vittime prima, giudici e aguzzini poi, attraverso la vendetta noi perpetriamo l’antichissima legge del taglione dilatandola a dismisura: poiché esiste la legge degli uomini e dello stato, la nostra legge personale riguarderà tutto quello che non è scritto, tutto quello che “per noi” è un vulnus insopportabile e che merita di essere punito. Sotto questo aspetto la nostra vendetta è assimilabile alla ultio deorum, alla collera vendicatrice della divinità oltraggiata; essa è un segno inequivocabile del nostro delirio di onnipotenza, nel quale ci sentiamo simili al dio precristiano: persecutore spietato dell’umano sacrilego. Ma a differenza del dio che castiga l’offesa nel nome di una fredda e imperturbabile legge cosmica, l’uomo partecipa emozionalmente alla vendetta, che è “indispensabile” ma è soprattutto fonte di immenso piacere, è voluptas ultionis, il piacere della vendetta. La letteratura è piena di storie sulla vendetta: dall’Iliade al Conte Di Montecristo, da Shakespeare ad Edgar Allan Poe, passando per Le Relazioni Pericolose di Laclos. La realtà non è da meno: dalle vendette trasversali della mafia alle faide familiari e di clan. La nostra stessa vita personale è costellata da piccoli grandi episodi di vendette: sul lavoro, nella vita quotidiana, con gli amici e persino, anzi soprattutto, con chi si ama. I bambini, anche loro non sono esenti da questa pratica e da questo piacere. La voluttà nel veder soffrire, nell’infliggere un’umiliazione cocente, nel portare alla disperazione, è una metafora del piacere di uccidere, di annientare l’avversario proclamando la propria potenza. Infatti la vendetta non è mai equivalente all’offesa ricevuta: è assai più grande e spietata, essa deve dimostrare in modo inequivocabile che il castigo per avere osato contro di noi è tremendo, è certo, è senza appello. La frase “me la pagherai..” è un decreto di morte culturale, una vendetta annunciata che un giorno o l’altro sarà riscossa e quel momento sarà “la resa dei conti”, il nostro privato giudizio universale, il momento in cui potremo godere nel punire il malvagio e nel manifestare la nostra potenza. A questo punto qualcuno dirà: ma esiste anche il perdono, un atto unilaterale e volontario di rinuncia alla vendetta. Infatti il perdono è caratteristica del dio cristiano, un dio misericordioso, che ha provato a farsi uomo per dimostrare il proprio amore e pietà. Ma siamo sicuri che il perdono, in sostanza, non sia altro che un modo incruento di fare vendetta? Se proviamo a vedere la cosa da un altro punto di vista ci accorgiamo che: il perdono viene concesso da chi è stato offeso, indipendentemente se sia stato invocato o meno; il perdono viene concesso nel nome di una ragione superiore (morale e/o trascendentale) di cui l’offeso è tramite diretto. Nel momento in cui il perdono viene concesso (etimologicamente da cum cedere, ritirarsi) si pratica la rinuncia alla vendetta, ovvero la rinuncia ad un diritto, quindi si afferma, praticamente, una sostanziale superiorità dell’offeso, il quale, dall’alto del suo diritto, esercita il suo potere affermando la propria clemenza. Chi è stato perdonato non ha pagato per l’offesa inflitta e sarà per sempre debitore morale, senza alcuna possibilità che i conti saranno mai messi in pari. E siccome il perdono non lo si accetta ma lo si subisce, di fatto, il trionfo dell’offeso sarà inevitabile, così come inevitabile sarà l’abisso nel quale precipiterà colui che ha offeso. Alla voluptas ultionis si sostituisce la voluptas indulgentiae, il piacere del perdono, che per molti aspetti è molto più seduttivo poiché implica la manifestazione di una grande forza materiale e spirituale e, per di più, è indissolubilmente correlato ad una morale trascendente che confina con la santità: ogni volta che perdoniamo ci sentiamo un piccolo re, un piccolo imperatore, un piccolo dio. Così il perdono “inflitto” può facilmente trasformarsi in ergastolo della coscienza: “ La forma sublime del disprezzo è il perdono.” Nicolas Gomez Davila